27 Lug L’ultimo sesso al tempo della peste. Intervista alle scrittrici
L’ultimo sesso al tempo della peste.
Intervista alle scrittrici.
DI FELICIA BUONOMO E SARA MANUELA CACIOPPO
L’ ultimo sesso al tempo della peste è un eBook a cura da Filippo Tuena pubblicato da Neo Edizioni nel 2020. Lo scrittore racconta così la nascita del progetto:
“Il 24 febbraio 2020, due giorni dopo aver viaggiato su un treno da Roma a Milano che, solo per un caso, non era quello fermato alla Centrale perché trasportava attraverso l’Italia alcuni tra i primi casi di coronavirus, mi sono svegliato all’alba. Mi succede spesso, non solo in tempi di pandemia. Verso le 6 ho scritto su Facebook un post in cui mi domandavo se non sarebbe stato interessante raccogliere racconti sul sesso in tempo di peste. Nel giro di due ore ho avuto più di settanta adesioni. A quel punto ho chiuso il post, in qualche modo operando anch’io una sorta di quarantena. Chi era dentro, era dentro; chi era fuori, era fuori.
Ognuno di questi racconti risponde alla domanda: come è, o potrebbe essere, l’ultimo sesso prima di una paventata fine? In quali forme? Di che tipo? Dove? Con chi? Ognuno di questi racconti è il tassello luminoso di questo libro proibito. I proventi saranno devoluti al Centro Senologico dell’ospedale “G. Bernabeo” di Ortona ? ASL Lanciano-Vasto-Chieti (Abruzzo)”.
Felicia Buonomo
F.B: La pubblicazione colpisce già dalla sua genesi, a mio avviso. Nell’introduzione il curatore parla di una call lanciata e chiusa nel giro di due ore. Sarebbe interessante capire quali autori avevano già maturato un testo o una bozza di testo, che fosse corrispondente al tema proposto (evidenziando, così, un certo allineamento riguardo i pensieri che questo periodo di pandemia hanno animano molti di noi).
Francesca Piovesan (autrice del racconto Il cigno): Io non avevo alcuna bozza o idea di testo quando Filippo Tuena ha lanciato la call. Anzi, credo di essere stata anche una delle ultime penne a inviare il racconto, intorno a fine Marzo, primi di Aprile. Comunque ho scritto in maniera molto scorrevole, e in un paio di ore avevo terminato tutto.
Rossella Pretto (autrice del racconto Tourbillon): Una bozza di testo c’era, se vogliamo chiamarla così, più propriamente un’immagine derivante da un’esperienza fatta qualche giorno prima dell’annuncio del lockdown. Aveva a che fare con il sesso? No, non posso dirlo; ma con la gestione delle relazioni sicuramente. Quell’immagine, che ha uno spazio marginale all’interno del racconto, ha lavorato dentro di me ed è stata occasione per la stesura di una poesia inclusa nell’antologia curata da Matteo Bianchi per Samuele Editore. Un’altra call rivolta ai poeti che volessero testimoniare il momento che stavamo e stiamo attraversando. Dopodiché ho risposto all’invito di Filippo riprendendo lo spunto di partenza. Forse perché non avevo ancora maturato del tutto l’idea, c’era altro da dire. Sesso e distanziamento sociale non vanno molto d’accordo, creano un cortocircuito o un paradosso. E dunque ho cominciato a riflettere su quanto sia urgente il bisogno di contatto fisico anche in chi lo rifiuta e si rifugia in un mondo alternativo, quello del garbuglio della mente che ricrea una propria realtà svincolata dalle circostanze esterne. Il bisogno permane: se non posso soddisfarlo uso le scorie della realtà per dar forma a una dimensione personalissima dove poter respirare in libertà. Un processo schizofrenico, certo – ed è di questo che tratta il racconto – ma che ha qualcosa in comune con l’attività della scrittura, che nasce nel corpo, si scontra con quanto resiste e poi si arrende alla pagina. O, in questo caso, si distende nel letto…
F.B: Scrivere di sesso – se escludiamo la letteratura di genere – pone sempre l’autore in un terreno scivoloso, a seconda del personale senso del pudore. Legarlo a una condizione di straordinarietà, quale quella di una pandemia, potrebbe persino esasperarlo. Alcuni racconti sono, infatti, più espliciti, altri più legati alla condizione sentimentale che governa le relazioni, anche sessuali. Nel lavorare a un testo che poggia su questa relazione sesso/pandemia, quali terreni di emotività avete calpestato? E perché proprio quelli?
