Interrestràre. Intervista a Tiziano Fratus

Intervista a Tiziano Fratus di Silvia Bistocchi

 C’è un forte legame fra la sua poesia e la passione che nutre per la natura, in particolar modo per quella che abbraccia gli alberi. Quale dei due amori è sbocciato per primo, ammesso sia possibile trovargli una diversa collocazione nel tempo e in che modo l’uno influenza l’altro?

La curiosità verso la natura mi accompagna fin da bambino. L’interesse e il piacere di scrivere e leggere poesia sono invece sorti intorno ai vent’anni e rappresentano una sfida e un diletto culturale.

 Leggendo la sua poesia si ha l’impressione di addentrarsi in un bosco fatto di radici profonde, intricate, velato di coloratissimi fiori viola e foglie indomite che svolazzano leggere sulle chiome degli alberi, circondate da piccoli alveoli di silenzio e da lunghe grida del vento. È un immaginario che mi porta alla mente un grande senso di equilibrio, fra basi solide e leggerezza con evidenti tracce di filosofia Zen. Può parlarci del suo percorso spirituale e di come esso ha cambiato la sua vita e la sua concezione di arte?

La scrittura e la letteratura sono soltanto una porzione del percorso di un individuo. Per fortuna è così, sebbene, scorgendo le interviste degli autori più noti ai nostri giorni, pare al contrario essersi imposta una visione elitaria del gesto di chi compone opere culturali, presentate, illustrate, indicate quali prodotti della genialità di spiriti raffinati e capaci di cogliere quel che ad altri non è nemmeno dato di immaginare. Da sempre mi fanno sorridere questi modi da aristocrazia di un tempo andato… io non credo che esistano i geni, tantomeno ai nostri giorni dove è troppo facile scrivere un romanzo e se si ha una bella faccia venderne qualche copia. No, credo al contrario in una vocazione, questo sì, e nel duro lavoro, nel farsi di uno scrittore attraverso le ore, i giorni, gli anni di fatica, di impegno, e anche di meraviglia. Lavoro suo che va coordinato con l’opera di un agente, di un editore, e la benevolenza dei librai e dei lettori. Detto questo la mia scrittura si è cristallizzata attorno a certe figure totemiche, i grandi alberi, i boschi e le foreste remote e vetuste. Ho insistito molto su questo perché li ho sentiti pulsare nel mio immaginario, hanno fecondato, hanno decorato, mi hanno trascinato. Fisicamente, quando ho avuto modo di pellegrinare fino alle loro radici, e letterariamente, quando sono rinati nel silenzio della pagina bianca. Da allora ho elaborato delle tracce-radici, che si sono andate via via specializzando, come nel caso della narrativa, o come nel caso della poesia. Nel mezzo resta la scrittura che sono andato a raccogliere in contenitori che chiamo silvari, una prosa che lambisce, talora, la ricercatezza e la precisione della parola poetica, e talora la diversa precisione e la diversa ricercatezza della parola scientifica (botanica, forestale). Nel corso degli ultimi venticinque anni si è costruito poi un percorso, che si alimenta anche della scoperta della natura, dell’immersione in selva, e che mi ha visto dapprima tentare di creare un sentiero personale nel solco delle spiritualità minori del cristianesimo, grazie anche all’esempio fulgido dei primissimi francescani e, nel nostro più prossimo contemporaneo, nelle parole e nelle azioni dell’eremita Adriana Zarri. Ma ho dovuto fare i conti con quel Dio onnipotente che sta alla base del patto fra ciascun fedele cristiano e la religione. E alla fine ho deciso di tentare un altro sentiero, di abbracciare una visione della vita che superasse questa siderea distanza e così sono approdato al buddismo, e dunque al buddismo zen di scuola Soto. Pratica legata anzitutto alla meditazione – zazen – e avvitata nelle parole impresse su carta dal maestro Dogen, contemporaneo del nostro poverello d’Assisi. Camminando e meditando nei boschi tutto questo si è come messo in ordine, ha trovato una sua consequenzialità, ed io, al momento, il mio posto. Credo che di tutto questo abbiano risentito soprattutto le scritture più prossime al silenzio che si cerca di coabitare, ovvero la poesia. Ci sono alcuni segni – le prove o come le chiamano gli americani, le evidenze – in Poesie creaturali, nella silloge I corpi cavi, uscita nel volume meditativo Interrestràre, quindi altre saranno manifeste nel prossimo libro, Sogni di un disegnatore di fiori di ciliegio, che uscirà quest’anno e, credo, in taluni passaggi dell’opera a cui più di tutte ho lavorato, per un decennio, Giona delle sequoie.

 In Poesie creaturali la poesia cresce lateralmente a se stessa, assumendo nuove forme a più dimensioni, di foglie, di natura boschiva e selvatica. Sorge quasi la voglia di afferrarle per indagarne la consistenza e tracciarne i margini. Sono parole che si riempiono di linfa vitale e che hanno un colore cangiante, diverso in base alla prospettiva da cui le si osserva. In quali occasioni ha potuto vivere così intensamente i boschi tanto da poterli ricreare con un tale potere immaginifico e come è nata questa idea originale di scrittura?

