29 Set Pascoli maledetto. Intervista a Francesca Sensini
Pascoli maledetto. Intervista a Francesca Sensini
di Ivana Margarese e Dafne Munro
Questo secondo numero di Morel, voci dall’isola, è dedicato alle possibile riletture del mito di Medusa, indicata come immagine non soltanto di morte e annientamento, ma di metamorfosi e generazione. Il saggio di Francesca Sensini, Pascoli maledetto, ha il merito di guidarci verso una narrazione differente del poeta italiano, mostrandolo sotto una “nuova” luce o meglio restituendolo alla sua naturale complessità di artista e di uomo:
“Per Pascoli fanciullino è il feroce Achille, l’uccisore di Ettore, che canta le gesta degli eroi di fronte alle onde del mare la notte e combatte sanguinosamente per la gloria. Altro che bambino che fa e dice “fanciullaggini” (copyright Pascoli). Discorso lungo ma basta accostare questo personaggio omerico al fanciullino per capire quanto la vulgata a cui siamo abituati sia falsa, semplificante, distorta.
Insomma, Pascoli è tutto fuorché un artista ristretto ai confini nazionali, ripiegato su stesso e sulle proprie nevrosi, irenico, focalizzato sull’incanto della natura come fuga dal reale e dalla Storia. Tutto il contrario”.
I.M: Comincio con il chiederti del titolo del tuo saggio “Pascoli maledetto”.
Non è un’imprecazione…a scanso di equivoci. 🙂 È un’affermazione a doppio senso. Maledetta è, casomai, una certa narrazione – edulcorata, lacrimevole e patologizzante – che tende ancora a inquinare la ricezione dell’autore, nonostante i continui progressi degli studi specialistici, documentari e critici, sulla sua opera.
Andiamo con ordine. “Pascoli maledetto” è, in prima istanza, l’affermazione di una natura e di un’appartenenza culturale: Pascoli è artisticamente assimilabile per certi aspetti a Baudelaire, per altri a Verlaine, a Rimbaud e ancora a Mallarmé, con cui ha in comune l’idea della lingua come creatrice di mondi alternativi al reale e della poesia come codice simbolico. Atmosfere goticheggianti, revenantes, malinconie per amori tragicamente scomparsi, lo accomunano al maestro del macabro americano, maudit amatissimo dai francesi, Edgar Allan Poe. Pascoli va letto e studiato sulla sfondo della letteratura europea della fin-de-siècle, che l’autore segue, legge, traduce, e in cui riconosce le proprie irrequietudini e aspirazioni di rinnovamento radicale (estetico e politico) del presente.
I maledetti di tutte le latitudini sono questo, in estrema sintesi: contestatori dell’autorità stabilita – politica, letteraria, estetica o morale – antiborghesi, ribelli (with or without a cause, dipende. Pascoli ne aveva una: una poesia e una lingua nuova per il nuovo secolo e la fine dell’ingiustizia sociale); rappresentanti del potere creatore della poesia, svincolato dai limiti delle facoltà umane, e ‘portatori malati’ – perché profondamente inquieti, oscillanti sempre tra noia della vita et ideale dell’arte, ennui et idéal – della poesia come strumento ultimo di conoscenza delle cose. Sono dei “veggenti”, dei voyants, per dirlo alla Rimbaud, capaci di vedere i segreti del mondo – la bellezza estrema e l’estrema crudeltà dell’essere – e di trasformare in realtà linguistica le loro esaltanti visioni.
