Geografia e narrazione. In dialogo con Matteo Meschiari

Geografia e narrazione. In dialogo con Matteo Meschiari

di Ivana Margarese

 

Per poter comprendere il tuo lavoro di ricerca comincerei con una domanda generica chiedendoti se puoi parlarmi del rapporto tra geografia e narrazione.

Un universo. Centinaia e centinaia di titoli. Intere carriere accademiche… Insomma, non saprei da che parte cominciare. Posso invece provare a dire perché questa cosa interessa a me. Con Neogeografia (Milieu 2019) e Nelle terre esterne (Mucchi 2018) ho studiato il rapporto tra scrittura e paesaggio in autori noti e meno noti: Calvino, Pasolini, Montale, Manzoni, ma anche Biamonti, Sbarbaro, l’epica antico-francese, i diari di viaggio del Capitano Cartier. Ho dedicato una piccola monografia a Dino Campana (Liguori 2008) e in chiave più antropologica ho esplorato il nesso terra-racconto in Sistemi selvaggi e Terra sapiens (Sellerio 2008 e 2010). La ragione però è sempre stata una sola: capire da scrittore come fare a stabilire una relazione narrativa, poetica, cognitiva tra spazio concreto e spazio del testo. Questo mi ha aiutato a capire che la geografia è sempre narrativa e che la narrativa è sempre geografica, ma raramente è possibile costruire qualcosa di così potente da modificare la percezione collettiva. In genere questo accade in coincidenza di grandi eventi epocali, nel nostro caso l’Antropocene.

Anna Maria Ortese nel suo Le Piccole Persone scrive una cosa di rara bellezza “L’avvenire sarà nei boschi e nell’acqua, vicino a bestie amate e che ci amano: oppure non sarà”.

Sì è una bella frase che immancabilmente si spezza contro la realtà del nostro presente. Il pianeta è entrato in un’ineluttabile fase di collasso climatico, economico, cognitivo, ideologico, culturale. Siamo sette miliardi di umani su un pianeta che non può più sostenerci. Alcuni stanno pagando già molto caro tutto questo, e noi saremo come al solito gli ultimi ad accorgercene. Boschi, acque e bestie amate saranno il privilegio di qualche oligarchia economica/ecologica che potrà permettersi il lusso di vivere nelle poche oasi residue, chiaramente sulle spalle di miliardi di persone che sputeranno sangue per sopravvivere in mezzi-inferni urbanizzati. Quindi per me l’avvenire della Ortese “non sarà”, tranne forse per alcuni intoccabili parassiti.

Parliamo di cinema. Un regista che a mio parere dà molta importanza ai luoghi e al racconto dei luoghi nei suoi film è Giorgio Diritti. Cosa ne pensi?

La sua idea di luogo mi è così famigliare, nel senso che tocca le corde della mia infanzia emiliana, che faccio fatica a ricavarne delle coordinate operative. Come Ghirri, che adoro, ma la cui lezione è già così metabolizzata da chi ha vagabondato tra Bassa e Appennino che mi sembra di trovare in lui più delle conferme che non le necessarie smentite per mettersi in discussione e andare più lontano nel proprio viaggio. Così, per trovare dei paesaggi del disordine, per ragionare sul bisogno di una nuova cosmogonia, vado a cercare Werner Herzog.

Timothy Ingold definisce l’antropologia come l’arte di saper immaginare l’esistenza e di aprirsi alle immaginazioni arricchite dalle esperienze altrui.

Ho proposto e curato la pubblicazione per Meltemi del suo libro Antropologia. Ripensare il mondo (2020) proprio per questo aspetto del suo pensiero: l’apertura all’immaginazione non solo come facoltà cognitiva ma come vero e proprio approccio epistemologico per ripensare le relazioni tra i saperi. Immaginare sarà fattore centrale nel modo che avremo di rapportarci alla serie di collassi che ci attende. Tecnologia e analisi economica non saranno sufficienti per garantire una reazione efficace all’effetto domino che terrà occupata l’umanità nel futuro prossimo. Abbiamo bisogno di lavorare a nuovi scenari di previsione e l’immaginazione, come è sempre accaduto nei momenti di crisi profonda della nostra specie, è un fattore chiave per il superamento di eventi di portata catastrofica.

Morel, vocidallisola, dedicherà il suo prossimo numero al mito di Arianna e del Minotauro, una storia che ha ispirato molteplici letture e riscritture. La figura del Minotauro racchiuso nello spazio nascosto del labirinto cosa può dire ancora sulla nostra attuale capacità di immaginare e di ascoltare?

Il mito di Arianna ha precedenti e avatar. Cornovaglia, Galizia, Valcamonica, Sardegna, Siria: le più antiche rappresentazioni del labirinto sembrano risalire a 4000 anni fa. Ma a Lascaux e Altamira l’uomo ha rappresentato qualcosa che già ce lo ricorda. Poi i Greci, appunto, i Romani, il Rinascimento, per arrivare al cinema, oggi, con Labyrinth (1986) di Jim Henson o Maze runner (2014) di Wes Ball. Dalla preistoria al postmoderno, il paradigma è lo stesso: uno spazio critico che vuole produrre uno slittamento o un rafforzamento identitario. Rito di iniziazione, passaggio all’età adulta, pratica del limite. Ma, a parte la vulgata un po’ trita del perdersi per ritrovarsi, il labirinto deve la sua efficacia al livello metacognitivo che riattiva: non è tanto il perdersi, ma la rappresentazione del perdersi; non è la rappresentazione di un’azione in un luogo, ma è la rappresentazione di un’idea di azione e di luogo. Credo insomma che siamo di fronte a un’immagine di lunga durata, radioattiva, necessaria per guardare il pensiero allo specchio.

Infine vorrei chiederti dei tuoi progetti. Su cosa stai attualmente lavorando?

Ho cominciato da poco un nuovo romanzo. Pieno di terre, di popoli, di miti arcaici, di sogni. In questo periodo ci si interroga molto su quali libri scriveremo e leggeremo dopo la pandemia. Ovviamente sono discorsi poco interessanti e abbastanza inutili. Come metabolizzeremo la pandemia potremo dirlo tra alcuni anni, e forse sarà molto difficile accorgerci di come e quanto l’Antropocene sia già entrato nelle vene degli scrittori. Per quanto mi riguarda sento il bisogno di lavorare su parole come “cosmo” e concetti narratologici come “mitopoiesi”. Invece di un Antropocene distopico io vorrei lavorare a un Antropocene fantastico. Non perché io sia un inguaribile ottimista. Anzi. Per me stiamo andando verso tempi molto bui. Ma è proprio per questo che preferisco concentrarmi sul mito, sulle cose che J.R.R. Tolkien definiva “permanenti e fondamentali”. Il lampo, non il lampione.

Biografia

Matteo Meschiari (Modena 1968) è scrittore, saggista e poeta. Insegna antropologia e geografia all’Università di Palermo e svolge ricerche sullo spazio percepito e vissuto in ambito europeo ed extraeuropeo. L’antropologia dei mondi contemporanei, l’ecologia culturale e l’immaginario collettivo nell’Antropocene sono al centro della sua scrittura. Suoi libri più recenti sono Neogeografia. Per un nuovo immaginario terrestre (Milieu 2019), La Grande Estinzione. Immaginare ai tempi del collasso (Armillaria 2019) e L’ora del mondo (Hacca 2019).

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