Elena Giorgiana Mirabelli (autrice del racconto I dadi) :
La relazione sesso/pandemia – altra declinazione della relazione eros/thanatos – ha necessariamente chiamato in causa lo stato d’animo. Non ho avuto problemi nell’immaginare che tipo di sessualità volessi rendere, ma ho avuto difficoltà, sul piano emotivo, nel capire quale atmosfera volessi creare. Il mio stato d’animo è passato attraverso diverse fasi e tonalità, e ciò ha influenzato l’ideazione del racconto fino al momento della stesura, quando la mia ansia e il mio timore avevano raggiunto il picco. Ed è lì che la relazione si è sbilanciata verso il suo estremo non vitale. Per questo motivo il sesso descritto, più che essere esplicito, è divenuto meccanico e cupo. Ed è lì che ho esperito la bellezza e il potere salvifico della narrazione: scrivendo ho iniziato a sentire meno ansia e timore, ho modificato la realtà del mio quotidiano.
Francesca Piovesan (autrice del racconto Cigno bianco): Per quanto riguarda i terreni emotivi calpestati credi di aver attraversato varie emozioni come la paura, l’ansia del futuro, il dolore anche fisico per poi approdare alla passione dell’attrazione fisica, seppur legata a una ritrosia iniziale, a un non voler lasciarsi andare, a una mancanza di vita spontanea. Il racconto esplicito di un rapporto sessuale, almeno nel mio caso, sta anche a significare un ritorno alla normalità, al desiderio quotidiano, alle circostanze inaspettate di conoscenze e incontri.
F.B: La solitudine, fisica, l’abbandono, che porta con sé le domande che hanno la loro genesi nel senso di colpa e, al contempo, capaci di farci rimanere aggrappati al ricordo che non si vuole far sfuggire. Sembra essere questa l’operazione fatta con questa narrazione. Che successivamente sposta il baricentro dell’attenzione dalla tragedia comune a tutti (il contagio e i conseguenti morti) alla tragedia personale, ad opera dell’uomo sull’uomo. Il non sentire, non accorgersi di nulla, diventa dunque l’apparente liberazione dal dolore. Come mai ha scelto di sviscerare il tema proposto rappresentando il sesso come espressione di violenza?
Valentina Fortichiari (autrice del racconto La peste): A volte le ‘voci’, le presenze di un racconto arrivano così, da lontano. E non cercate. Nessuna intenzione da parte mia di parlare di sensi di colpa. La voce, il sentire, l’occhio, il vedere della bambina sono emersi da soli. Ho immaginato l’orrore, la devastazione, la morte che la peste provoca, e il male, la follia, la violenza conseguenti, dovuti all’uscire di senno per ciò che accade. La violenza di un secolo buio, dove donne e bambini pativano le peggiori torture. Ma Natalie dopotutto era riuscita persino a non vedere, e a coltivare un mondo interiore ricco e legato alla natura, unica consolazione. E dunque per lei fuggire dall’orrore era tornare a guardare il tramonto che le faceva dimenticare tutto, dimenticarsi degli altri esseri, e di se stessa. Sperdersi in quelle visioni, persino dopo la violenza subita, era anche per me un modo di riscattare il suo dolore. Ho cercato di mettermi nella pelle di quella bambina, nei suoi occhi. Di patire con lei. Perché anche per me guardare la natura è consolazione. È gioia. L’orrore le aveva cancellato i ricordi. Natalie si trasforma in una bambina sola di fronte alla violenza, abbandonata a badare a se stessa. Di fronte a questa violenza, non ci sono domande. C’è un istinto puro, una innocenza, violata, macchiata da un sesso insano come qualunque violenza su un essere che non sa difendersi. La natura è la controfaccia innocua dell’orrore.
