“NON POTRO’ PIU’ LIBERARMI DI ARTEMISIA”. ANNA BANTI E LA BIOGRAFIA DELL’ARTISTA

“Non potrò più liberarmi di Artemisia”. Anna Banti e la biografia dell’artista.

di Giovanna Di Marco

Anna Banti (1895 – 1985)

Anna Banti si tormenta: Artemisia Gentileschi è stata sepolta due volte. La prima, alla sua morte; la seconda, con la perdita del racconto che su di lei aveva scritto, finito chissà dove, perché c’è la guerra (siamo nel 1944). Da quelle macerie e da Firenze scrive della pittrice caravaggesca, anzi, riscrive. Questa volta si tratta di un romanzo, dove molti aneddoti della vita reale della pittrice non corrispondono, dove nuove trame si avviluppano e sono quelle tutte interiori. La pittrice parla a volte in prima persona, facendo capolino prepotentemente tra le pagine del racconto. Lo stile è forse sorpassato, enfatico, ma, abituandosi a esso, il lettore ne viene addomesticato, a mano a mano, ne riconosce la voce.

Anna Banti non esiste: è il nome preso in prestito da una parente che le appariva nobile ed elegante. Lei è Lucia Lopresti, ed è la moglie di Roberto Longhi, famoso storico e critico d’arte.  Anche lei è uno storico dell’arte, ma, con un marito di tale portata in questo campo, abiura quella ricerca. Come Anna Banti diventa scrittrice, ma il campo d’indagine originario ritorna e da qui ricaviamo l’interesse per Artemisia Gentileschi: la preponderanza per l’interpretazione della personalità dell’artista (tipica della lettura longhiana) vuole dare voce alle vicende della nota pittrice. E dalla guerra ne scrive, seguendola nelle sue peregrinazioni: Roma, Firenze, Napoli, Genova, la Francia, su, fino all’Inghilterra. C’è il racconto dello stupro, ma non del processo che ne derivò; le nozze e l’abbandono del marito; la maternità sofferta e una figlia poco affettuosa (molti elementi, ripeto, non corrispondono con la vera biografia). C’è il gorgo in rivoli interiori, una sorta di catabasi, e, soprattutto, un atavico senso di vergogna. Ma c’è anche l’affermazione di sé, la libertà dell’artista secondo dei canoni forse ben più sciolti rispetto alla prassi di quell’epoca. Anna Banti vuole riscoprire l’ispirazione, le ferite, le pieghe più profonde di una donna che a quei tempi faceva un lavoro da uomo, la sua solitudine esistenziale che diventava atto creativo. Le descrizioni delle opere d’arte non sono molto ricorrenti, ma risultano incisive, già dalle prime pagine come mimesis: “Aveva a modello un’ala grigia di piccione, pazientemente ricucita e incollata, che doveva figurare ala d’angelo e, sul manichino, un ritaglio di broccato azzurro”. Il dipinto che più volte viene evocato è Giuditta che decapita Oloferne, forse il più famoso, introdotto dal discorso diretto di alcune dame fiorentine che ce lo stanno a narrare. Poi si concentrano sul sangue di Oloferne che sta per essere decapitato: “Ritornavano sempre al sangue che Artemisia dipingeva, una carneficina tessuta, rivo per rivo, come un ricamo sul bianco lino”. Ma quella scena è la sua vendetta sul suo stupratore, Agostino Tassi: “Le sciocche dame non si accorgevano di chi fosse la truculenza, che, sulla tela, Giuditta aveva principiato a scoprire: di buon’ora e sola Artemisia aveva cercato nello specchio i tratti dell’eroina e le aveva risposto un ghigno che ormai antichi motivi ispiravano. […] Agostino, il pugnale, la miseranda scena del letto a colonne avevan trovato la via di esprimersi non a parole o con interiore compianto”.

Artemisia Gentileschi, Giuditta che decapita Oloferne, 1612 – 1613, Napoli, Museo Nazionale di Capodimone

Il dipinto ricorre spesso come memoria dell’origine del suo male di vivere, insieme ad altre immagini, ad esempio gli angeli dipinti dal padre, Orazio Gentileschi: “Rivedeva gli angeli luminosi e soffici dipinti da Orazio, ma divenuti battaglieri, trasfigurati in uno splendore celeste e silenzioso”.  O dall’ispirazione data da alcuni personaggi incontrati: la servetta Delfina che cantando “dimenticava di essere serva d’osteria e non pensava a far nulla, le braccia le si distendevano lungo i fianchi e la sua bocca morbida dolcemente increspata di suono, rimaneva semiaperta, quasi attenta a una risposta. Così la disegnò Artemisia”. Fino all’Autoritratto come allegoria della Pittura che Banti reputa invece il ritratto di una pittrice, Annella De Rosa, personaggio presente nel romanzo, incontrato a Napoli e successivamente assassinata dal marito geloso, una “figura senza modello, di memoria: ma di quale memoria? Se lo domandava mentre le sbocciavano sotto mano una guancia di caldo pallore, capelli neri raccolti in un nodo negligente e sfatti sul collo e sull’orecchio”.

 

A un tratto, nel racconto, Artemisia sente il bisogno di scrivere delle lettere per ricordare, per definire meglio quei recessi della coscienza che solo la parola può suggellare. Banti, dunque, come scrittrice, si identifica con la sua protagonista che, nel frattempo, ritorna a dipingere, come in una sorta di scambio: “Le lettere che avrebbe potuto scrivere, adesso, erano quadri”, stabilendo quel principio comune alle arti e ribadendo il legame intimo con l’artista vissuta tre secoli prima: “Non potrò più liberarmi di Artemisia, questa creditrice è una coscienza puntigliosa e ostinata a cui mi avvezzo come a dormire a terra”. Il rapporto tra narratrice e personaggio non è inteso in senso univoco, ma è un dialogo dove l’una necessita dell’altra: Anna e Artemisia sono insieme come in “un gioco convulso di due naufraghe che non vogliono perdere la speranza di salvarsi su una botte”.

E allora non è arduo accorgersi quanto tutta la scrittura di Banti ricerchi e faccia emergere delle verità dal fondo dell’anima, suscitate però da immagini. Narrare d’arte può essere un’arte e lo stile descrittivo pittorico viene ricercato in una scaturigine che deve essere visiva. Quale elemento di Artemisia l’ha sollecitata affinché diventasse impossibile liberarsene? “Forse è rimasta sul Pincio, davanti alla finestra di Cecilia Nari, o nell’atto di appuntare il primo velo donnesco alla scollatura del corpetto di panno grosso; o davanti alla spinetta dove posò, ragazzina docile e segreta, per Santa Cecilia”. Banti cerca sempre un’immagine che la ricolleghi all’ispirazione conferitale da Artemisia, rivendicando in una posa, un momento della sua vita, come se fosse una composizione pittorica. Non può liberarsi di Artemisia di fatto per l’impossibilità di liberarsi del suo primo interesse che è l’arte, rievocata sotto un altro codice con il sigillo della parola.

Artemisia Gentileschi, Autoritratto come allegoria della Pittura, 1638 – 1639, Londra, Kensington Palace

 

 

 

 

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