26 Giu Estremi occidenti: Walter Siti e Michel Houellebecq. Dialogo con Valentina Sturli
Estremi occidenti: Walter Siti e Michel Houellebecq.
Dialogo con Valentina Sturli
di Ivana Margarese
Inizio con il domandarti da cosa sia nata l’idea per questo saggio.
Stavo facendo una tesi di dottorato a Padova, sotto la guida di Emanuele Zinato, sulla teoria di Francesco Orlando (poi pubblicata da Quodlibet, questo febbraio, col titolo di Figure dell’invenzione) e ho pensato che sarebbe stato interessante testare alcune sue grandi intuizioni in merito all’intrinseca ambivalenza della letteratura anche su autori ultra-contemporanei, di cui lui non si era mai occupato.
Mi sembrava che Houellebecq e Siti si prestassero bene perché i loro romanzi sono in genere – e seppure in modo diverso – percepiti come urticanti, irritanti, paradossali, ma anche in grado di dire qualcosa di vero e di profondo sulla realtà che ci circonda. Nel 2018, per riflettere sulle affinità e divergenze tra questi autori ho organizzato insieme a Silvia Cucchi una giornata di studi, patrocinata dall’Università di Padova e dall’Ambasciata di Francia in Italia, con lo stesso titolo che poi ha avuto il mio libro, Estremi occidenti. In quell’occasione sono intervenuti studiosi di fama internazionale come Raffaele Donnarumma, Agathe Novak-Lechevalier, Davide Luglio, Gianluigi Simonetti, Emanuele Zinato, e giovani bravissimi ricercatori come Luca Cristiano, Lorenzo Marchese, Maria Giovanna Stati. Abbiamo provato a fare insieme il punto della situazione, abbiamo discusso per un giorno intero, e poi abbiamo pubblicato i nostri interventi sulla rivista Contemporanea. A quel punto ho pensato che ero pronta per un mio libro su Siti e Houellebecq, maturato da quelle riflessioni, dal dialogo coi miei colleghi e da quello che andavo scrivendo nella mia tesi di dottorato. A Mimesis si sono detti interessati al progetto – ringrazio Ugo Maria Olivieri per avermi ospitato nella sua collana Forme e Ideologie – e… ecco qui il libro.
La letteratura rispetto alla saggistica ha la risorsa di articolare più a fondo non soltanto le contraddizioni collettive, ma anche quelle del singolo, rispettando ambiguità e paradossi senza avere la pretesa di risolvere o giudicare univocamente. L’io che parla attraverso i protagonisti dei romanzi non è un io autorevole dal punto di vista intellettuale o morale, ma un io che si trova impantanato nel mondo e che proprio per questa sua condizione rivendica di poter essere autorizzato a parlare.