F.B: Nel testo il legame sesso/peste fa leva sulla clandestinità delle relazioni, con un faro puntato sulla caducità di un rapporto di tale manifattura, accelerata dalla condizione di “appestati”. Sembra che il tema fondante del racconto sia la solitudine, o il cambiamento che non arriva, con il sottofondo di un virus che mangia la carne. È stato il tema a generare questo tipo di riflessione, o l’ha solo incentivato?
Antonina Nocera (autrice del racconto Tender is the last night): Sì, il tema della caducità che tiene insieme il testo è affiancato e ingigantito da quello della malattia, un evento che interviene sul tempo, rompendo una sequenza. La malattia nel racconto è anche una sorta di dispositivo di accelerazione dei sentimenti, di amplificazione delle proprie paure e ossessioni. Ho pensato al Teatro e il suo doppio di Antonin Artaud più che a Boccaccio. La peste è una malattia dell’anima, un accadimento che corrode il pensiero prima dei corpi, e che porta inesorabilmente a interrogarsi sul significato profondo di ciò che siamo e su ciò che agiamo in quanto attori dei nostri desideri. La storia si muove su due binari paralleli: il senso della caducità che è innescato dal normale logorio dei corpi e quello aggiuntivo del virus corrosivo che ha segnato i corpi guariti. Da qui il doppio fondo dei pensieri degli amanti che vivono sulla soglia di un eros un po’ stantio che non riesce a contrastare il meccanismo inceppato del rapporto sentimentale. Oltre, Thanatos detta le sue leggi ferree, ma gli amanti non ne fanno tesoro.
F.B: La scrittura – in questo racconto – procede per lampi, tipico della prosa brevissima (o prosa poetica). A mio avviso, un quid che rende potente ogni singola immagine, che finisce con l’avere una propria autonomia rispetto alla trama, che ugualmente ha un suo ordine e attrattività. Pur considerando che ogni scrittore ha il suo stile di appartenenza, quanto il tema sesso/pandemia ha incentivato il procedere con tale passo di scrittura?
Marilena Renda (autrice del racconto La clausura): Ho sempre pensato che la materia di cui decidiamo di scrivere, se la ascoltiamo, stabilisca da sé il proprio stile e la forma in cui disporsi sulla pagina. Ogni materiale contiene già in nuce la sua struttura. Nel caso di questo racconto, l’ho scritto di getto praticamente il giorno dopo l’invito di Filippo Tuena. La forma così breve si presta bene ovviamente alla frammentarietà; mi piaceva inoltre l’idea della contrainte, di rispettare dei limiti stabiliti da un altro. Aggiungiamo a questo, dal punto di vista del tema, il doppio limite del lockdown e della clausura religiosa: può essere, ho pensato, un’esperienza che fa esplodere i confini che abbiamo posto alla nostra vita.
F.B: Il racconto è espressione di diverse dimensioni dell’essere. C’è la struttura sociale pandemica, c’è il rapporto umano con se stessi e il proprio corpo, il sesso esplicitato e descritto senza remore, che attraversa corpo ed emotività con la stessa intensità. Il racconto ha un ordine, ma sa aprire ipertesti di riflessione; è questa la sua potenza. Il sesso viene rappresentato come unica liberazione rispetto a una «febbre da peste» che altera non solo le condizioni fisico-sanitarie, ma anche un’interiorità che si muove funambola sul filo delle insicurezze. Quanto ha contato l’impianto descrittivo dell’atto sessuale nel rendere il concetto che l’intero testo sembra voglia esprimere?
