23 Giu Immaginare un altro mondo è possibile. In dialogo con Tim Ingold
Immaginare un altro mondo è possibile.
In dialogo con Tim Ingold
di Ivana Margarese
La lettura del saggio di Tim Ingold, Antropologia. Ripensare il mondo, è una lettura necessaria per comprendere la condizione attuale di una disciplina complessa come quella antropologica, oltre a essere una lettura che ha il merito di essere al contempo allegra e profonda e che pone il lettore a interrogarsi lui stesso insieme all’autore quasi si trattasse di una di quelle chiacchierate imperdibili che talvolta nella vita capita di poter fare senza alcun calcolo o preavviso. Ecco perché ho scelto, con l’entusiasmo di chi immagina un autore come familiare, di chiedere a Tim Ingold di commentare alcune frasi “chiave” di questo suo testo e di riflettere con me su alcuni temi che ho a cuore.
“Ogni stile di vita è una sperimentazione comune dell’esistenza”.
Muovo dalla premessa che per ciascuno di noi vivere è un problema – un reale problema. Ci sono problemi reali e falsi problemi. I falsi problemi già contengono all’interno la loro soluzione: è nascosta all’interno e la sfida sta nel trovarla. I veri problemi invece sono aperti, devono essere risolti man mano che li affrontiamo, e mentre ci proviamo il problema cambia con noi. Nessuno sa quale sia il modo giusto di vivere la vita: non troveremo la risposta in nessuna scienza, filosofia, credo o visione del mondo. In realtà, non facciamo che vivere alla continua ricerca di risposte. È come se la vita fosse un esperimento che va avanti all’infinito, ma non siamo soli nel compierlo. Ci si lavora insieme, ecco perché la vita è socialità. I nostri collaboratori non devono assomigliarci; non hanno nemmeno bisogno di essere umani. Ciò che conta è che si prendano cura di noi, come noi facciamo con loro. La vita sociale, quindi, si basa sulla reciprocità del crescere insieme. Mi piace chiamarla “corrispondenza”.
“La destinazione è ancora sconosciuta”.
Ci sono due lati all’attenzione, tuttavia. Da un lato c’è l’attenzione che arriva attraverso la competenza – con la conoscenza di cosa cercare, cosa notare, nello svolgere i compiti che ci stanno davanti. Facciamo affidamento su questo mentre procediamo nel mondo, anche nelle attività più banali. Ad esempio, quando camminiamo, sappiamo come posizionare i nostri piedi, adeguando continuamente i nostri movimenti e la postura alle irregolarità della superficie del suolo. Eppure, ad ogni passo che facciamo, ci mettiamo a rischio, cadendo in avanti nel vuoto – in un futuro sconosciuto – fino a quando il prossimo passo ci condurrà al passo da seguire. Questo è l’altro lato dell’attenzione, che sta nel metterci in balia di ciò che accade. In ogni attività che intraprendiamo c’è questa combinazione, di padronanza pratica e rischio esistenziale. Se quest’ultimo ci lascia liberi di cadere; il primo ripristina la nostra presa in modo che possiamo continuare. La vita è vissuta nell’intervallo scorrevole tra i due.
Questo primo numero della nostra rivista è dedicato al mito di Arianna. Leggendo il tuo testo ho più volte pensato allo spirito dioniosiaco inteso come procedimento creativo e sacro dire di sì alla vita.
La vita è creativa; è produzione in corso di novità. Invece di andare dall’inizio alla fine, la vita digerisce continuamente le sue estremità e le espelle in nuovi inizi. È, in questo senso, equivalente alla nascita continua del mondo e di noi stessi come esseri all’interno di esso. Ma la produzione di novità è abbastanza diversa dalla originalità. Quest’ultima viene dal trasformare la creatività della vita, dalla sua capacità di produrre in maniera innovativa. Oggi la chiamiamo creatività. Ma la creatività dell’innovazione non risiede nel progresso. Si trova, piuttosto, guardando indietro, confrontando le idee e i prodotti più recenti con ciò che era accaduto prima. È scoprire novità all’interno dei problemi attuali, separando le vecchie soluzioni e ricombinandone gli elementi. Eppure nulla di veramente nuovo viene mai dalla ricombinazione. Come con un caleidoscopio, puoi scuoterlo e ottenere un nuovo schema ogni volta, ma ognuno viene catturato nella stessa sala degli specchi. Nella nostra società orientata al consumatore, satura di novità, non esiste un nuovo inizio, solo una proliferazione di fini.
