04 Giu Fenditure. In viaggio con Giovanni Agnoloni
Intervista di Silvia Bistocchi a Giovanni Agnoloni
Fotografie di Silvia Bistocchi
Inizio col chiederti come hai intrapreso il tuo percorso di scrittore e che legame c’è, secondo te, fra la scrittura e il viaggio.
L’inizio del mio cammino nella scrittura è avvenuto alla fine del 1997, grazie alla passione per Il Signore degli Anelli di J.R.R. Tolkien, che mi ha ispirato il mio primo saggio, Letteratura del fantastico – I giardini di Lorien (Spazio Tre, 2005), cui ne sarebbero seguiti altri (Nuova letteratura fantasy, Eumeswil e poi Sottovoce 2010, Tolkien e Bach. Dalla Terra di Mezzo all’energia dei fiori, Galaad 2010, e la curatela della raccolta Tolkien. La Luce e l’Ombra, Kipple 2019). Già nel capolavoro di Tolkien – ma del resto in tutto il suo Legendarium – il tema del viaggio e dell’esplorazione del mondo è centrale. E soprattutto è stato significativo per me, perché ho sempre letto le sue opere con lo spirito che lui evidenzia nel saggio Sulle fiabe, dove sostiene che la vera letteratura feerica – ovvero fantastica, d’immaginazione, subcreativa perché crea un mondo secondario assolutamente credibile e coerente – non serve a fuggire dal mondo, ma a liberarsi dalle sue catene per poi tornarvi rigenerati e con occhi nuovi. Perciò, quello che ho sempre amato nei suoi libri è l’ancoraggio precisamente alla realtà. Ed è con questo stesso spirito che leggevo e leggo anche gli autori “del mondo reale”, e sempre con questa disposizione mentale, qualche anno dopo, ho iniziato scrivere storie ambientate nel nostro mondo, indipendentemente dalle venature distopiche di buona parte della mia produzione narrativa (i quattro libri della serie della “fine di internet” editi da Galaad, ovvero Sentieri di notte, Partita di anime, La casa degli anonimi infatti, induce a vedere le cose da punti di vista diversi, eventualmente a parlare (e pensare) in altre lingue. Insomma, è come affrancarsi dalle catene dell’abitudine (sempre per citare Tolkien, si tratta dell’“evasione del prigioniero”, non della “fuga del disertore”) per imbeversi di sostanze e sonorità nuove, capaci di arricchire il nostro pentagramma di armonie e melodie nuove e pervasive.
La geografia dei personaggi, in Viale dei silenzi, sembra sovrapporsi a quella dei luoghi in eleganti trasparenze che lasciano intravedere scheletri di luce avvolti in una fitta nebbia. Mi pare quasi di leggere un tentativo di protezione nei confronti delle fragilità umane. Come mai questa scelta così inusuale?
Quando viaggio – e in questa condizione faccio rientrare anche brevi spostamenti intorno a casa, che comunque sono dei micro-viaggi – spesso ricevo suggestioni che sembrano attraversare trasversalmente il tempo come passando per un wormhole (per rifarmi all’immaginario del film Interstellar di Christopher Nolan) per arrivarmi nette e inequivocabili. Sono impressioni percettive, o anche idee, abbozzi di progetti, insomma intuizioni chiare e distinte appartenenti a vari altrove. Voglio dire, pare quasi potersi leggere, in trasparenza rispetto alla cornice generale degli eventi, una mappatura intima e allusiva, fatta di risonanze energetiche sottili, personali e potentissime, che vengono gradualmente delineando il disegno generale della vita, suggerendo percorsi operativi che poi starà al libero arbitrio e alla volontà attuare. Non parlo quindi di una predeterminazione esterna degli eventi, ma di una sorta di contrappunto, o magari di sinfonia, tra le scelte individuali e la cornice cosmica degli eventi. Ecco forse il vero perché della mia scelta poetica alla quale hai fatto riferimento. Questa, peraltro, pare evocare un senso di protezione, sì, ma non proveniente soltanto dal fuori, ma precisamente dalla sua corrispondenza con il dentro. Viaggiando, è come se Roberto, il protagonista di Viale dei silenzi, cercasse costantemente di rimettere in asse il proprio mondo interiore con il mondo esterno, ricentrandosi ogni passo di più.