Assolutamente sì, e questa penso sia anche la grande lezione di Francesco Orlando: la letteratura (intesa in senso ampio, molto ampio, come forma artistica di cui fanno parte anche il cinema, la canzone, il cabaret, la barzelletta, la pubblicità!) è il luogo in cui possiamo come esseri umani articolare le nostre contraddizioni, dare voce ai nostri paradossi, a quello che nella società è di volta in volta represso, respinto, non accettato. Nella letteratura trova spazio e si rende pensabile tutto quello che nella realtà è spesso problematico, difficile, socialmente e moralmente sanzionato. E questo non è certo un fenomeno che riguarda solo il contemporaneo: pensiamo a Delitto e castigo, dove si riflette sulla liceità o meno di uccidere una persona detestabile, molesta, cattiva; o ai Fratelli Karamazov, dove quella persona è il proprio padre. Ma pensiamo a Lolita che indaga l’attrazione sessuale di un signore per una dodicenne, a tutte quelle commedie di Molière in cui si esplorano i vizi più ridicoli e bizzarri dell’animo umano (la grettezza dell’Avaro, la vigliaccheria del Malato Immaginario, il ridicolo snobismo del Borghese gentiluomo). E l’incesto in Fedra? E la perpetua illusione di sé in Don Chisciotte e Madame Bovary? Ogni opera letteraria ci aiuta a pensare e a tollerare un conflitto, un dilemma, un paradosso che nella realtà saremmo chiamati a risolvere prima possibile, o a rifiutare recisamente. Direi che il romanzo moderno, ma prima di lui già il teatro e il poema, e su su fino al mondo antico, ci raccontano – in modi e forme diversi – attraverso l’esperienza del singolo qualcosa che è valido per tutti; ci aiutano ad elaborarlo, a entrare in risonanza emozionale con conflitti, angosce, pulsioni, desideri, aspirazioni, tentazioni che non sempre è facile portare a coscienza. E poi sì, spesso il narratore e/o il protagonista del romanzo è qualcuno che si dibatte, che cerca, che compie le sue scelte (o non-scelte), i suoi sbagli, che peregrina. Che non vuole dirci una verità diretta e sapienziale, darci un ammaestramento o “insegnarci qualcosa”: siamo noi che dobbiamo ricavare qualcosa dalla storia facendo esperienza del mondo anche attraverso i suoi occhi. Ogni grande romanzo ci fornisce delle lenti – magari anche molto, molto distorte e distorcenti, ma sempre comunque illuminanti – attraverso cui guardare. Poi quel che ci facciamo è affare nostro.
Walter Siti, uno dei due autori che prendi in considerazione in questo saggio, ha dichiarato in una intervista di avere l’impressione che oggi dei desideri si parli molto poco e si parli più di bisogni: “credo che questo inacidirsi dei desideri abbia generato tutto quel rancore che oggi si respira intorno a noi”.
Penso che Walter Siti abbia ragione, come succede spesso perché Walter Siti è una persona molto intelligente, che sa cogliere bene i mutamenti del contemporaneo, anche minimi; perché ha questa straordinaria capacità di annusarli nell’aria e nei fenomeni sociali, e di riuscire a dar loro forma compiuta nei suoi romanzi. Viviamo in un mondo in cui alla grande sbornia edonistica che ha retto – parlo per l’Italia, ma è valido per gran parte dell’Occidente – ancora per tutto il ventennio berlusconiano, è subentrata la crisi economica. Alla crisi si è aggiunta in questi mesi l’emergenza sanitaria: un bel pasticcio davvero. Oggi per molti, soprattutto nelle giovani generazioni e in quelle di mezzo come la mia (che sono nata a metà degli anni ’80), la preoccupazione principale è quella di sopravvivere in qualche modo: con lavori precari, arrabattandosi come si può, girando il mondo alla ricerca di una possibilità. Il che porta anche dei vantaggi – siamo più aperti, più poliglotti, più curiosi, forse, dei giovani di altri tempi e altri mondi – ma siamo anche molto meno sicuri. È chiaro che quando arriva la paura, l’incertezza, l’angoscia vera sul futuro, la tendenza è a proteggersi. E quando ci si deve proteggere, quando si deve lottare per la sopravvivenza, c’è poco spazio per desiderare.
Houellebecq nei suoi testi mette in questione i nostri assunti sulla libertà. Infatti nonostante sia stata per tanto tempo nel mondo occidentale l’istanza sovversiva per eccellenza sembra invece il desiderio inconfessabile di sottomissione a incarnare il vero sollievo degli uomini contemporanei, che poco reggono la libertà che hanno scelto.
