15 Mag La casa sull’arancione
La casa sull’arancione
di Felicia Buonomo
Ludovic non ride mai. Nemmeno i suoi occhi sorridono. Mi sono interrogata a lungo su come fosse la forma dei suoi piccoli denti di bambino o il contorno dei suoi occhi in una posa diversa da quella della tristezza.
Ludovic ha cinque anni. Ha un fratello di sei che oggi va a scuola, una sorellina più piccola e un padre che lotta contro le difficoltà in quella terra: la povertà, in primo luogo, il dolore del lutto per la scomparsa della moglie e la preoccupazione di un genitore che vorrebbe offrire ai suoi figli un futuro degno di questo nome.
La povertà, in Africa, ha cause culturali ed economiche, inevitabili. È un paese che l’Occidente è abituato a rappresentare con i corpi di bambini smagriti, ma gonfiati da enormi ernie, corpi di impatto visivo violento. Poi c’è l’altra faccia della medaglia, che rappresenta volti di bambini sorridenti, che ti accolgono cantando e danzando. Questo immaginario non si discosta dalla realtà, nella maggior parte dei casi. Per questo guardare Ludovic «mi strappa le lacrime dal cuore».
Ma cosa può saperne un bambino del dolore? Che tipo di coscienza può avere del circostante chi non ha mai conosciuto realtà differente dalla propria? Le domande continuano a scorticare i miei pensieri.
«L’avete mai visto sorridere?», chiedo. Volevo convincermi che fosse solo un momento. Poteva avere mal di pancia, o mal di denti, o qualche disturbo tipico dei bambini di quell’età; pensieri di chi ragiona come se avesse di fronte i bambini con cui è abituata ad avere a che fare, i bambini figli del benessere e non un bambino che vive in una baracca. Ma che ne posso sapere io di cosa soffre un bambino? Mi dico mentre faccio quella domanda.
«No, non l’abbiamo mai visto sorridere». La negazione, ancora una volta, ricorre in questo viaggio della consapevolezza. No, è la risposta. E con essa nasce il mio amore per Ludovic. In quel momento, con il sole che picchia e la mia pressione bassa che ne enfatizza gli effetti, per la prima volta in vita mia, sento il desiderio di prendere in braccio un bambino. Lo faccio accorciando al massimo il gap tra il desiderio del cuore e l’azione del corpo. Lo faccio e basta. Tengo Ludovic tra le mie braccia. E lui – come mi aspettavo – non ricambia il mio calore. Ed io lo amo ancora di più. Perché sento per lui un profondo rispetto. Rispetto per i suoi occhi tristi, rispetto per le sue labbra serrate che si negano al sorriso, per i suoi movimenti veloci ma pacati. Rispetto per la sua persona.
La sua casa è una baracca. Ce ne sono tante nei villaggi della zona collinare di Dassa. Sono fatte per lo più di pietra, prive di qualsiasi illuminazione artificiale e arredamento. L’unico elemento che spesso le orna sono fili appesi alle estremità, dove vengono stesi vestiti lavati con acqua sporca, che non elimina le macchie provocate dalla terra, o dal fango. Ma la sua ha qualcosa di particolare. È buia, come tutte le altre, ma brilla di arancione. In quelle pareti sento la bellezza che mi ha investito appena atterrata in Africa.
La sua casa è arancione. Risplende di arancione anche il suo “letto”, fatto di canapa, disteso a terra nell’ora della veglia. Quando suo padre distende l’improvvisato riparo dalla terra, Ludovic si stende con naturalezza, guarda il soffitto, si rigira giocando con le mani, come a disegnare forme improbabili su quel cielo che lo separa dalle stelle. Sembra provare un sentimento di gratitudine.
