Più forti delle avversità. Intervista ad Anna Oliverio Ferraris

Più forti delle avversità. Intervista ad Anna Oliverio Ferraris

di Ivana Margarese

 

 

 

Uno dei suoi saggi si intitola Più forti delle avversità. Questo numero della nostra rivista è dedicato al mito di Arianna rappresentata non tanto come donna abbandonata dall’eroe, che aveva aiutato a uscire dal labirinto, ma come figura di resistenza, capace di rinascere e trasformare se stessa nelle varie circostanze in cui si trova a vivere. Non a caso Arianna sarà anche sposa di Dioniso, il dio che danza. Il percorso terapeutico spesso è occasione di nuova nascita, un venire nuovamente alla luce a poco a poco.

 Il percorso terapeutico è anche questo. Si tratta di guardare la vita da una angolatura diversa da quella cui si è abituati per formazione, condizionamenti, insuccessi, difficoltà relazionali, a volte anche per “eredità” transgenerazionali. Nel saggio Più forti delle avversità si parla di resilienza – un tema che avevo già affrontato nel 2003 in un libro dal titolo La forza d’animo (Rizzoli) – ossia di quella facoltà che consente di resistere agli eventi negativi e di fronteggiarli invece di limitarsi a subirli.
Chi ha studiato la capacità delle persone di reagire ai colpi della vita descrive la resilienza come un processo che si svolge in due tempi. All’inizio si cerca di parare il colpo difendendosi o lottando contro la fonte di stress. Successivamente, in una prospettiva a lungo termine, si accettano i fatti (che possono essere reversibili ma anche irreversibili come un lutto, un divorzio, un abbandono), si attribuisce loro un senso e li si integra nella propria storia personale. E’ questa la seconda tappa ricostruttiva, quella che viene generalmente definita resilienza. Essa è il contrario di “blindarsi” o del negare l’impatto subìto. Chi fa prova di resilienza, non si difende negando l’evidenza, ma ritrova il proprio equilibrio dopo aver vacillato, là dove altri sarebbero affondati. Da questo tipo di prova si può uscire rafforzati, si trae un insegnamento per la vita.

Vorrei farle una domanda su una emozione di cui si è molto parlato in questi mesi: la paura. Come ogni emozione la paura è qualcosa di complesso e non può essere ignorata o negata, senza considerare che è connessa alla nostra capacità di creare e trasformare. Mi vengono in mente dei versi della poetessa Chandra Lidia Candiani :«Non voglio imparare a non aver paura, voglio imparare a tremare. Non voglio imparare a tacere, voglio assaporare il silenzio da cui ogni parola vera nasce”.