Poi ci sono le città, Firenze, Varsavia, Berlino e in ultimo Dublino, che sembrano far chiarezza in quella stratificazione e nebbia di cui prima ti ho chiesto, quasi a volerla scorticare via, sino a raggiungere l’anima più pura dei sentimenti e delle cose.
Esatto. Per questo dico sempre che le mie città sono personaggi tanto quanto i “veri” personaggi. Danno infatti un contributo essenziale alla ricerca di cui parlavo nella risposta precedente. La nebbia metafisica della non-coscienza (o della non-ancora-coscienza) – che ricorre sottilmente in Viale dei silenzi, ma compariva in modo ancor più vistoso nel mio primo romanzo Sentieri di notte – è la condizione di partenza, socraticamente il “non sapere”, di cui il protagonista è consapevole senza però sapere come orientarsi. Poi (in Viale dei silenzi) subentra l’intuizione su un dettaglio inerente alla scomparsa di suo padre di quattro anni prima, ed ecco che comincia a dipanarsi un filo di domande e risposte che in gran parte provengono dai luoghi – quasi che le persone che lui vi incontra ne fossero delle emanazioni, o degli elementali. Ognuno di questi momenti di “scoperchiatura”, o di scorticamento, come ben dici, rappresenta una spinta decisiva verso la rimessa in asse dell’identità di Roberto. E ogni città lo fa in modo particolare, con frequenze e armonie tutte sue. Firenze, sempre presente “in trasparenza” nella sua memoria, è il luogo da cui prende progressivamente le distanze, perché lì sono nati i suoi problemi. Al contempo, però, la sua immagine del passato di venti, trent’anni prima, è come la quintessenza di un’italianità fatta di cose normali, a misura d’uomo, che in seguito è andata perduta, confondendosi proprio come la chiarezza interiore di Roberto. Varsavia è stata (quattro anni prima) il luogo del distacco, ovvero dell’inopinata scomparsa di suo padre senza lasciar tracce, e oggi (in un momento in cui non è più la città grigia dell’epoca post-comunista e immediatamente post-comunista, ma una metropoli in tutto e per tutto accostabile a capitali come Berlino o Bruxelles) diventa il punto in cui ha inizio la sua riconnessione con se stesso e la verità sul passato della sua famiglia. Berlino stessa, che nella seconda metà del Novecento, e soprattutto dopo il crollo del Muro, è stata (e in fondo è ancor oggi) un’ideale città-frontiera tra passato e futuro, territorio di sperimentazione urbanistica e fucina di elaborazione intellettuale e artistica, si offre al suo percorso come luogo di transito dallo ieri al domani. Dublino e l’Irlanda tutta, infine, sono mete cariche sì dei drammi del passato di questo paese (mi riferisco soprattutto alla terribile guerra di liberazione dal dominio inglese e ai Troubles dell’Ulster), ma soprattutto portatrici del senso di esplosiva libertà del presente e del recente passato, con il boom economico e l’incredibile fioritura delle arti letteraria e musicale (peraltro vivissime anche in precedenza). Ecco perché ben si sposa con la fase finale dell’itinerario di Roberto, quella dell’avvicinamento alla verità e alla sua centratura interiore.
Si parla spesso del rapporto fra madre e figli, ma raramente si analizza quello fra padre e figli. Trovo molto interessante il fatto che qualcuno abbia voluto esplorare quest’ultima relazione genitoriale.
Il protagonista del tuo romanzo, Roberto, si rivolge in prima persona verso il padre scomparso con un monologo interiore, per tutta la narrazione, come a voler tessere la trama di un rapporto ormai sbiadito. Un filo di Arianna che prova a rimarginare quella fenditura, correndo verso tutte le direzioni possibili del labirinto, compresa quella del passato.
Vorrei una tua riflessione in merito.