Pascoli è tutto questo in uno e molto di più ancora. Se è vero che la vulgata della sua biografia sembra corrispondere poco alla biografia-tipo del maledetto, è solo perché di lui si racconta sempre e solo una parte della vita, quando comincia la convivenza con le due sorelle (Pascoli ha già trent’anni), e si fa ruotare tutto intorno alla morte del padre. Gli anni della vita da studente goliarda e bohémien a Bologna non sembrano contare. Sono stati invece anni fondamentali, vivissimi, di grande slancio creativo, di attivismo politico nella sezione bolognese dell’Internazionale, di scrittura giornalistica e poetica, di amicizie, lotte, dibattiti; anche di marginalità povertà, a volte estrema. Anni in cui Pascoli scrive d’amore, di passione letteraria e rivoluzionaria, e mai, davvero mai, dei lutti famigliari o di “nido”; neppure una parola. E durante i nove anni a Bologna, dal 1873 al 1882, non ha praticamente nessun rapporto con le sorelle, Ida e Maria, che vivono a Sogliano al Rubicone, prima in convento, poi a casa di una zia materna. Ma la depositaria delle memorie di Giovanni Pascoli, la sorella più piccola, Maria, ha volutamente messo in ombra e fortemente sminuito le esperienze di quegli anni nella sua personale ricostruzione del fratello, a sua immagine, oserei dire. E purtroppo siamo ancora fortemente condizionati da questo suo personalissimo taglio di lettura. Come anche da una certa rimozione del rapporto del poeta con l’alcool, dall’uso di laudano in un periodo particolarmente duro della sua vita, del suo rapporto alla sessualità e all’amore (Pascoli pare nel migliore dei casi asessuato, nei peggiori sessuofobico e immaturo a livelli patologici) come se fossimo obbligati a non intaccare un suo ritratto ‘morale’, perbene, scioccamente angelicato. Trovo sia una rimozione odiosa e inutile, così come l’alcool e il bordello non devono diventare un elemento centrale nella lettura della personalità e dell’opera di Pascoli ma casomai compresi e contestualizzati socialmente. Ma basta moralismi.
Vero è che, a partire dal 1885, la scelta di fare da “padre” alle sorelle toglie al poeta la libertà di vivere la propria vita e perseguire i propri desideri, che da allora saranno riversati e plasmati unicamente nella poesia, mediante un grandioso codice simbolico che il poeta costruisce sapientemente, per rivelarsi e insieme nascondersi al lettore e all’interprete.
Rinuncia, insomma, alla propria indipendenza per un malinteso senso del dovere, preso nella rete di una relazione affettiva vischiosa, in cui giocano i sensi di colpa e l’opera di convincimento e di ricatto delle sue sorelle rimaste a lungo dimenticate e desiderose di riscatto sociale. Il promettente fratello professore e poeta sembrano offrirlo loro. E a lui si aggrappano per ottenerlo.
Così queste due ragazze, in fin dei conti, ciascuna in modo diverso, pretendono da lui – e ottengono – sacrifici enormi, economici (Ida soprattutto, che il fratello continua a finanziare anche dopo il suo matrimonio con Salvatore Berti) ma soprattutto il sacrificio della sua indipendenza e felicità personale. Maria non vuole sposarsi e non vuole allontanarsi da lui e farà tutto per isolarlo e sventare ogni progetto sentimentale, ogni legame con altre donne. Le lettere rivelano questa terribile e capillare trama da cui Giovanni ha cercato quasi per tutta la sua vita si svincolarsi. E non ci è riuscito neppure post mortem. Da qui il mio racconto, un lavoro a tesi, di parte, un’opera di amorosa giustizia anche. La sua necessità al di fuori del giardino chiuso della ricerca specialistica.
Sul versante artistico Pascoli ha tutta l’irrequietudine dei maudits francesi, consapevole, come loro, che i tempi nuovi hanno bisogno di una letteratura nuova, di una lingua nuova e di nuovi strumenti per far fronte alla loro complessità. È stato lettore onnivoro ed attento non solo alla letteratura europea contemporanea ma a tutto quello che il pensiero e la scienza moderna producevano di nuovo. A Castelvecchio si trovano, tra preziose edizioni di classici greci e latini, testi di Vigny, Hugo e Musset, una traduzione delle Fleurs du mal, i poemi di Tennyson, di Shelley, persino di Swinburne, trattati di biologia evoluzionista, di linguistica comparata, di psicologia, versioni commentate (e chiosate dal Pascoli) del poema epico indiano Mahâbhârata, saggi di astronomia e storia delle religioni, opere di ornitologia. Per Pascoli la poesia si trova (e non si crea!) nelle cose, è sparsa nella storia del mondo, nei documenti che ne restano in ogni campo, in ogni lingua, epoca, paese. E ovunque vanno ricercati i tasselli della parola del “fanciullo eterno” che è, diciamolo chiaramente, personificazione della psiche primitiva, del selvaggio, dell’essere umano dei primordi, e non la figura del bambino buono e puro…ancora una feroce banalizzazione di cui l’estetica pascoliana patisce, un’altra faccia della maledizione. Per Pascoli fanciullino è il feroce Achille, l’uccisore di Ettore, che canta le gesta degli eroi di fronte alle onde del mare la notte e combatte sanguinosamente per la gloria. Altro che bambino che fa e dice “fanciullaggini” (copyright Pascoli). Discorso lungo ma basta accostare questo personaggio omerico al fanciullino per capire quanto la vulgata a cui siamo abituati sia falsa, semplificante, distorta.