Francesca Piovesan (autrice del racconto Cigno bianco): L’atto descrittivo dell’impianto sessuale conta molto nel racconto. Un atto sessuale che , sicuramente, avviene in un tempo non troppo lungo, anche breve, viste le condizioni fisiche e psicologiche dei due protagonisti. Nel fare, forse, l’ultimo sesso, lei, Clelia, riscopre la sessualità femminile, la sicurezza del piacere e del desiderio, un corpo che considera piena rappresentazione della malattia, del disgusto. Mentre Clelia si lascia andare alle sensazioni e a una riscoperta della sua sicurezza fisica e poi emotiva, Dario ha dei piccoli momenti di tenerezza e dolcezza, che forse non sono facili da cogliere, dei piccoli riguardi verso la donna che è con lui. La ricerca, l’essere generoso nel recarle piacere, un bacio finale sulla fronte. La Peste infuria ma, nel mondo, c’è ancora posto per una coppia che unisce passione e grazia in un locale sporco. Orgasmi che coinvolgono ogni senso, una riscoperta della sensibilità smarrita.
F.B: – È interessante l’operazione fatta, con questo racconto, sul concetto di tempo, sfasato nella sua linearità, con un incipit che annuncia «un ricordo del futuro». Che si unisce a quello di libertà, mancata, o stroncata, o alterata dalla mente. L’arte – della parola, nel caso di specie – ha il compito di aprire varchi di riflessione sulla società; il suo testo sembra incentivarli con una grande potenza espressiva. Crede che il nostro quotidiano sociale – esasperato da questo periodo di limitazioni causate dalla pandemia – sia permeato da spazi di manovra sempre più tendenti alla limitazione delle libertà personali?
Cinzia Bomoll (autrice del racconto Déjà vu): Forse parte della gente rimarrà con una sorta di “sindrome della capanna” anche quando questo periodo di covid sarà terminato. Il cervello e le dinamiche personali si adattano alle nostre “paure”, e fin qui sarebbe anche una reazione sana, non fosse che temo patologie di “paranoia” più frequenti e “organizzazioni sociali” che approfitteranno di questa condizione per cambiare sulla base dei propri interessi le abitudini di massa. Questo succedeva anche prima, figuriamoci poi. Forse quando tutto questo sarà finito ci renderemo conto di quello che avevamo e abbiamo perso. E ci rimboccheremo le maniche. E, chi può, andrà controvento.
Sara Manuela Cacioppo
S.M.C: Nel vostro racconto, intitolato Tempête (Tem-Peste), il corpo degli amanti funge da riparo alla tempesta nascente, una tempesta anche metaforica, specchio del periodo tragico che stiamo vivendo: un tempo di peste appunto. Nonostante la caducità della vita, il desidero del corpo dell’altro permane anzi si accresce, diventando, ora più che mai, l’unica fonte di vita e di piacere. Il vocabolario romantico e sensuale trasporta il lettore in una dimensione quasi onirica, sembra che la vicinanza del corpo amato renda possibile l’impossibile e porti chiarore nel buio:
Serrés l’un à l’autre comme pour laisser une empreinte, leurs odeurs mélangées leur donnaient une identité nouvelle. Les barrières de leurs peaux, disparues
Emerge un’immagine dell’atto sessuale particolare: il sesso come consolazione e rinascita. È stato questo per voi il sesso, un’esperienza che rinnova il corpo, lo nutre e lo fa rifiorire sotto una nuova forma quando tutto intorno è deserto?
Chiara Mezzalama e Franck (autori di Tempête Tem-Peste): Consolazione, riparazione, rinascita… c’è un po’ di tutto questo nella nostra idea dell’incontro sessuale, come se il corpo capisse prima e meglio dove si trova l’energia vitale, quella che manca nella società di oggi, fatta di solitudini giustapposte, di desideri mancati, e ora anche di malattia e di morte. Il desiderio come antidoto alla morte, come risposta alla rovina che ci circonda, è questo che volevamo raccontare; il sesso ne è una delle possibili forme. Certo si tratta di un’idea romantica, il sesso nel racconto è un modo per andare verso l’altro, quasi fino a confondersi, mescolarsi, ma questo è possibile soltanto se c’è una profonda fiducia reciproca. È ancora possibile fidarsi degli altri, allorché l’altro è spesso raccontato come estraneo, potenzialmente pericoloso e oggi può anche essere vettore di contagio? Nel racconto esiste tuttavia una dimensione tragica, perché credere alla forza liberatoria del desiderio, credere al corpo, che per definizione è fragile e transitorio, andare verso l’altro con il cuore e la mente aperti, comporta un margine di rischio. La possibilità di una ferita tanto dolorosa e profonda quanto intenso e forte è stato il piacere…
S.M.C: Il contrasto fra il desiderio proibito e la retta condotta morale definita “regola” sono il fulcro su cui ruota Danza Macabra:
“Non si può” parevano dire quegli occhi neri, fondi come un abisso. Un orrido di pece bollente, quelle pupille dilatate e lucide, in cui frate Francesco si sarebbe buttato a capofitto senza alcun indugio, a costo di rosolare all’inferno per l’eternità. L’inferno, d’altronde, da settimane non lo temeva più; e cos’era l’inferno se non quello che si era appena abbattuto sugli uomini? Per punirli? Per metterli alla prova?