Non nascondo che, per quanto il mio – come ho sottolineato nella pagina dei ringraziamenti – non sia un romanzo autobiografico, il tema del rapporto con il padre fosse per me molto importante, perché, quando ho iniziato Viale dei silenzi, mio padre era mancato da pochi mesi. Va da sé che era un uomo molto diverso dal genitore di Roberto, ma senza dubbio il tema del rapporto con la figura paterna mi risuonava dentro con decisione. Anche qui usi parole chirurgicamente esatte: parli di fenditura, che è poi la radice di quella mancanza di centratura che il protagonista cerca di ripristinare nell’arco di tutto il suo percorso attraverso l’Europa – quella stessa Europa che suo padre aveva spesso esplorato in lungo e largo, nel suo lavoro di agente di commercio. In fondo, giacché sua madre (radice di tanti suoi problemi – e anche lei diversissima dalla mia!) è una donna sostanzialmente anaffettiva, l’Europa, sia pur anch’essa lacerata e in precario equilibrio, è per lui la “madre” a cui tende e che riscopre proprio ripercorrendo le orme dell’ultimo (o ultimo noto) viaggio di suo padre. Da qui l’uso della seconda persona che caratterizza ampie parti del romanzo, diventando una sorta di dialogo ideale (perché lui immagina le risposte del padre, inserite nel romanzo che sta scrivendo) che, insieme ai luoghi e all’incontro con un possibile nuovo amore, lo orienta nel suo itinerario.
“Io però non sapevo che dire. Mi ero sempre pensato in relazione a qualcuno – a te, alla mamma, a una moglie mai veramente amata – e avevo cominciato a intravedere scorci di luce, nel grigio scuro delle nostre esistenze, solo quando mi ero allontanato dal luogo, Firenze, che aveva covato per così tanti anni le mie oppressioni.”
Pensarsi costantemente in relazione a qualcuno è un concetto molto interessante e, credo anche, assaporato nel quotidiano da molte nostre esistenze. Vuoi parlarcene?
Credo che questa necessità di confronto e di dialogo sia una caratteristica imprescindibile della nostra esistenza, perché, come ci insegna Aristotele, siamo “animali sociali”, e anche perché, in particolare nelle fasi di scoperta di sé e di ricentratura, il confronto con un “tu” – formalmente terapeutico o meno – è molto importante per capire chi veramente siamo (e questa è la lezione socratico-platonica: la dialettica come strumento di avvicinamento alla verità). Il punto, però, come dicevo prima, è che le vere risposte nascono da dentro e dal confronto-risonanza di questo centro con il mondo. “Tutto è uno”, riflette Roberto a un certo punto del suo viaggio, ovvero tutto si richiama a tutto, in un gioco di specchi per cui ciò che incontriamo, anche quando ci infastidisce, in realtà lo fa per ricordarci quello che, dentro di noi, necessita ancora di essere riarmonizzato. Solo prendendone coscienza è possibile suturare le fenditure di cui parlavamo prima. Ecco allora che il dialogo virtuale con il padre permette a Roberto di affrontare le “insufficienze” del loro rapporto prima che lui scomparisse, e l’incontro a Varsavia con la giornalista irlandese Erin Sheridan sembra aiutarlo a superare i punti rimasti in sospeso dopo il fallimento del suo matrimonio. Eppure, proprio quel loro rapporto costringerà Roberto a mettersi ulteriormente in discussione, individuando dentro di sé le risposte che contano, e andando oltre l’istintiva tendenza a chiedere risposte a suo padre. In fondo, il padre con cui dialoga è dentro di lui, ovvero è una manifestazione del suo stesso essere (o meglio, dei suoi limiti), e così la sua “donna ideale”, che crede di aver incontrato in Erin, non è altro che la materializzazione di un desiderio che sentiva fin dall’inizio molto chiaro, in profondità. Ma, per potersi eventualmente unire a lei, dovrà prima far chiarezza dentro se stesso e nel suo passato, o un’unione autenticamente libera e scevra da ambiguità non sarà possibile.