Insomma, Pascoli è tutto fuorché un artista ristretto ai confini nazionali, ripiegato su stesso e sulle proprie nevrosi, irenico, focalizzato sull’incanto della natura come fuga dal reale e dalla Storia. Tutto il contrario. Vero è che non ha mai viaggiato fuori dall’Italia, ma che importa? Neppure Hölderlin è mai stato in Grecia, eppure…
E tra le altre cose, Pascoli è anche poeta della Storia, quella antica e quella a lui coeva. Basti pensare alla raccolta dei Poemi conviviali, che andrebbero letti e studiati a scuola anche per uscire finalmente dal cliché insopportabile delle “piccole cose”, grandioso affresco sul mito e la storia antica, greco-romana, fino a Tiberio; ai Carmina, ambientati nei primi secoli del cristianesimo, alle Canzoni del Re Enzio, splendida raccolta che riprende stile e schemi dell’epica francese medioevale e della poesia d’amore duecentesca, fino a Odi e Inni, ai Poemi italici e ai Poemi del Risorgimento. Tutte cose che a scuola si nominano appena, come se Pascoli avesse scritto solo le Myricae, i Canti di Castelvecchio e qualche Poemetto.
E qui vengo al secondo valore dell’attributo del titolo, già in parte esposto. La maledizione di Pascoli è anche questa: essere letto (ancora!) così parzialmente, amputato di gran parte della sua opera poetica e della sua riflessione teorica, e secondo categorie critiche datate, direi in certi casi ‘scadute’, perché superate dalla scoperta di documenti d’archivio, di lettere, che hanno permesso di inquadrare correttamente la personalità del Pascoli, i rapporti con i familiari, le relazioni con gli amici, con i molti corrispondenti; e, in particolare, quella parte della sua vita che si colloca tra la morte del padre e l’inizio della convivenza con le sorelle che formano ancora una sorta di buco nero nella narrazione mainstream sull’autore. E invece si tratta di un periodo fondamentale per capire la personalità del Pascoli, in particolare, come si è detto, gli anni di studio a Bologna, quando era “in mezzo alla politica, alla poesia, ai guai” per usare le parole da lui stesso impiegate per parlare di sé a un suo allievo.
D.M: Nella breve rassegna delle poesie giovanili edite postume, amore e poesia, scrivi, sono due facce della stessa ansia vitale. Possiamo considerarle in Giovanni Pascoli, lungo tutto l’arco della sua produzione poetica, come due piani sostanziali, memoria e materia, (sia la presenza fisica femminile sia la presenza del poeta a se stesso) e come due movimenti di vita e morte (intesa come perdita, come negazione)?