In questo periodo di incertezza e morte, la vita ha un sapore nuovo e le regole hanno abbassato il sipario, eppure i due frati sembrano resistere, conservano la purezza del vero amore rigettando l’erotismo dei loro corpi. Cosa li spinge a combattere il desiderio carnale che li pervade?
Cinzia Pierangelini (autrice del racconto Danza macabra): Come un piccolo dio pagano lo scrittore, davanti al foglio immacolato, crea un suo mondo e, proprio come succede a un dio, una volta che ai personaggi viene donata la loro effimera vita di parole, essi, in qualche modo ormai reali, si arrogano il diritto del libero arbitrio scegliendo da sé il percorso da intraprendere. Perché Francesco e Cesare, finalmente liberi da qualsiasi costrizione, ormai soli al mondo, mantengono viva la regola e addirittura sembrano più sereni, quasi pacificati? Come accennato non è sempre semplice trovare un senso univoco a ciò che si scrive, e si rimane coscienti del fatto che non è detto che la propria interpretazione sia l’unica possibile e che non vari addirittura col passare del tempo e della contingenza che ci ha ispirati. Fa parte della magia dello scrivere dopotutto seguire i personaggi, vivere con loro, sorprendersi perfino per le loro azioni. Di certo, in Danza macabra, un peso nell’evoluzione del sentimento tra i due frati lo ha la grande dirittura morale del giovane Cesare, che non cede all’innocente peccato dell’amore neanche mentre il mondo intorno crolla miserevolmente; la sua ferma convinzione spinge anche il più sensuale Francesco a un livello superiore, sublimando il suo sentimento ed epurandolo, almeno razionalmente, dell’aspetto carnale a favore di un sentire che acquista qualcosa di mistico, virginale, ancora più puro se paragonato alla sconcezza tutta terrena che la peste semina intorno a loro. In un mondo serrato dalla morte, putrescente, che non pare avere via di scampo, Cesare è un po’ il giovane eroe senza macchia che tutti vorremmo essere, in fondo, e in questa bellezza trascina con sé l’amico meno forte, rendendolo migliore. I due frati scelgono di cantare la lode più alta che si possa fare alla vita: quella di rispettarla per ciò che è o che si è deciso debba essere, senza farsi trascinare via dagli eventi, senza cedere alla paura e ai compromessi, rimanendo fedeli a se stessi. Durante i terribili mesi dell’emergenza, dopotutto, non è forse stato questo il compito più arduo affidato a ognuno di noi?
S.M.C: In Immuneamore il linguaggio si fa specchio dell’età dei protagonisti, il ritmo si fa più lento a mano a mano che gli anni passano, il sesso cambia, gli umori si modificano, i pensieri aumentano. A tuo avviso, quale rapporto intercorre fra lingua e sessualità?
Eleonora Vianello (autrice del racconto Immuneamore): Il sesso è una forma espressiva che anima una parte molto vasta dei nostri pensieri ed emozioni, traducendosi in parola. La ricchezza del lessico sessuale italiano è un patrimonio linguistico comune e parte integrante della quotidianità. Stimola la fantasia a tal punto da declinarsi in parole, metafore, allusioni, espressioni dialettali che attingono dal mondo vegetale, animale, naturale, culinario. Insomma un vocabolario tanto esteso quanto effimero!