In un mondo ancora abitato da divisioni e stereotipi come possiamo immaginare di vivere insieme in una comunità.
Con il nuovo arriva il diverso. La nascita degli esseri è un processo in cui ci si differenzia costantemente gli uni dagli altri, anche se si procede insieme, in un mondo comune a tutti. Vivere insieme nella differenza è il significato originale di “comunità”. Letteralmente, comunità significa “darsi insieme”. Se i partecipanti hanno qualcosa da dare, qualcosa con cui contribuire, è solo perché ognuno ha un’esperienza diversa da portare. Il pensiero moderno, tuttavia, ha disastrosamente confuso la differenza con la divisione. Suppone che le comunità siano legate dall’identità, dall’omologazione, spingendo ogni differenza su un confine tra “noi” e “loro”. In questo è stato supportato dalla psicologia che insiste sul fatto che gli esseri umani sono predisposti a classificare le persone sulla base di marcatori di identità come razza, etnia o orientamento sessuale. Lo stereotipo è stato naturalizzato. In realtà, la stereotipia deriva da un’inversione che trasforma le differenze derivanti dall’appartenenza delle persone a delle comunità in attributi di identità che appartengono loro. Se vogliamo imparare di nuovo a vivere in comunità, allora questa inversione deve essere annullata.
Vorrei farti una domanda sul futuro dell’educazione e sull’insegnamento stesso inteso non come accumulo e trasferimento di nozioni, ma come esperienza da vivere insieme agli studenti.
Come possiamo imparare e ancora una volta vivere insieme nella differenza? Questa lezione ha bisogno di essere insegnata o la apprendiamo con la stessa facilità con cui apprendiamo la nostra madrelingua, a condizione che ci siano opportunità per questo? Tradizionalmente, l’insegnante ha sia il potere che l’autorizzazione a trasmettere la conoscenza a una generazione più giovane considerata ignorante e incapace di apprendere senza istruzione. L’insegnamento è quindi servito come meccanismo per la riproduzione dell’ignoranza e dell’incapacità. Istupidisce crescita e sviluppo Invece di ‘aprire le menti verso gli altri e il mondo, fornisce la conoscenza con cui gli individui possono difendersi o prendere le armi contro di esso. Ma se l’apprendimento è un’apertura collettiva all’esperienza differenziale, allora quale ruolo rimane per la pedagogia? Cosa può insegnare l’insegnante? Il compito dell’insegnante, credo, è quello di guidare gli alunni nei percorsi di crescita e scoperta di sé che si intraprendono necessariamente insieme. Un buon insegnante è esempio nella conduzione dello studio, una guida compassionevole per gli alunni e un instancabile critico del loro lavoro.
Nel tuo saggio parli della ben nota dicotomia tra natura e cultura. Mi piacerebbe concludere chiedendoti semplicemente : cosa possiamo imparare dagli altri esseri viventi?
Altri esseri viventi hanno molto da dirci, se solo ascoltassimo. Ma questo non significa solo studiarli. È piuttosto studiare con loro. Non si tratta di acquisire informazioni. Si tratta di educare la nostra attenzione e inizia dal momento in cui gli esseri che studiamo iniziano a mostrarci come osservarli. I cacciatori indigeni sanno che per cacciare un animale devi quasi diventare l’animale stesso. Devi imparare a muoverti come lui, ad ascoltare come lui, a sentire il terreno sotto i tuoi piedi o il vento sul tuo viso, come fossi lui. Solo allora puoi anticipare sufficientemente le sue mosse per abbatterlo. Ma questo non è limitato ai cacciatori. In qualsiasi campo di studio, devi avere un’idea degli esseri che stai studiando, sintonizzando la tua sensibilità con la loro. Si tratta di diventare percepire gli esseri viventi e prendersi cura di loro. Saggezza e cura, non conoscenza, sono le condizioni per portare avanti le nostre vite insieme.
No Comments