Sì, sono senz’altro i due grandi moventi del suo desiderio. Due corde tese da una stessa aspirazione: quella a vivere ed esprimere l’eccesso di vitalità che gli è propria; un eccesso sostanziato dalla capacità, che solo i poeti maledetti possiedono, di sentire nella propria carne la crudele bellezza dell’essere e la sua lezione di verità. L’esperienza e la meditazione sull’amore come sentimento e passione sono, in qualche modo, introduttive alla poesia come esperienza ultima, esaltante e misteriosa quanto l’eros ma sganciata dalla dimensione dei sensi e della vita concretamente vissuta. È, in fondo, la parabola del personaggio Dante nella Vita nova: l’amore per Beatrice-donna, in carne e ossa, lo conduce, per un cammino doloroso, fatto di errori e tormenti, all’amore di Dio e, in ultimo, alla salvezza dell’anima. Attraverso l’elaborazione della morte dell’amata, Dante ritrova Beatrice in una nuova veste, quella di anima eternamente beata, e la riconosce come sua personale mediatrice tra la dimensione terrena e quella celeste. Pascoli vede in questo schema lo schema stesso della sua vita di rinuncia all’amore (non scelta ma in qualche modo subita, come si è detto, per senso del dovere) e lo riprende, variandolo in mille racconti in cui l’io che rinuncia dialoga con l’io che ama, alla ricerca di un ricongiungimento, almeno nella dimensione della poesia che resta l’unico amore possibile e, in ogni caso, il più perfetto in quanto sganciato dalla temporalità e dalla caducità dell’essere.
D.M: La lettura di questo saggio, che si presenta quasi in forma di romanzo, in cui la tua soggettività di autrice si esplicita spesso nei commenti a volte ironici a volte sarcastici, nelle critiche dissacranti di mostri sacri, restituisce tutto l’entusiasmo per l’uomo Pascoli, che ci presenti nella sua veste passionale, affettuosa, libera; quando è nato in te il desiderio di “rendergli giustizia” forse anche per controbilanciare le numerose antologie scolastiche che quasi all’unanimità lo presentano come un uomo noioso e schiavo della sorella Maria?
Lavoro su Pascoli dagli anni del mio dottorato in Sorbona. Fa parte dei “miei” autori e autrici. Ed è vero che lo amo molto e da tempo immemorabile. Lo amo per il piacere che mi dà, estetico ed intellettuale; il suo gusto filologico per la parola, la sua visionarietà, sono davvero una scoperta continua. Lo amo per il suo potentemente anticlassico, al di là dei concetti di bello e brutto tradizionali; avanguardista, irregolare, come già Renato Serra aveva intuito. Vederlo ridotto a un povero professore di campagna regressivo, sessuofobico, invidioso, nevrotico, misantropo, benpensante, concentrato sul (maledetto) nido, ossessionato dai traumi famigliari, mi sembrava non solo ingiusto ma terribilmente falso. Perché lo è; i documenti, gli studi, ci sono. Gli specialisti sanno perfettamente tutto questo ma, nonostante ciò, non si arriva a fare diventare questa verità, questi dati, narrazione condivisa. Per pigrizia, perché tutti se lo aspettano, perché i grandi padri della critica letteraria lo hanno detto, non so, si continuano a ripetere stereotipi triti che impediscono di capire veramente cosa Pascoli ha scritto, teorizzato, tentato di mettere in pratica come teorico della letteratura, filologo classico, dantista, traduttore e poeta bilingue, come lo dice Alfonso Traina, cioè con due lingue madri, italiano e latino. Dialogando con professoresse e professori dei licei, a seminari, convegni, corsi di formazione, mi sono sentita dire più o meno: a noi Pascoli sembra davvero un grande poeta mal letto, mal interpretato; ci sembra che ci sia molto altro oltre a questo lugubre lamento monocorde, questa ossessione dei lutti famigliari. E in effetti è così. Pascoli non è un poeta intimista né impressionista; la sua biografia non è la chiave di lettura primaria dei suoi testi. Essi sono costruiti con acribia e sistematicità lucidissima – secondo un codice simbolico rigoroso e ambizioso, che va studiato e conosciuto leggendo tutta la sua opera e non una selezione sempre uguale come fanno purtroppo molti manuali scolastici – per essere testi di significato universale, che esprimono archetipi, rielaborano miti antichissimi trasformandoli in miti ad uso della modernità; e non fissazioni personali, paure, bisogni di fuga.
I.M: Vorrei domandarti del rapporto tra Giovanni Pascoli e Emma Corcos, donna colta e affascinante, moglie del celebre ritrattista livornese Vittorio Corcos.