“La totale assenza di novità, il colloso attaccamento a una quotidianità che sapeva di condanna. Avrei voluto, allora come oggi, avere un gancio al quale allacciarmi per oscillare e spostarmi da quest’opprimente centro di gravità, come gli alpinisti in difficoltà. Ma la verità era che ero finito in un crepaccio. Tu, il mio capocordata, eri disperso, e le mie strade, i miei itinerari silenziosi dalle periferie ai margini di Scandicci fino al centro, si erano convertiti in un labirinto angoscioso, un interminabile gioco elastico che mi riportava sempre al cuore della mia immutabile condizione.”
Da questo labirinto, ancora una volta lui, questo dedalo di infinite ripetizioni emozionali, si può forse pensare di trovare un’uscita posta verticalmente, proprio come fa l’alpinista scalando la montagna, per ricercare la libertà?
Sì, è appunto il vertiginoso percorso di risalita che s’innesca nel momento in cui si individua – junghianamente – il cuore della propria fenditura, ovvero il punto più profondo di sé in cui è iniziata la scissione dalla propria vera identità, dal nucleo dei propri desideri, poi disattesi o non pienamente soddisfatti per tutta una serie di circostanze legate ai fatti della vita. Questi tendono –con la logica del kharma, la legge cosmica di causa-effetto – a ripresentare situazioni consonanti con i nostri problemi, in una sorta di meccanismo da “disco incantato” che riesce a esasperarci, almeno finché non intravediamo una crepa da cui filtra la luce. E allora la platonica caverna delle false credenze svela una possibile via d’uscita: in verticale, come ben dicevi. Ma il lavoro più duro è stato scendere. Adesso il venir fuori può essere addirittura fulmineo, quasi che la nebbia ricordata in precedenza si diradasse all’improvviso. Solo che non bisogna commettere l’errore di voltarsi, come Orfeo con Euridice. Il cammino di liberazione non tollera incertezze. Finché ci si volta, non si è ancora liberi.
Facciamo, per un attimo, un piccolo passo indietro: con le pagine di L’ultimo angolo di mondo finito, ci avevi catapultati in un ipotetico futuro distopico, dove internet era crollato ormai da anni.
Cosa pensi sarebbe accaduto, in questi mesi di reclusione forzata causati dal virus COVID-19, se il nostro mezzo di comunicazione più potente – che certi giorni, mi è parso persino l’unico flebile segno dell’esistenza umana – fosse stato, anch’esso, down?
In effetti, scrivendo la prefazione a quello che diventerà il libro unico della mia quadrilogia distopica, in uscita nel 2021 con Galaad Edizioni, ho riflettuto proprio su come, durante la quarantena collettiva che abbiamo vissuto, l’unica cosa che è rimasta in piedi (o quasi) sia stata proprio la Rete, in un singolare ribaltamento di quanto accade nei miei romanzi. Tuttavia, gli opposti si toccano: insomma, il mio “mondo senza internet” e il nostro mondo, iperconnesso ma impossibilitato – ove con più, ove con meno fondamento – a uscire di casa, sono entrambi formati da monadi che cercano un contatto che, se a volte è autentico e profondo, nella maggior parte dei casi è teso alla mera volontà di apparire, a riconferma della fondatezza della visione di Zygmunt Bauman di una “società liquida”, se non addirittura gassosa, mi verrebbe da dire. Io credo che il vero “valore” – immaginate molte virgolette, perché è stato un periodo odioso – di questa fase di chiusura e compressione delle nostre libertà costituzionali stia proprio nei momenti in cui non eravamo connessi a internet, e coltivavamo progetti, leggevamo, scrivevamo, suonavamo (in casa), meditavamo o pregavamo. Tutto questo, che dissona nettamente con la corsa a “farsi vedere” – dal selfie con la mascherina alla schitarrata sul balcone puntualmente ripresa in diretta sui social media –, è per l’appunto il nucleo di quella ricerca interiore che è il vero viaggio che conta, sia quando ci muoviamo nel mondo, sia quando, per esigenze sanitarie o eccessi prescrittivi, si può rimanere al massimo entro un raggio di duecento metri da casa. Se anche internet (magari per l’intenso traffico di rete, come a un certo punto si paventava) fosse venuto a mancare, non lo nego, sarebbe stato un trauma anche per me che grazie alla Rete (e soprattutto adesso) lavoro e promuovo i miei libri. Ma certamente quel livello di ricerca e di approfondimento sarebbe rimasto una possibilità aperta, perché con le frequenze dell’arte e dello spirito è sempre possibile collegarsi.