Nel romanzo Lord Jim (1900) Joseph Conrad descrive con la maestria che gli è propria i brutti scherzi che può fare la paura, in mare, su una nave battuta dalle onde e dalla tempesta e con ottocento passeggeri a bordo. Jim il comandante in seconda si mette in salvo con il capitano e l’equipaggio abbandonando la nave con tutto il suo carico umano. Una scelta che gli costerà la degradazione e il tormento, per il resto della vita, di essersi lasciato suggestione dai segni allarmanti di un possibile naufragio nella notte invece di affidarsi alle procedure che i comandanti di una nave devono mettere in atto in questi casi.
Jim aveva reagito, senza veramente accorgersene, a un insieme di percezioni tanto rapide quanto violente che lo avevano indotto a una scelta sbagliata: la nave infatti fu poi soccorsa da una cannoniera francese che portò in salvo gli ottocento passeggeri. Jim dovette poi affrontare un processo e soprattutto l’onta di avere, per quell’unica volta nella vita, ceduto al panico. Forse, spiega Conrad, Jim non aveva avuto paura della morte ma dell’immagine del disastro.
La sua maledetta immaginazione – scrive Conrad – gli aveva evocato tutti gli orrori di un panico, il precipitarsi furioso, le urla pietose, le scialuppe stracariche che imbarcavano acqua; tutti insomma gli atroci episodi di un disastro in mare, quali li conosceva da letture e racconti. Forse a morire era rassegnato, ma suppongo che volesse morire senza terrori in sovrappiù, silenziosamente, in una specie di coma tranquillo.
Jim aveva dunque avuto paura della paura. Uno degli effetti pericolosi di questa emozione è quello di creare delle attese catastrofiche sulla base di esperienze pregresse: attese e previsioni, ad alto tasso di emotività, che interferiscono con l’organizzazione di una difesa razionale.
In realtà la paura è, all’origine, un’emozione benefica, serve per rispondere prontamente alla minaccia, mettersi in salvo, attaccare o reagire individuando la strategia più efficace in quel frangente. Serve anche per segnalare ad altri la presenza di un pericolo, perché tutti sappiamo intuitivamente interpretare i segni della paura negli altri (movimenti, mimiche, gesti, richiami). Questa emozione mette in circolo sostanze chimiche che attivano l’organismo: entra in funzione il sistema nervoso simpatico, il sangue affluisce rapidamente dai visceri, ai muscoli, al cervello. E se un forte spavento può avere l’effetto di paralizzare l’azione e il pensiero, nella maggior parte dei casi la paura ha invece il merito di acuire i sensi, attivare l’attenzione e mettere in moto la mente che rapidamente passa in rassegna le possibili soluzioni.
Quando la paura svolge il suo ruolo difensivo al servizio della sopravvivenza, non ci sono danni oltre a quelli legati al pericolo in sé. In seguito ci si può dimenticare dell’accaduto oppure ricordarlo; ma il ricordo in questi casi ha la funzione positiva che hanno gli apprendimenti, non quella negativa che hanno i traumi irrisolti. Può però accadere che l’organismo, invece di ritornare allo stato di calma, continui a registrare uno stato di tensione e di forte emozione che trasforma la paura in panico. Quando ciò si verifica è facile entrare in confusione e perdere la lucidità. Il rischio di prendere decisioni affrettate e sbagliate aumenta notevolmente.
Oltre al panico, la paura può generare uno stato di ansia cronico dove le sensazioni di allarme vissute durante l’emergenza invece di diminuire di intensità fino a scomparire continuano ad essere presenti con tutto il loro carico di angoscia e di perdita. Lo shock, provocato dalla paura, produce uno scossone dell’apparato psichico e questo scossone, non elaborato, diffonde tutta la sua carica ansiogena. Il suo ricordo, incistato nella mente e nel sistema nervoso, proietta una visione minacciosa e deprimente sul futuro. Ed è quello che potrebbe accadere ad alcuni di noi nel periodo successivo alla pandemia. Abituati a restare chiusi in casa per scongiurare il virus letale, assuefatti ormai a ergere barriere difensive, materiali e psicologiche, contro i possibili “untori”, ad allarmarci per i colpi di tosse altrui, ad allontanarci da chiunque si avvicini, potremmo non riuscire a liberarci immediatamente di questi atteggiamenti di autodifesa e sviluppare dei timori irrazionali verso qualsiasi novità.
Ci sono stati interi secoli in cui le novità producevano non soltanto sospetto e inquietudine, ma anche panico e reazioni aggressive. Lo straniero, per esempio, era considerato pericoloso nell’XI secolo e lo era ancora nel XVI. Gli spiriti più coraggiosi e più disponibili alla conoscenza si lasciavano attrarre dagli aspetti eccitanti delle novità, ma la massa tendeva a ritrarsene e a rassicurarsi con cerimoniali e abitudini di vita collaudati dal tempo.

Viviamo in una società che esalta la prestazione e l’efficienza e sembra avere dimenticato il valore della lentezza e persino della noia. Che conseguenze ha questo in ambito educativo?
“​È molto facile notare che i bambini prendono un grande interesse al silenzio; sembra che essi provino una specie di incanto; si potrebbe dire che sono rapiti in meditazione”. In questa proposta pedagogica Maria Montessori è stata un’anticipatrice. Oggi infatti si assiste a una rivalutazione del silenzio come pratica educativa valida in tutte le età della vita, sia a livello individuale che collettiva. Vorrei chiederle una sua riflessione in merito.

 Da attenta osservatrice dei comportamenti infantili qual era, Maria Montessori ha avuto anche modo di notare i momenti di riflessione che hanno i bambini, i quali, come noi adulti, hanno bisogno di rielaborare mentalmente le esperienze che vivono. Fin da molto piccoli i bambini hanno bisogno di dare senso alle esperienze che fanno, agli stimoli che ricevono, alle parole che gli adulti pronunciano, alle reazioni degli altri. Hanno anche bisogno di spazi mentali in cui sviluppare l’immaginazione e la fantasia, di mettersi in contatto con le proprie sensazioni, emozioni e sentimenti. Un eccesso di stimoli e di sollecitazioni li confonde, non concede loro lo spazio sufficiente per rielaborare e comprendere. Per maturare, valutare, immaginare, scegliere e non subire soltanto dei condizionamenti. Per crescere autodiretti e non eterodiretti.
E’ dunque sbagliato esporli precocemente allo schermo televisivo, così come a quello del computer o dello smartphone. Rapidamente ne diventano dipendenti e si aspettano di essere continuamente sollecitati e stimolati dall’esterno. Il che non consente loro di prestare sufficiente attenzione anche alle proprie emozioni e ai propri stati d’animo, riducendo così lo spazio di quel “mondo interiore” (secret garden) indispensabile alla salute mentale e all’equilibrio psicologico di ognuno di noi. In “TV per un figlio” (1995), mettevo in guardia dall’omologazione dei bambini e dalla progressiva riduzione dei giochi spontanei che non soltanto aiutano a crescere, sono fonte di piacere, di scoperte, di invenzioni, di libertà, di autonomia, ma rappresentano anche una sorta di terapia spontanea per paure, dolori, angosce e frustrazioni.