A mio parere il rapporto tra lingua e sessualità dipende da un fattore che definirei “universale”. Il sesso è una delle pulsioni fondamentali dell’uomo, è mistero, energia vitale, fonte di forti emozioni ed ansie, perciò stimola la produzione di parole per esprimere questi aspetti. Nel mio racconto “Immuneamore”, i due protagonisti percorrono trentanni di vita emotiva e sessuale insieme sullo sfondo di tre diversi periodi storici – la libertà degli anni ’70 che li vedrà in India; l’attivismo degli anni ’80 sotto la minaccia invisibile del nucleare; e l’inizio dei 2000 con il bagaglio di consapevolezze e disillusioni all’alba di una nuova “peste”. Convivono, da sempre, con la malattia neurodegenerativa della protagonista e con il loro amarsi a ritmi diversi ma simbiotici. Il linguaggio esplicito scelto risponde all’urgenza di verità dei protagonisti: l’eccitazione del primo incontro lascia spazio allo struggimento del finale in un ciclo vitale e sessuale che rappresenta l’essenza intima di ogni individuo nella circolarità della vita. Il loro primo sesso, eccitante e vorace, innesca una serie di ansie e censure dei pensieri ricorrenti della protagonista che evolveranno in un accanimento verbale, poi sciolto nella struggente intimità finale. La verità del linguaggio segue l’evoluzione emotiva dei protagonisti che imparano insieme a sciogliere i loro nodi esistenziali, prendendo coscienza di sé stessi, dei propri sentimenti, dei propri pudori. Alcuni ammessi, altri mai confessati, fino alla fine. Lei immune alla vita, condannata a vivere nella malattia e lui immune all’amore, deciso a non legarsi mai. Cosi’ diversi, ma legati in modo imprescindibile uno al respiro dell’altra, impareranno a offrirsi e ricevere l’amore di cui hanno bisogno. Nella fase acuta della malattia della protagonista e globale della pandemia che costringerà tutti indifferentemente all’immobilità, il linguaggio erotico, ora incomunicabile per lei, si rinnova nella memoria del proprio corpo di ragazza e nella consapevolezza del nuovo corpo di malata. Il linguaggio che scelgo nella terza e ultima parte vuole senza retorica sondare l’immaginazione di un soggetto apparentemente inerme, come possono essere le moltissime persone affette da malattie neurodegenerative gravi e spostare il limite della fantasia sessuale e del sentimento in terre sconosciute. Le immagini carnali dei ricordi di giovinezza cedono il passo all’ emotività, alla tenerezza e complicità che dalla parola si fa gesto. Le mani e gli occhi di lui sono il veicolo di amore. Sciolte tutte le loro resistenze, non saranno più immuni, finalmente liberi nella scelta di vita e amore.
S.M.C: In The global wc raccontate di un rapporto sessuale che potrebbe sembrare quasi “usa e getta”, proprio come le mascherine che citate. Perché avete scelto di rappresentare una donna così disillusa?
Giovanna Giolla e Ilaria Palomba (autrici del racconto The global wc): Non si tratta proprio di un rapporto “usa e getta”, noi pensavamo a una donna spaventata più che disillusa. Francesca arriva a Milano in un periodo antecedente al lockdown, non si sa ancora molto sul covid e sicuramente al sud non se ne parla come al nord. La nostra protagonista viene catapultata in una dimensione di panico alla quale non è preparata, poi incontra
Giacomo, un artista concettuale, che ha dei comportamenti che lei trova bizzarri: abbiamo
insistito sull’idea ironica di “sporcare” una mascherina che costa molto, quindi sullo spreco. L’idea di The global wc è una metafora del mondo contemporaneo, non solo dell’arte; della vita globalizzata, mercificata in cui non si distingue più la verità, la bellezza dall’escremento. I due protagonisti hanno una psicologia autonoma ma sono anche agiti dagli eventi del mondo, di fronte ai quali sono impotenti. Abbiamo voluto creare un contrasto: lui cinico e disilluso, lei, al contrario, presa dalla grande illusione che si possa sfondare nel mondo del cinema migliorando il proprio aspetto fisico. Infine i ruoli si ribaltano: lui s’innamora e lei fugge, però abbiamo lasciato una certa apertura, Francesca potrebbe sempre tornare indietro.