So che l’occhio che osserva le mie poesie viene anzitutto incuriosito dalla forma. Questo stile che io denoto “a geometria foliare” rientra, se vogliamo tentare uno sguardo letterario, in quelle forme di poesia visiva che abbracciano, ad esempio, Apollinaire, Marinetti e i Futuristi, le celebri poesie a rombo di Dylan Thomas, che è, quest’ultimo, invero l’unico mio riferimento certo. Un poeta che amo. Ma comporre le mie poesie secondo geometrie naturali – semi o foglie o alberi – per me è una riposta al bisogno che percepisco di dialogare col silenzio che circonda le parole. Non è un artigianato pittorico, al contrario è un apprendistato musicale. Così come nel corso del Novecento molti compositori e musicisti hanno cercato di far dialogare la musica con quel che precede e segue la musica stessa, col silenzio che circonda il suono e/o la nota, così, per me, comporre una poesia in questo modo mi consente di mettere in relazione le singole parole, il suono che producono, e i silenzi che le abitano, con quel bianco lancinante che le circonda, e che non è colore, è voce, è silenzio.

 Quanta importanza ha secondo Lei il carattere della forma in natura, dove per forma intendo un valore legato all’evoluzione darwiniana, alla sopravvivenza, mentre essa agli occhi del poeta viene spesso tradotta in meraviglia e bellezza?

Sappiamo che l’etica è materia umana. Nel resto della natura l’etica, ovvero la distinzione fra quel che è giusto e non giusto non esiste, o meglio, può esistere ma risponde a criteri per noi disumani, come la forza, la chimica, la gravità, il bisogno. Un leone adulto mangia la gazzella che è una madre che cercava di proteggere i propri piccoli. Per noi è disumano, è un comportamento che trasportato nella nostra specie sarebbe omicidio, genocidio, uxoricidio. Ma fuori da noi è così che la natura seleziona, si evolve e si rinnova. Questo è chiaro a qualsiasi osservatore della natura. Da bambino consumavo intere estati, beatamente da solo, a studiare questi comportamenti fra insetti e animali. Un accademia della conoscenza che rivive ogni volta che vado ad imbastire una nuova poesia.

In ultimo, vorrei chiederLe una riflessione sul periodo che stiamo vivendo, fatto di distanze fisiche e timori più o meno fondati! E se in qualche modo, crede, si possano comunque gettare semi per una futura germogliazione.

Di certo qualcosa accadrà. Sono scettico di fronte a tutti coloro che promettono mondi migliori, produttività e nuove forme di agricoltura sostenibile. Per carità, sono speranze legittime e utopie che conosciamo bene, ma restano idee. Questo grande spavento, quantomeno nella nostra parte di mondo, sta maturando alcune evidenze. Rende ancora più urticante la constatazione di quanto siano inetti i nostri politici, per fare un esempio chiaro. Non so se questo basterà per infondere coraggio ai cittadini che andranno alle prossime elezioni, di modo da non votarli più. Vedremo. Abbiamo la fortuna di abitare un paese che è una meraviglia, con gente in gamba, coraggiosa, che non ragiona sempre e soltanto per il proprio tornaconto. Questa è l’unica vera buona notizia che emerge da tutto questo dolore e tremore. Nel concreto penso che una volta superata la crisi, una volta trovato un vaccino, se sarà sufficiente, si tornerà alla solita vita di prima, con qualche eccezione. Ma non dimentico che su questo pianeta siamo 7 miliardi e 800 milioni di persone, che ogni individuo viene al mondo per desiderare tutto quel che si potrebbe guadagnare: una bella automobile, una bella casa, una famiglia che ti vuole bene, un lavoro addirittura appagante e ben retribuito: questa ruota dentata muove il nostro mondo.

Biografia

Tiziano Fratus (Bergamo, 1975) ha attraversato le foreste della California, del Giappone e delle Alpi dove ha perfezionato il concetto di Homo Radix, una pratica di meditazione zen in natura e la disciplina della Dendrosofia. Nell’arco di due decenni ha pubblicato una corposa costellazione editoriale che si manifesta in opere di poesia, viaggio, contemplazione, narrazione e fotografia, imbastendo i confini di un’unica grande opera letteraria compresa fra “la carta e la corteccia”, un’esplorazione nella natura e nelle potenzialità della scrittura. Fra i suoi titoli di larga diffusione si ricordano Giona delle sequoie, Manuale del perfetto cercatore d’alberi, L’Italia è un bosco, Il libro delle foreste scolpite, Ogni albero è un poeta, Il bosco è un mondo, I giganti silenziosi, Un quaderno di radici, Il sole che nessuno vede, Interrestràre, Poesie creaturali. La sua poesia è stata tradotta e pubblicata in dieci lingue, presentata in molti paesi e sostenuta dalla rete europea Versopolis. Ha tenuto personali fotografiche, illustrate nel cahier Arborgrammaticus. Attualmente collabora con «Il Manifesto» e conduce il programma Nova Silva Philosophica sulle frequenze di Radio Francigena. Vive nella campagna piemontese, laddove si esaurisce la costanza della pianura e si snodano le radici delle montagne. Sito: Studiohomoradix.com

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