In A piedi nudi nel verde viene sottolineata l’importanza del rapporto con l’ambiente e con gli spazi aperti per i bambini. Imparare non può essere una attività isolata ma ha a che fare con la vita, con il gioco, la sperimentazione e la scoperta. Come potremmo ripensare in tal senso la didattica nelle scuole?

Sono parecchi i Paesi europei in cui le attività al chiuso si integrano con quelle all’aperto: nei paesi scandinavi per esempio i programmi di studio della biologia prevedono uscite e osservazioni nei boschi. Sono numerose le scuole (ma ce ne sono anche in Italia) che hanno un orto che i bambini coltivano. Alle osservazioni negli ambienti naturali si possono poi collegare calcoli matematici, letture scientifiche, di narrativa, a carattere storico e antropologico. I bambini possono fare delle fotografie e realizzare dei filmati. Fondamentale, come metodo di apprendimento, è la distinzione fatta da John Dewey tra <<esperienze primarie>> ed <<esperienze secondarie>: quanto sia cioè efficace l’approccio diretto alla conoscenza e quanto invece possa essere noioso e inefficace, soprattutto per i bambini, un approccio indiretto e soltanto teorico. Nel libro A piedi nudi nel verde spiego come un gruppetto di bambini di una seconda elementare riuscì a convincere il maestro e a trascinare tutta la classe in un progetto di birdwatching durato per mesi fino alla fine dell’anno. In un terreno incolto nei pressi della scuola quei bambini avevano scoperto casualmente degli uccelli e subito, galvanizzati dalla scoperta e dalla varietà dei piumaggi, si erano interessati alle caratteristiche dei volatili e al loro stile di vita. Il maestro li aveva seguiti e instradati, consentendo anche agli altri bambini di uscire dall’aula per fare osservazioni e raccogliere materiale che poi, rientrati in aula, sistemavano e ampliavano con letture e ricerche.

Come ultima domanda le vorrei chiedere di consigliarci un libro secondo lei imprescindibile in questo momento per orientarci e navigare meglio.

Libri “imprescindibili” ce ne sono tanti in ambiti diversi, qui posso raccomandare il mio scritto con Alberto Oliverio Più forti delle avversità. Individui e organizzazioni resilienti (Bollati&Boringhieri), in sintonia con il momento difficile creato dalla pandemia del covid19.

Biografia

Psicologa e psicoterapeuta, ha insegnato Psicologia dello sviluppo all’Università La Sapienza di Roma. E’ stata membro della Consulta Qualità della Rai e del Comitato Nazionale di Bioetica. E’ autrice di saggi, numerosi articoli scientifici e testi scolatici in cui affronta i temi dello sviluppo normale e patologico, dell’educazione, della famiglia, della scuola, della formazione, della comunicazione in contesti diversi, del rapporto con tv e nuovi media, delle dinamiche identitarie nella società contemporanea. Ha diretto per nove anni la rivista “Psicologia Contemporanea”. E’ stata collaboratore per molti anni del Corriere Salute (Corriere della sera) e ora scrive sulla rivista dei pediatri UPPA, su “Conflitti”, su “Psicologia Contemporanea” e su MIND. Tra i suoi libri più recenti ricordiamo: Più forti delle avversità. Individui e organizzazioni resilienti (con Alberto Oliverio, Bollati Boringhieri, 2014); Tuo figlio e il sesso (Rizzoli 2015); Il terzo genitore, vivere con i figli dell’altro (Raffaello Cortina ed. 2016, nuova ed.); Piccoli bulli e cyberbulli crescono (Rizzoli 2017); Prova con una storia (Milano 2018, nuova ed.); Tutti per uno (romanzo, Salani 2018); Sopravvivere a un adolescente in casa (Rizzoli 2019); Non solo amore. I bisogni psicologici dei bambini (Giunti 2019); Famiglia (Bollati Boringhieri 2020)

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