Questo è proprio quello che dicevo quando parlavo del fatto che la letteratura ci aiuta a dare voce a contenuti repressi, problematici, scandalosi. Per molto tempo è stato uno scandalo che una moglie e madre della buona borghesia di provincia francese potesse avere il desiderio di tradire il marito e di lasciarsi alle spalle il suo asfissiante ménage familiare: Madame Bovary di Flaubert dà voce proprio a questo, che per il suo tempo era un contenuto molto scandaloso, e non a caso il libro e il suo autore sono stati al loro tempo censurati, accusati e processati. Oggi l’adulterio (almeno quello raccontato nei romanzi) non scandalizza più nessuno, così come l’omicidio, l’ateismo, l’incesto. Che cosa per noi occidentali contemporanei oggi è davvero, davvero un tabù? Per esempio, la sottomissione a una religione, a un credo ideologico assoluto, a un’autorità che governi e diriga dall’alto le nostre vite: viviamo in un mondo post-ideologico, in cui in tre secoli ci siamo prima sbarazzati dei Re, poi della religione e della relativa morale sessuale, delle ideologie totalizzanti… cosa ci resta? Molto, naturalmente, e io sono felice di vivere – come individuo e come donna – in un mondo che non criminalizza l’aborto (anche se sempre più spesso dobbiamo assistere a inquietanti messe in causa e marce indietro su questo e altri fondamentali diritti) e non mi impedisce di divorziare, in un mondo che mi permette di votare, di studiare e di scegliere come vivere. Non è questione di ideologia. È questione che la letteratura ha il compito di mettere sempre il dito nella piaga, di stimolare anche le domande più antipatiche e scomode. E allora Houellebecq si chiede: “Non è che per caso da qualche parte tutta questa libertà (vera o presunta) un po’ la paghiamo? Non è che da qualche parte tutta questa libertà la percepiamo anche gravosa, inquietante, stancante?”. Tutta la sua opera può essere letta come un tentativo ambivalente, paradossale, sempre rinnovato e inesausto, di riflettere su questa domanda. Lo stesso fa Siti, per esempio, quando si mette a scrivere un libro per indagare uno degli ultimi tabù della nostra società ultraliberale in fatto di morale: quello del desiderio sessuale degli adulti per i bambini, in Bruciare tutto. I grandi romanzi sono sempre, in ogni tempo – anche in un tempo come il nostro, che apparentemente sembra essersi lasciato alle spalle ogni radicale conflitto morale, sociale, di classe – capaci di andare a scovare una contraddizione bruciante, un nodo problematico che disturba. Vorremmo dimenticarcene, magari, ma la letteratura è lì apposta per impedircelo.
Altro elemento che viene sottolineato nel tuo saggio è come nei romanzi di Houellebecq la conoscenza capiti come per rivelazione improvvisa, e sempre estremamente dolorosa. I protagonisti giungono a percepire la realtà delle cose, lo fanno perché costretti dall’esperienza quasi pavloviana del dolore, che intanto che li distrugge li eleva anche rispetto alla menzogna e alla falsa coscienza generale.
Sì: in Houellebecq la conoscenza capita, all’improvviso, ed è sempre la presa d’atto di un limite, di una dolorosa manchevolezza, di una faglia oltre la quale non si può più spingersi. Il dolore in Houellebecq è sempre connesso con la presa d’atto di un’abissale e irrimediabile solitudine. Come se un lento processo di segregazione dell’individuo dal resto del mondo, di ogni individuo da ogni altro, cominciato per tutti e da sempre già nell’infanzia, arrivasse a un momento di evidenza, un momento che rivela che le cose stanno così e non altrimenti. In questo universo narrativo – in antitesi aperta con una retorica che ci vuole oggi tutti vicini, tutti connessi, tutti sempre in contatto e raggiungibili (che incubo!) – i personaggi sono invece tutti separati gli uni dagli altri, le possibilità di comunanza, calore e reciprocità sono incerte e minacciate, comunque destinate allo scacco. L’infelicità dei protagonisti è tutta qui: la coscienza della divisione irrimediabile, la fine di ogni possibile utopia. E tuttavia resiste il tentativo di pensare una società/socialità diversa, magari proiettandola nel futuro come alla fine delle Particelle elementari, magari rappresentandola come fallimentare e imperfetta come in La possibilità di un’isola. Oppure di concepire una qualche conciliazione sul piano individuale, come quando Houellebecq ci parla delle poche, fragilissime, commoventi intese delle coppie (per poco, almeno) felici.
