La Lupa, Medusa e Medea: il fascino immortale e l’irreparabile colpa

La Lupa, Medusa e Medea: il fascino immortale e l’irreparabile colpa.

di Piera Zagone

Immagini di Turi Avola (turiavola.weebly.com)

 

Un magnetismo inarrestabile, un’attrazione che diventa fatale. Esiste un potere ancestrale in alcune donne, una forza che parte dal loro spirito e si propaga dai loro corpi talmente dirompente da essere in grado di immobilizzare, piegare e ridurre alla propria volontà gli uomini che a loro si rivolgono. Tuttavia questa stessa indomabile forza le isola e le rende straniere nella società in cui vivono e genera confronti che non possono che condurre ad un esito tragico.

Spesso sono gli occhi e lo sguardo a concretizzare l’intensa autorità di queste figure femminine. Così l’antico mito di Medusa racconta dell’unica Gorgone mortale il cui sguardo pietrificatore distruggeva chiunque osasse posare gli occhi su di lei. E, facendo un grande salto in direzione della letteratura moderna, quale organo se non proprio gli occhi usa la Lupa di verghiana memoria per comunicare tutta la sua nota famelicità?

Così l’aderenza al vero e “il coraggio divino di eclissarsi e sparire nella sua opera immortale” porta Giovanni Verga a ritornare quasi ossessivamente su questa sezione del viso, dalle prime battute fino al terribile e mortale epilogo. Nell’incipit della novella, contenuta nella raccolta “Vita dei campi” e pubblicata per la prima volta da Treves nel 1880, si legge che la protagonista “era pallida come se avesse la malaria, e su quel pallore due occhi grandi così”. Poco dopo ecco elencate le conseguenze diaboliche (e il termine non è usato a caso) degli sguardi di questa donna di cui non è dato al lettore conoscere il nome reale, ma solo la ‘nciuria, quel soprannome che, nella cultura siciliana, diventa etichetta di riconoscimento:

Ella si spolpava i loro figliuoli e i loro mariti in un batter d’occhio con le sue labbra rosse, e se li tirava dietro alla gonnella solamente a guardarli con quegli occhi da satanasso.

Davanti alla Lupa non c’è salvezza, non c’è scampo. L’accostamento con la figura del demonio serve, certo, a giustificare il comportamento infedele e peccaminoso di mariti e figli delle donne del paese ma, allo stesso tempo, ne rende l’inequivocabile essenza irresistibile legata a doppio filo allo sguardo incantatore. Ed esso ritorna, poco dopo, con tutta la sua carica infernale quando, nel corso della narrazione, la Lupa sceglie la sua unica vittima, il genero Nanni. Così la decantata voracità della donna si riversa sul giovane che conquista “fissandolo negli occhi”; ed egli, da parte sua, “quando ella glieli piantava in faccia quegli occhi, si metteva a ridere, e cavava fuori l’abitino della Madonna per segnarsi”. Un gesto di protezione che ricorda le mosse di un rito di esorcizzazione che, però, non sortirà alcun risultato. Anzi. Nanni subirà il sortilegio sensuale della Lupa dagli “occhi neri come il carbone”, un incantesimo che distruggerà le vite di tutta la famiglia, compresa (ovviamente) quella della moglie Maricchia che tenta invano, in uno slancio di disperazione di difenderlo e difendersi, guarda caso, con un “gioco” di sguardi:

Maricchia piangeva notte e giorno e alla madre le piantava in faccia gli occhi ardenti di lagrime e di gelosia, come una lupacchiotta anch’essa.

 

Tuttavia il legame fra la Lupa e Nanni non può essere sciolto se non con il definitivo annientamento della fonte fisica che ne trasmette il potente flusso. Il giovane lo sa bene e, infatti, Verga racconta che “avrebbe voluto strapparsi gli occhi per non vedere quelli della Lupa, che quando gli si ficcavano ne’ suoi gli facevano perdere l’anima ed il corpo”. Si giunge quindi al tragico momento in cui la protagonista, forte e spavalda, incede verso il suo amante – omicida, con “manipoli di papaveri rossi” fra le braccia. Ed anche in questo tremendo faccia a faccia la Lupa domina in consapevolezza e strappa a Nanni, che sta per toglierle la vita, gli ultimi brandelli della sua essenza:

[La Lupa] Seguitò ad andargli incontro, con le mani piene di manipoli di papaveri rossi e mangiandoselo con gli occhi neri.