S.M.C: In Mancarsi la descrizione della masturbazione è talmente viva che il lettore stesso si fa spettatore incredulo. Il sesso è nelle parole dei due amanti mancanza e voglia di possedere l’altro intimamente, di sentirlo suo, di respirarlo, di modellarne il corpo sotto le proprie mani fino a sentirne l’esplosione del piacere:
Quella ragazza lo eccitava moltissimo, sotto le sue carezze si trasformava, si abbandonava […] Quando la toccava era come avere fra le mani una materia da plasmare e rendere viva. […] I suoi gemiti di piacere lo spingevano a andare oltre, a desiderare di entrarle dentro, di infilarsi in quel sesso che dopo poche carezze era già bagnato.
Amore si fa creatore quando il corpo dell’altro abbassa le difese fra le nostre mani. Amore è lasciarsi possedere, l’abbandono dell’inibizione per lasciare spazio a un nuovo sé colmo di noi?
Elisa Porta (autrice del racconto Mancarsi): Nel racconto Mancarsi amore è ricordo. I protagonisti, costretti a stare lontani, rivivono nei loro ricordi le sensazioni del loro stare insieme. Il desiderio della ragazza si esplicita attraverso la masturbazione ripresa on line e vissuta a distanza dal partner. Di fatto ho cercato di far crollare il tabù del toccarsi come atto intimo e nascosto che però, a mente fredda genera paura e pentimento. Paura di essere scoperte e di divenire vittime di revenge porn o di hackers. L’abbassarsi delle difese, il concedersi via Skype, lascia poi spazio ai timori, solo femminili, di essere viste al di fuori, di consegnare al mondo un atto così intimo. Il protagonista invece si abbandona alle sue fantasie erotiche. Vedere la sua donna che si tocca lo eccita, gli ricorda come il suo corpo si plasmasse sotto il suo tocco. Il maschio sente fortemente il desiderio di toccare e penetrare e la distanza acuisce in modo doloroso questo suo anelito. In Mancarsi ho cercato di raccontare un rapporto sessuale mediato dallo schermo di un PC e di mettere in risalto l’aspetto dell’immaginazione come componente fondamentale del piacere e dell’appagamento.
S.M.C: In Il lento la scena cruciale ha luogo nella fantasia dei protagonisti, due volti senza nome fanno l’amore nella mente:
Nei loro pensieri stavano divorando l’amore vivo e feroce che le loro anime si trasmettevano. Non c’era più confine tra l’immaginazione di lui e quella di lei il loro pomeriggio di sesso, di amore e di vita si stava consumando e li stava bruciando. Al culmine dell’amplesso che si scolpiva nei loro pensieri, la musica si dissolse.
Sogno e realtà si confondono, rendendo possibile un abbraccio amoroso fra due sconosciuti. Una stretta erotica che cambierà il loro destino e ne permetterà la rinascita interiore. L’incontro dell’altro è dunque presagio di speranza. Sembra che tu voglia lanciare al lettore un chiaro messaggio: nonostante la brutalità del reale, possiamo continuare a sognare, a credere, a vivere. Così, per i due sconosciuti non vi è una fine, ma un nuovo inizio.
Daniela Luciani (autrice del racconto Il lento) : È esattamente quello che volevo trasmettere con il mio racconto, la speranza ma anche la forza e le mille risorse che abbiamo dentro di noi. Dalla fantasia al reinventarsi, sempre e comunque, in ogni situazione. Che sia una nuova vita, lasciando andare le vecchie abitudini o tagliando i rami secchi che non ci appartengono più o una rinascita dopo la malattia. La vita dopo una morte “apparente” se vogliamo, cos’è infatti vivere la vita che non vorremmo, se non una specie di morte?