Vorrei mi dicessi qualcosa a proposito del presunto antifemminismo di Houellebecq.
Houellebecq è il narratore che nelle Particelle elementari (p. 92 dell’edizione italiana Bompiani) scrive, a proposito della nonna del protagonista Michel:
“Quella donna aveva avuto un’infanzia atroce con il lavoro in fattoria dall’età di sette anni, in mezzo a dei bruti alcolizzati. La sua adolescenza era stata troppo breve perché potesse conservarne un ricordo concreto. Dopo la morte del marito aveva lavorato in fabbrica, senza smettere di badare ai quattro figli; in pieno inverno scendeva in cortile a prendere l’acqua per lavare se stessa e i figli. A sessant’anni e passa, da poco in pensione, aveva accettato da capo di occuparsi di un bambino – il figlio di suo figlio. Anche a lui non aveva fatto mancare niente – né abiti puliti né bei pranzetti la domenica mattina, né amore. Tutto ciò, nella sua vita, l’aveva fatto. Qualsiasi anche approssimativa analisi dell’umanità dovrebbe necessariamente tener conto di casi come questo. È storico: esseri umani di questo tipo esistono. Esseri umani che lavorano per tutta la vita, e lavorano duro, solo per abnegazione e per amore; che per spirito di abnegazione e di amore danno letteralmente la propria vita al prossimo; che tuttavia non hanno mai in alcun modo la sensazione di sacrificarsi; che in realtà non hanno mai immaginato maniera di vivere diversa da quella di dare la propria vita al prossimo per spirito di abnegazione e di amore. In pratica, questi esseri umani sono generalmente delle donne”.
Houellebecq è noto per molte tirate anti-femministe al vetriolo, passi in cui attacca la liberazione sessuale, la disgregazione della famiglia che lui concepisce come l’ultima nicchia di possibile felicità – sempre minacciata dalle spinte al godimento della società dei consumi. In questo c’è qualcosa di reazionario, o almeno ci sarebbe se stessimo parlando di opinioni politiche e non di romanzi, dove come abbiamo detto c’è posto per tutto. La cosa certa è che in Houellebecq non esistono personaggi maschili completamente e univocamente positivi. Succede invece con alcune donne, poche, ma succede. Perché la donna per Houellebecq può, solo lei, essere dotata di una caratteristica miracolosa e straordinaria in mezzo alla brutalità del mondo: la capacità di creare il legame; di fornire calore; di darsi senza pensare al proprio tornaconto. Penso che Houellebecq attacchi nel femminismo tutto quello nel femminismo che ha lavorato – giustamente, a parer mio! Senza femminismo non avremmo i diritti che oggi ci sembrano scontati, e non lo sono per niente perché si è dovuto lottare per averli – a distruggere questa immagine di donna-madre idealizzata, piena di amore e abnegazione. È una visione molto pericolosa della donna, se applicata alla lettera al mondo reale. Ma nei suoi romanzi Houellebecq esplora con nostalgia accorata questa forma d’amore, che oggi sembra perduta per sempre. E in fondo fa quello che hanno fatto tanti scrittori anti-moderni tra Ottocento e Novecento: celebra forme di vita in via di estinzione, spacciate, ma che non sempre sono state sostituite da alternative migliori. E soprattutto dà voce alla frustrazione, alla rabbia contro chi ha lavorato a farle tramontare. Ancora una volta, dunque, una notevole ambivalenza: qualcosa che ha segnato un progresso indubitabile nella realtà – la liberazione della donna da vincoli secolari di sottomissione e tutela – ha fatto sparire modi di essere che in qualche misura si possono (anche, a volte, da una certa prospettiva) rimpiangere.