 

 

 

La Lupa è, insomma, la Gorgone dell’età moderna per indole, solitudine e destino. Nel nome Medusa, “colei che signoreggia, che ammalia”, dal greco μέδω che significa “dispongo a talento”, “impero”, “domino”, è contenuto il significato di un’attrazione ingestibile e dagli esiti funesti che possiede in comune con il personaggio verghiano. Medusa e la Lupa, inoltre, sono donne che incutono terrore alla società e la cui forza può e deve essere sconfitta o aggiogata passando attraverso la morte. Ma quest’ultima non sempre è sufficiente. Nel caso di Medusa il potere pietrificante supera tale confine e viene successivamente usato con le dovute precauzioni da Perseo, l’eroe che le toglie la vita. Egli, infatti, dopo averle mozzato il capo in sonno guardandola dal riflesso del suo scudo lucente, lo pose in un sacco e lo usò più volte per pietrificare i suoi nemici.

Non sempre, comunque, la forza di tali donne si esprime attraverso gli occhi. Talvolta è la loro stessa mente e quindi i pensieri, cui seguono ben determinate azioni, a generare paura e successivamente ad essere causa del loro annullamento. Si pensi a Medea. Anche a lei, come a Medusa e alla Lupa, il destino riserva un ruolo di reietta in quanto barbara, fuggitiva e maestra di arti oscure. Il suo nome condivide con quello di Medusa la radice indoeuropea med che, come già detto, indica l’idea di “signoreggiare”, “dominare”. Esso, però, fa riferimento al verbo μήδομαι che allude a sfumature di significato quali “pensare”, “riflettere” e quindi, in senso lato, “macchinare”, “escogitare”. Da qui la più classica traduzione in “colei che tesse inganni”.

Quindi non è un caso se Medea, figlia di Eeto, re della Colchide e nota per la sua esperienza in arti mantiche, diviene oggetto di un editto che la costringe all’esilio perché il marito, Giasone, ha la possibilità di sposare la figlia di Creonte, re di Corinto. Ed è proprio quest’ultimo, che prima di comunicarle la propria decisione, le si rivolge dicendo: “Io ti temo – nasconderlo non serve”[9].  Anche Giasone, sebbene non sia mai così chiaro nel corso della tragedia euripidea, più volte parla alla moglie invitandola alla calma e a sedare le sue ire. I due uomini sanno che Medea non ha limiti, che è disposta a tutto quando decide di raggiungere i propri obiettivi. L’orgoglio di moglie tradita, dunque, richiede un’azione punitiva esemplare, un inganno magistralmente ordito che darà la morte alla nuova promessa sposa di Giasone e al padre di lei, Creonte. Poco dopo la donna deciderà, non senza indugi, di togliere la vita anche ai figli pur di portare a compimento contro il marito un progetto di vendetta che, al suo termine, lo vedrà attonito, ‘pietrificato’. Medea, infatti, a matricidio compiuto, mentre si dilegua sul carro del Sole e fugge verso Atene, immobilizza Giasone negandogli la possibilità di prendere parte in alcun modo all’azione:

Giasone: Fa che io tocchi, per Dio,

la tenera carne dei figli miei!

 

Medea: Parole gettate al vento: non puoi. [Si dilegua col carro alato].

 

Giasone: Tu lo senti in che modo respinto son io?

E quest’empia, lo vedi che cosa mi fa,

la leonessa omicida dei figli, Zeus?

Ma per quello che posso, se dato non m’è

Di far altro li piango, invocando gli dei

Perché il cielo mi sia testimone che tu,

dopo aver ammazzato i miei figli, non vuoi

ch’io li tocchi e una tomba ai cadaveri dia.

 

 

 

Il destino che coglie i figli di Medea non sarebbe stato molto diverso da quello che sarebbe toccato alla Maricchia verghiana se si fosse opposta con più forza al volere della madre che, per avere Nanni in casa propria, acconsente alla richiesta del giovane di avere in sposa la figlia, nonostante il rifiuto di lei. Nella novella davanti all’opposizione della ragazza “sua madre l’afferrò pe’ capelli, davanti al focolare, e le disse co’ denti stretti: “Se non lo pigli ti ammazzo!”. In entrambe le narrazioni i figli diventano strumenti inconsistenti nelle mani delle madri per le quali non esistono limiti, censure o misure. Un’ulteriore colpa che, qualora ce ne fosse bisogno, le condanna definitivamente agli occhi di quella società che le aveva rigettate già da tempo. La condanna aprioristica della comunità, infatti, esiste ed è evidente. Il pericolo che queste donne rappresentano per tutti fa sì che esse siano delle appestate, delle escluse, delle straniere. Medusa è oggetto di violenza da parte del dio Poseidone nel tempio di Atena, e da quest’ultima viene tramutata da bellissima fanciulla a orrendo mostro; la Lupa paga per la sua avvenenza, la sua attrattiva e il suo fascino, Medea per la sua furbizia e la sua conoscenza. In fondo ad essere punita è quella tanto temuta gravida attività delle loro menti e dei loro corpi che le rende degli ossimori incarnati attraenti ma distruttori di coloro che si abbandonano al loro abbraccio. E se, come è stato analizzato, la morte pone fine al vizioso legame fra Nanni e la Lupa, anche se non probabilmente alle conseguenze psicologiche disastrose per il bracciante siciliano, non così per le due figure mitologiche greche. Il capo di Medusa, infatti, manterrà il suo potere pietrificante anche quando, dopo diverse vicissitudini, verrà donato da Perseo ad Atena che la porrà al centro della propria egida. Ed anche nel caso di Medea la morte deve arrendersi. Alcmane, Pindaro e Apollonio Rodio raccontano, infatti, che sia divenuta immortale regnando nei campi Elisi al fianco di Achille.