Mi spolpo la mente ripensando a quella canapa che cullava Ludovic. Lo faccio mentre tento – invano – di addormentarmi, nel fresco della mia camera, che abbandono spesso per andare a fumare, cercando ristoro. Sono ossessionata dall’idea di conoscere i pensieri di quel piccolo ometto dalla pancia gonfia e l’espressione seria. Giocava con le mani disegnando sul soffitto la sua gratitudine, ho pensato mentre lo faceva. Ma forse ero io a provarlo, quel sentimento. Sentivo di avere un debito verso quel piccolo uomo dagli occhi tristi. Perché quando penso a lui, il mio cuore piange. Ma quando penso alle mie braccia intorno al suo corpo fragile, mi alleno all’esercizio della gioia.
Quando l’ho salutato, tornando a casa, percorrendo sul pick-up quelle strade prive di asfalto, che mi facevano sempre sentire su una giostra, ho pensato a lungo a quanto la tristezza di quegli occhi non gli avesse impedito di compiere un gesto ludico: prendere un sassolino e lanciarlo sul tetto della baracca. Si è fermato per attendere il ritorno della pietra, che arrivata a destinazione l’ha spinto altrove a dispensare la sua tristezza sotto il sole che arde, in quel luogo dove il verde dell’erba non resiste.
* Un estratto del terzo capitolo de “I bambini spaccapietre. L’infanzia negata in Benin” di Felicia Buonomo, edito da Aut Aut Edizioni, libro reportage sullo sfruttamento del lavoro minorile nell’industria edilizia in Benin (Africa). Ludovic è uno dei tanti bambini della zona collinare del Paese, Dassa, dove la concentrazione di bambini spaccapietre, i concasseurs, è più alta che altrove.
Biografia
Felicia Buonomo è nata a Desio (MB) nel 1980. Dopo la laurea in Economia Internazionale, nel 2007 inizia la carriera giornalistica, occupandosi principalmente di diritti umani. Nel 2011 vince il “Premio Tv per il giornalismo investigativo Roberto Morrione – Premio Ilaria Alpi”, con l’inchiesta “Mani Pulite 2.0”. Alcuni dei suoi video-reportage esteri sono stati trasmessi da Rai 3 e RaiNews24.
Pubblica il saggio “Pasolini profeta” (Mucchi Editore, 2011) e “I bambini spaccapietre. L’infanzia negata in Benin” (Aut Aut Edizioni, 2020), libro reportage sullo sfruttamento del lavoro minorile nell’industria edilizia. “Cara catastrofe” (Miraggi Edizioni, 2020), è la sua prima raccolta poetica. Parallelamente all’attività giornalistica, porta avanti un progetto di street poetry sotto lo pseudonimo di Fuoco Armato, con il quale ha partecipato a progetti di riqualificazione del territorio a Bologna, Roma e Milano, realizzando opere murali con proprie poesie inedite. Altre sue poesie sono state pubblicate sulla rivista “Argo – Poesia del nostro tempo”, da Alfonso Maria Petrosino, su Lit-blog “La rosa in più” da Salvatore Sblando, su Limes Lettere, su poetidelparco.it, sulla rivista “Periferie” da Vincenzo Luciani, su Milanocosa.it da Adam Vaccaro, sulla rivista Versante Ripido, su Margutte, da Silvia Pio su Carte Sensibili da Fernanda Ferraresso, su ClanDestino Rivista, su Atelier poesia da Clery Celeste, su IrisNews da Chiara De Luca, su La macchina sognante da Bartolomeo Bellanova, su Leggere Poesia da Michela Zanarella, su Il Visionario – blog di poesia, su Inverso – Giornale di poesia e su Patria Letteratura, da Matteo Chiavarone. Un suo testo poetico è stato tradotto in spagnolo dal Centro Culturale Tina Modotti. Finalista al Premio internazionale di poesia Don Luigi Liegro. Scrive di poesia su Carteggi Letterari – critica e dintorni. Cura una rubrica dedicata alla poesia su “Book Advisor”
Francesca G. Marone
Posted at 18:20h, 20 MaggioBellissimo, mi commuove molto l’immagine di un bambino che ritrova la forza del gioco anche in condizioni estreme.