06 Apr Corpo di pane
Intervista a Elisa Ruotolo di Silvia Bistocchi
Prima di tutto vorrei chiederti cos’è per te la poesia e quando hai iniziato a scrivere in versi e come è avvenuto il passaggio dalla scrittura per il tuo solo piacere personale alla pubblicazione. Si è trattato di un percorso tortuoso o, piuttosto, di una confluenza naturale?
La poesia per me è riordinare il mio privato disordine, per trovare armonia. Ma è anche un’apertura, uno spiraglio: forse la rottura di un argine. Come ho più volte detto, scrivere versi è stato un po’ come imparare a parlare, come assistere a una terza dentizione, perché la poesia mi ha reso consapevole d’un cambiamento, di un attraversamento a lungo rimandato; mi ha permesso di riconoscermi nell’impermanenza che rifiutavo. Ho iniziato a scrivere versi da pochi anni, dopo tentativi che non miravano ad altro che a comprendere il mondo attraverso la mia interiorità complessa, complicata dovrei dire. Non pensavo alla pubblicazione. In effetti non ci penso mai, perché non so mai se finirò ciò che scrivo e se sarà meritevole. Vado avanti con circospezione, come si potrebbe fare in una notte buia, col solo conforto d’una lanterna. Non credo sia stato un percorso accidentato, ma una naturale confluenza: anche la mia narrativa ha uno sviluppo che tende a dar peso alla cura della parola, alla metafora, all’immagine, alla sensazione emozionale: a dare, più che semplicemente a dire. Narrativa e poesia sono “strumenti” di indagine dell’umano, ma io – anche se so bene che per vivere ho bisogno a volte del microscopio, altre volte del binocolo – non ho ancora trovato le giuste corrispondenze.
Ci sono tante briciole all’interno di questo tuo libro Corpo di pane, come se sgretolandoti attraverso le parole, tu potessi regalarci un po’ di quella poesia che ti abita. Mi domando se si impara mai a convivere con questa eterna scissione, o il sangue, a monte, gronda sempre nascosto in quelle bende di cui parli?
Si impara a convivere con il proprio essere molteplici, sì: col tempo si impara. Crescere (in qualsiasi età del vivere) credo sia questo: accogliere le proprie verità, i propri limiti (le briciole, appunto), e per quanto possibile ricomporsi in un pane mangiabile. È vero poi che le scissioni permangono comunque, ma sono anche ciò che ci rende umani e capaci di amore: solo chi vive il dolore riesce a tollerarlo e ad accoglierlo negli altri senza paura. Siamo esseri concreti: capaci di riconoscere solo ciò che attraversiamo. Scrivere quei versi è stato un po’ come donarmi, mostrarmi. Scendere al fondo di me e riconoscermi per ciò che ero, senza paludamenti, senza infingimenti.
In una delle tue poesie fai riferimento al proteggere gli altri, che nel tuo caso sembrerebbe dover passare attraverso la menzogna, la negazione di uno stato d’animo la cui comprensione arrecherebbe troppo peso agli altri. É una profonda forma d’amore. Non credi che nella nostra società si dia troppo valore alla verità, lasciando spesso a margine i sentimenti, a volte negativi, che ne possono scaturire?
Ricordo che da bambina si associava alla bugia l’idea di un colore, e c’erano le bugie “bianche” quelle che venivano fuori a fin di bene. Le usiamo anche da adulti, quando si ha la sensazione straziante che l’altro non possa comprendere o peggio ancora che – comprendendo – ne debba soffrire. Non giudico quanto sia opportuno servirci di questo meccanismo di protezione (per sé o per gli altri), ma so che esiste ed è praticato. Del resto, anche abbandonando la sfera del privato, si può dire che viviamo un tempo in cui c’è quasi un sacro orrore nel mostrare i propri limiti, perché questo spaventerebbe l’altro. Siamo così terrorizzati dalla solitudine che fingiamo gioie e serenità mai raggiunte pur di scacciare il silenzio dalle nostre stanze o demolire la pietà. Insomma, ci si vergogna delle proprie bende, mentre bisognerebbe solo imparare a portarle con grazia, a mostrarle.
Con “07.06.1975:ERRORE ANAGRAFICO” sembri aprirti ad infinito mare di possibilità, da quella di una nascita non ancora avvenuta che si culla beatamente nel buio del vuoto più assoluto, a quella di un’esistenza consumata, vissuta come tutte le altre, almeno all’apparenza, fra respiri e lavoro. C’è una fame di libertà non indifferente, come sfami questo appetito, nella vita di tutti i giorni?
Quella poesia è molto sincera, non solo per la precisione del dato anagrafico, ma anche perché prova a cogliere una sensazione: quella di poter ancora essere altro rispetto alla vita a cui ci si era rassegnati. Contiene il conforto delle infinite possibilità che restano, proprio a chi – in vita – non è ancora nato. La consolazione di poter scegliere ancora: ecco il limite che diventa potenzialità. Fame di libertà, appunto. Una fame che provo a calmare attraverso i libri, la scrittura e la comprensione di quella me stessa su cui per anni non mi ero soffermata. Conoscersi rende liberi: a lungo ho condiviso questo mio condominio di carne con una straniera, con una prigioniera. Questo libro è il resoconto poetico del percorso attraversato, è il primo passo verso il rifiuto di una protratta cattività. È anche il consuntivo di una remissività mutata in coraggio. Una persona cara mi ha recentemente mostrato un fiore, un piccolo, raro fiore che cresce ad alta quota. Si chiama Raponzolo di Roccia, ha una fioritura breve e cresce in un luogo assolutamente inospitale. Il suo miracolo è la sua stessa vita (perché arriva a nascere e a nutrirsi dal niente). Nella mia quotidianità provo a fare questo: a fiorire e “ad essere” nonostante tutto, anche malgrado il disagio di esser nata tardi.
Biografia di Elisa Ruotolo
Elisa Ruotolo ha pubblicato con nottetempo nel 2010 il suo libro d’esordio Ho rubato la pioggia (Premio Renato Fucini e finalista al Premio Carlo Cocito; tradotto in America per le edizioni Frish & co., e in Francia presso l’editore Cambourakis), e nel 2014 il suo primo romanzo Ovunque, proteggici (Selezione Premio Strega 2014 e finalista al Premio Internazionale Bottari Lattes Grinzane). Nel 2018 con le edizioni rueBallu pubblica Una grazia di cui disfarsi. Antonia Pozzi, il dono della vita alle parole; cui segue, nel 2019, la curatela di una selezione dalle opere di Antonia Pozzi edita da Interno Poesia e intitolata Mia vita cara – cento poesie di amore e di silenzio. La sua prima prova poetica è Corpo di pane, edita da nottetempo (ottobre 2019).
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