“Pensai alle Isole Aran, scogli verdi spuntati dall’oceano, percorsi da profonde crepe e spezzati da altissime falesie. E tu citavi il mare-oceano in termini che parevano richiamarsi al peregrinare di Ulisse; al suo ritorno nel luogo remoto che per lui era casa. Solo che, al posto del Mediterraneo, al cui interno Itaca rappresentava una meta minuscola e sia pur carica di un’energia smisurata, qui l’immensità liquida dell’oceano, in un gioco di specchi, sembrava espandere gli stessi territori interni dell’isola, moltiplicandoli indefinitamente.”
Vorrei chiudere con questa bellissima suggestione: cosa vuol dire per te casa? Quale immagine prende forma, nel tuo immaginario, al suono di questa parola così calda e rassicurante?
Per me casa è una dimensione interiore – proprio quella a cui facevo riferimento nella precedente risposta. Una dimensione che impariamo a riconoscere sia viaggiando, e dunque riconoscendola in certi luoghi in particolare, sia stando dove siamo nati o per il momento risiediamo. Anzi, forse è il risultato di una lunga espressione matematica, o di un articolato discorso melodico-armonico, e dunque anche energetico-spirituale, dove tutti i luoghi e tutti i momenti vissuti aiutano a convergere verso questo centro. Io, nella mia vita, l’ho riconosciuto in Irlanda e in Polonia, è vero, come anche in Svezia, a New York, e in parte anche a Berlino o in altri luoghi che ho amato e amo. Così come non posso negare che, pur non avendo un rapporto facilissimo con la mia città, Firenze sia la fonte della mia formazione cultuale, linguistica e (in parte, studiando privatamente chitarra classica) musicale. Al netto dell’importanza della famiglia e dei veri amici, ovviamente. È tutto questo che mi ha spinto e quasi costretto a scoprire il cuore della mia fenditura. E oggi è qui che vivo, o meglio è da qui che parto, schizzando fuori verticalmente dal fondo del crepaccio senza voltarmi indietro, per riversarmi sul mondo. Solo così, credo, uno scrittore può realizzare appieno la propria vocazione.
Biografia
Giovanni Agnoloni nato a Firenze nel 1976, è scrittore, traduttore letterario e blogger. Autore del romanzo psicologico Viale dei silenzi (Arkadia Editore, 2019), ha anche preso parte al romanzo collettivo Il postino di Mozzi, a cura di Fernando Guglielmo Castanar (Arkadia Editore, 2019). È inoltre autore di una quadrilogia di romanzi distopico-filosofici sul tema di un ipotetico crollo di internet (Sentieri di notte, Partita di anime, La casa degli anonimi e L’ultimo angolo di mondo finito, editi da Galaad Edizioni tra il 2012 e il 2017), in parte pubblicata anche in spagnolo e in polacco. Come saggista, ha scritto, curato e tradotto diversi libri sulle opere di J.R.R. Tolkien, tra cui la raccolta bilingue di saggi internazionali Tolkien. Light and Shadow (Kipple Officina Libraria, 2019). Infine, ha tradotto o co-tradotto saggi su William Shakespeare e Roberto Bolaño (Bolaño selvaggio, Miraggi Edizioni, 2019, tradotto insieme a Marino Magliani), oltre a libri di diversi autori come Jorge Mario Bergoglio, Amir Valle e Peter Straub. Ha partecipato a numerose residenze letterarie altre attività culturali in Europa e negli Stati Uniti, e lavora come traduttore con le lingue inglese, spagnola, francese e portoghese, oltre a parlare il polacco. I suoi articoli, recensioni e interviste sono disponibili sui blog “La Poesia e lo Spirito”, “Lankenauta”, “Poesia, di Luigia Sorrentino” e “Postpopuli”. Il suo sito è www.giovanniagnoloni.com.
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