Emma Corcos è la “gentile ignota”, come Pascoli la chiamava nelle lettere. E lei teneva assolutamente a essere chiamata così, era il sehnal che il poeta aveva scelto, un segno della sua predilezione e della considerazione unica che aveva per lei (in gentile ci sono tutte le risonanze e le implicazioni dantesche del caso). Si scrivono dal 1897 fino alla morte del poeta, nel 1912. È stata sua confidente e mediatrice con l’ambiente culturale fiorentino. Lei stessa animava un salotto letterario e scriveva, soprattutto per l’infanzia. A Emma Corcos Pascoli dedica la Prefazione alla Prolusione al Paradiso, conferenza su Dante tenuta a Firenze nel 1902, e i versi All’Ignota, una visione amorosa della donna filtrata attraverso un paesaggio di mare in tempesta. Quando Emma Corcos incontra finalmente il poeta di persona, gli confessa molto sinceramente che lo sposerebbe (ma d’altra parte lo pensava anche prima di averlo visto, dice), se solo fosse più bella e più colta (sic). Il loro epistolario è bellissimo. C’era intimità e rispetto, ammirazione profonda e discreta e quella che era, né più né meno, una passione amorosa.
I.M: Scrivi della poesia pascoliana come una scena in cui si consuma e rinnova in infinite metamorfosi il dramma dell’io dimidiato, spaccato in due e costantemente in cerca di quella metà mancante.
Molti testi del Pascoli hanno carattere narrativo e presentano due personaggi, non di rado uno è più giovane e uno più vecchio, anche se non sempre. Possiamo trovare un vecchio e un bambino come nella Schilletta di Caprona; una giovane donna e un vecchio come in Solon o nel Cieco di Chio, un vecchio e un giovane, come nella Cetra di Achille, due giovani donne con un diverso grado di esperienza della vita come nella Digitale purpurea, un uomo e una donna nella Tessitrice…i casi sono molteplici, così come gli sfondi storici, geografici, i riferimenti culturali a cui ogni testo rimanda. Pascoli nasconde bene le sue fonti; le vuole assimilare al massimo per poi sfidarci a riconoscerle, a intuirne la presenza in filigrana. È la sfida lanciata all’interprete.
Questi due personaggi incarnano, sul piano simbolico, la separazione drammatica (anche in senso letterale, perché forma di dramma, di messa in scena) dell’io poetico dal suo desiderio, in particolare dall’amore, la sua passione dominante, come ebbe a confessare in un’intervista rilasciata alla “Scena illustrata” nel 1907. Sulla scena della poesia, l’io pascoliano, sdoppiandosi, dialoga con se stesso, con i propri fantasmi, che prendono la forma di personaggi e archetipi letterari che popolano la sua poderosa fantasia. È il tentativo sempre rinnovato di comprendere se stesso, l’oscillazione senza pace tra noia, odio di sé ed esaltazione per la bellezza delle visioni poetiche; è il tentativo di razionalizzare il proprio dolore proiettandolo su uno sfondo più ampio – quello del vivere umano – e trovare un rapporto di senso rinnovato con la realtà individuale e con la Storia in vista di quella che il poeta chiamava “l’èra nuova”, il nuovo secolo, il futuro. Ecco, nel futuro ora noi ci siamo. Credo sia l’ora di leggerlo con tutti gli strumenti, ben affilati ed efficaci, ci cui disponiamo. E di lasciar parte le autorità, di uccidere metaforicamente un po’ i padri e pure, con tutto il dovuto rispetto, le sorelle.
Biografia
Francesca Sensini è professoressa associata in Italianistica all’Université Côte d’Azur (Nice). Dedica le sue ricerche, di taglio comparatistico, alla letteratura italiana di Otto e Novecento, all’ermeneutica dell’antichità classica in età moderna e contemporanea e agli studi di genere in ambito letterario. Tra le sue pubblicazioni Dall’Antichità classica alla poesia simbolista : i « Poemi conviviali » di Giovanni Pascoli, Bologna, Pàtron editore, Bologna 2010; Una donna moderna del secolo trascorso: Marise Ferro giornalista, Roma, Aracne, 2020.
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