Il Kitsch e il fasullo possono essere considerati Leitmotive nel discorso di Siti?
A Siti piacciono le contraddizioni, e anche a me. Il Kitsch, il fasullo sono Leitmotive nelle sue opere nella misura in cui sono sempre anche qualcosa che ci dice una profonda verità, perché mettono in moto un profondissimo desiderio. La Verità con la V maiuscola è sempre, in questo universo narrativo, qualcosa che ha a che fare con il desiderio: ma – e qui sta il paradosso tipicamente sitiano, e l’intuizione geniale – Siti ci racconta di un desiderio tanto più autentico quanto più è scatenato da oggetti, immagini, corpi e situazioni dichiaratamente fasulli, comprati, costruiti, fittizi. Come sta insieme la realtà del desiderio, la sua profondissima urgenza, con la necessità che esso abbia sempre a che fare con l’artificio e col Kitsch? Questa contraddizione è precisamente uno dei nodi più interessanti di tutta l’opera di Siti. Un nodo che non è facile, e probabilmente neanche auspicabile, riuscire a sciogliere del tutto.
Michel Houellebecq in La Carte et le Territoire scrive “Aveva coscienza di vivere su un isolotto improbabile di felicità e di pace, si rendeva conto che si erano creati una sorta di nicchia tranquilla, lontana dai rumori del mondo, di una benignità quasi infantile, in opposizione assoluta alla barbarie e alla violenza cui era messo di fronte ogni giorno nel suo lavoro. Erano stati felici insieme; erano ancora felici insieme, e probabilmente lo sarebbero stati ancora finché morte non li avesse separati”. Concluderei chiedendoti una riflessione sulla felicità come possibilità di un’isola.
Una riflessione sulla felicità in generale o in questi due autori? Perché sulla felicità in generale non so bene cosa dire, per me la felicità è darsi l’opportunità di seguire il proprio desiderio e non tradirlo per nessuna ragione; il che non vuol dire fare sempre e solo quel che si vuole, questa sarebbe una banalizzazione. Vuol dire continuare sempre a interrogarsi su quello che si chiede alla vita e che si è disposti a darle in cambio. In Houellebecq penso che la felicità sia una tensione verso qualcosa che si sa che è perso per sempre – una condizione di fusione e beatitudine infantile, a-problematica, preverbale e amniotica che quando si riesce a raggiungere nella vita adulta è sempre destinata al fallimento. In Siti la felicità piena non esiste o è problematica, è sempre qualcosa che semmai si riesce a rosicchiare un po’ per caso, un po’ perché si aprono delle occasioni insperate, delle miracolose temporanee epifanie. Però c’è anche un’altra possibilità, che i suoi romanzi secondo me mostrano: la felicità è anche una continua avventura del pensiero: poter parlare di tutto, non fermarsi davanti a niente, la gioia infantile e anche profondamente mentale (nel senso migliore del termine) di masticare sputare distruggere – la stessa distruttività che sappiamo essere la radice primaria di ogni grande creatività.
Biografia
Valentina Sturli si è formata alla Scuola Normale Superiore di Pisa e all’Università di Padova, dove ha completato un dottorato in Scienze linguistiche, filologiche e letterarie. È attualmente docente a contratto di lingua e letteratura italiane presso l’UFR d’Études Italiennes di Sorbonne Université a Parigi. Si occupa di storia della critica italiana, teoria della letteratura e letterature comparate. Ha pubblicato saggi sulla letteratura contemporanea italiana e francese, sull’horror soprannaturale e sulla serialità televisiva. È autrice del volume Figure dell’invenzione. Per una teoria della critica tematica in Francesco Orlando (Quodlibet, 2020) e co-curatrice di Vecchi maestri e nuovi mostri. Tendenze e prospettive nella narrativa horror all’inizio del nuovo millennio (Mimesis, 2019). Estremi occidenti (Mimesis, 2020) è la sua seconda monografia.
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