 

Biografie

Piera Zagone, nata a Palermo nel 1985, è docente nella scuola secondaria di secondo grado e giornalista pubblicista. Ha collaborato con diversi giornali cartacei e online del panorama regionale fra cui “Il Giornale di Sicilia”, “Tgs” ed “Rgs”, “Cronache di gusto”, “Palermo Today”, “Balarm”. Ha conseguito nel 2015 un Dottorato di ricerca in Italianistica con una tesi sul giornale “Il Conciliatore”. Un lavoro che si pone al servizio dell’interesse per il giornalismo e la letteratura e che segue le ricerche fatte nelle due precedenti tesi di Laurea triennale in Lettere Moderne sul “Caffè” dei fratelli Verri e di Laurea Specialistica in Filologia Moderna su Elisabetta Caminer e “Il Giornale Enciclopedico”.

 

Turi Avola, fotografo siciliano vive e lavora a Roma dai primi anni 2000. Inizia come pittore per poi dedicarsi completamente alla fotografia grazie allo studio di artisti come Man Ray, Bellmer, Woodman, Witkin, Bunuel, Svankmyer attraverso i quali fa suo l’utilizzo della macchina fotografica come unico mezzo espressivo.
Ambientazioni senza tempo, atmosfere surreali, suggestioni oniriche che sembrano appartenere a un universo parallelo: la creazione di set ricercati e la cura dei dettagli fanno di Turi uno scenografo che scolpisce, dipinge e improvvisa pur di costruire l’esatto scenario partorito dalla sua immaginazione. Le opere di Turi vengono pubblicate su diverse riviste Italiane ed internazionali come INSIDEART, Adore Noir Magazine, Photographize Magazine, SHOTS! Magazine, Fermo Editore Magazine e Fluffer Magazine. Nel 2015 Turi riceve l’Honorable Mention Winner del PX3 di Parigi. Il 20 Marzo 2016 pubblica Excessus Mentis dodici espressioni dello stato dell’estasi. Fin da subito molte riviste italiane ed internazionali parlano di Excessus Mentis avviando così la produzione e la distribuzione del delizioso cofanetto (the holy pictures box). Turi ha esposto le sue opere in gallerie di Roma, Berlino e Londra, nel 2018 viene invitato per una residenza d’artista a Salina presso Amaneï dove sviluppa il progetto fotografico sulle Teste di Moro, ad Ottobre inizia la collaborazione con la Aeon Gallery dell’Illinois (US) e l’8 Novembre inaugura la sua prima Mostra Personale a Torino presso Punto 65 Gallery. Il 9 Aprile 2019 si inaugura la sua personale presso la Fondazione Marco Besso di Roma mentre nel mese di Agosto ritorna con la residenza d’artista a Salina presso Amaneï con il progetto “Ghigno, Linguaccia e Foglie d’acanto” ispirato ai Cagnoli/Mascheroni del Barocco Ibleo. Oggi è visibile online su Vimeo (https://vimeo.com/415075485) la mostra 3D del progetto “Ghigno, Linguaccia e Foglie d’acanto”.

 

3 Comments
  • Saveria
    Posted at 16:17h, 13 Settembre Rispondi

    Molto interessante riflessivo intenso e ottima scritta espivativa. Complimenti

  • Xenia
    Posted at 14:26h, 18 Agosto Rispondi

    Molto interessante l’accostamento di Medea alla diade la Lupa verghiana – Medusa. La catabasi della maga della Colchide ebbe inizio con l’uccisione del fratello, come orribile giuramento di fedeltà alla tradizione aliena rappresentata da Giasone, come l’estrema rinuncia al proprio universo. Medea e Giasone, d’altronde, sono una coppia perfetta, entrambi portano i nomi dall’etimologia legata al guarire. Chi guarisce è in grado di avvelenare.

    • Ivana Margarese
      Posted at 15:04h, 18 Agosto Rispondi

      Grazie per le interessanti considerazioni.

Post A Comment