Cosa c’è di più bello di sapere che siamo sempre in tempo a cambiare rotta? Anche un evento come la pandemia può essere uno spunto a vedere con occhi nuovi la vita, vedere diverse prospettive e nuovi orizzonti, lasciare il mero materiale per una spiritualità più concreta all’intero di questa nuova vita che ci attende. La speranza che queste nuove abitudini ci facciano da trampolino di lancio verso ciò che sentiamo e desideriamo realmente, proprio come i due protagonisti de Il Lento.
S.M.C: Nel racconto Baci rubati il protagonista, vinto dalla solitudine e dall’impotenza, sceglie di lasciarsi vivere, ripetendo le azioni quotidiane in modo meccanico. Il senso di ogni cosa è scomparso, come la gioia:
Non soffro, non amo, non eccedo in nessuna tentazione per il motivo stesso che non sono tentato da nessuna cosa che non posso fare, più fare. Nessuno ci ha fatto il lavaggio del cervello, è qualcosa che è accaduto in maniera endogena, una piccola salvezza che ci siamo tutti concessi come regalo. Siamo infelici consapevolmente, siamo limitati accettandolo, siamo soli e ce ne siamo fatti una ragione.
Eppure, quando tutto sembra ormai spento, arriva nella sua vita un piccolo uccellino ferito. Questa fragile creatura sarà per lui un amico e un nuovo scopo. Il sapere di non essere solo riaccende nel protagonista il desiderio di innamorarsi ancora, di ridere, di eccitarsi, di toccare una donna, di baciarla. Il finale lascia il lettore con il sorriso in bocca, invitandolo a una riflessione: nulla è perduto. Non siamo soli. Possiamo sconfiggere questo virus, INSIEME. Insieme ce la faremo.
Fabiana Sargentini (autrice del racconto Baci rubati): Ho scritto il raccontino durante il primo mese, il più duro, di lockdown. Stentavo a immaginare l’ultimo sesso ai tempi della peste, c’era troppo buio, mi sentivo spaventata e distante dalle cose. Ho immaginato un universo distopico, ancor più tremendo della bolla dentro cui stavo vivendo e così è uscito fuori il protagonista maschile di “Baci rubati”: solo, inerte, senza passione né desideri. Nella ripetitività un’ancora di salvezza. Fino a quando una piccola vita più fragile della sua lo intenerisce al punto da far sgorgare di nuovo la voglia di altro. Nelle piccole cose ho trovato uno slancio diverso, nei mesi di clausura e dopo. Oggi ho colto fagiolini dall’orto e, dal benessere ricevuto, mi è parso di meditare. Baceremo ancora sconosciuti incrociati per la strada? Lo spero (magari non per me, ma per altri, per mio figlio).
S.M.C: Il tuo racconto spinge il lettore a credere nel destino: due esseri si imbattono l’uno nell’altro perché così è scritto. Magari non nel momento giusto, magari troppo tardi, ma chi decide quando è tardi?
L’amore non ha tempo, è un concetto mutevole che si trasforma nel corpo degli amanti, si fa specchio delle loro menti e ne diventa padrone.
Ho voglia di vederti. Ti voglio bene. Leggo il messaggio e so che anche oggi Aldo non è passato.
Aldo, l’incarnazione dell’amore sbagliato ci fa riflettere sul concetto stesso di amore. Amore non può essere definito né giudicato, amore è menzognero, amore è indissolubile. A noi esseri umani non è dato sapere tutto…. Allora, non ci resta che viverlo appieno, tuffandoci dentro l’incertezza della passione momentanea o eterna che sia.
Ivana Margarese (autrice del racconto Isola): Ti rispondo intrecciando due parole contenute nella tua domanda: “destino” e “sbagliato”. Va da sé che se scelgo di legare questi due termini dal mio punto di vista le cose, per citare un saggio che ho amato di Hervé Clerc, sono come sono e la sofferenza deriva dal non volerle accettare, accogliere, attraversare. Ciò che è sbagliato non è sbagliato in assoluto ma sempre rispetto a uno specifico contesto o una specifica parte. La sfida secondo me consiste nell’affidarsi lasciandosi trasformare senza tradurre la volontà in ossessione e le tante, forse troppe, parole in una narrazione che non dialoga.
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