Gesualdo Bufalino: Marta – Medusa e il Trionfo della Morte

Gesualdo Bufalino: Marta – Medusa e il Trionfo della Morte

di Giovanna Di Marco

Immagini di Vanni Quadrio

 

“Fuggimmo, ce ne andammo senza meta, evademmo in tassì dal gomitolo di straducce, scansando, non si sa mai, quel che restava di Palazzo Sclàfani, e l’affresco che parlava di noi, se era sopravvissuto alle bombe, con l’amazzone senza naso, armata di frecce, galoppante in trionfo su un’ecatombe d’illustri e d’oscuri”.

Gesualdo Bufalino, Diceria dell’untore, capitolo IX.

 

 

Così, in poche righe, Gesualdo Bufalino sintetizza quella ‘grande pagina miniata’ che è il Trionfo della Morte, l’affresco che si trova oggi nella Galleria regionale di Palazzo Abatellis di Palermo. Ai tempi in cui è ambientato il romanzo Diceria dell’untore, si trovava invece a palazzo Sclafani. Nei suoi pressi il protagonista senza nome dell’opera bufaliniana si ritrova insieme a Marta, in libera uscita dal sanatorio, giù per le vie di una Palermo affranta, derelitta e sventrata dalle bombe del secondo conflitto mondiale. Scansano il palazzo, non vedono l’affresco. Vagano per una città malata come loro, protagonisti, che un morbo nascosto consuma. L’affresco ritrae al centro la morte su un cavallo anch’esso ischeletrito, pronta a colpire con delle frecce indistintamente giovani e vecchi, prelati e nobili. Sullo sfondo ci sono immagini che evocano il mondo cortese e della caccia: una fontana, dei musici e dei cani che a quella morte digrignano i denti. Sulla sinistra una torma di poveri e scalcinati sta a invocarla la morte, ma lei, in modo beffardo li scansa, almeno per un momento. Motivi ascetici certamente portarono alla realizzazione di questo manufatto che un giovane Renato Guttuso in servizio militare andava a spiare spostando le ante che lo nascondevano per proteggerlo. E lo studiava. Ma era scuro allora, prima del restauro, annerito e incrostato dal tempo. Così dovette apparire al pittore bagherese. Così, se lo avessero visto, sarebbe apparso ai giovani personaggi di Bufalino, attanagliati dalla malattia.

Ecco, Bufalino riporta l’ekphrasis dell’opera al suo significato più nodale: è “l’affresco che parlava di noi”. Di noi chi? Di un uomo e una donna sulla zona liminale tra morte e vita, dove l’amore si afferra per strada, in un vicolo per salvarsi o forse per precipitare insieme, come riporta qualche riga prima:

“Inoltrandoci per via Squarcialupo, appena un’insolita maceria ci ebbe sorpresi – di un casamento a quattro piani, con la facciata spolpata e le interiora in mostra – Marta si sciolse da me, camminò sola e decisa verso un relitto di muro, vi si appoggiò con le spalle e con labbra bianche mi ordinò di baciarla. Bevvi, prima che le sue labbra, l’afa e l’odore del suo morbo, l’accolsi dentro i polmoni con un giubilo e un grido taciuto”.

All’improvviso appaiono delle figure di popolani che sembrano uscite da un quadro di Pitocchetto: “Sopra i calcinacci dell’edifico, dove prima non s’era visto nessuno, a cavalcioni su ogni travatura risparmiata dai crolli, ci apparve una torma di miserabili e tuttavia cordiali presenze: bambini, mezzane, vecchi, un soldato solitario. E c’invitavano ridendo a raggiungerli, c’era un’alcova lassù da loro”. I due giovani fuggono, ma queste figure ruffiane sembrano anticipare il popolino dell’affresco, introducendo il lettore nella sua descrizione: anch’essi sono questuanti di un altro dono, il dono della morte? E non è forse questo ciò che il protagonista va cercando nell’abbraccio sensuale con Marta? Ancora in poche parole è sintetizzata “un’ecatombe di illustri e d’oscuri”.

Il legame con il dipinto del XV secolo è raffinato e argutissimo e perdura in tutta l’opera, quasi tacitamente, rivelando la sottigliezza e la maestria dell’autore nell’agire su più piani. Marta è già apparsa, entrando in scena nel romanzo proprio recitando nei panni della Giulietta di Shakespeare, subito dopo ballando per gli ospiti del sanatorio. Fa irruzione nella narrazione come la figura dello scheletro dell’affresco, quasi tentando i volteggi di una danza macabra. Le caratteristiche medusee del personaggio si allineano a temi cari al Decadentismo e si profilano quasi subito: la donna fatale, la ballerina irresistibile con il suo fascino di morte; se ne aggiungono altri che puntellano i temi ricorrenti della poetica bufaliniana: l’anima multipla di attrice, e dunque la dimensione della farsa, gli artifici, la simulazione: “A me è sempre piaciuto contraffarmi e mentire”. La donna, come Medusa, ha subito la metamorfosi orrifica della malattia nascosta nel petto: “Avevo una vita, un viso. Mi tolgono questo e quella”. E adesso, nel nono capitolo del romanzo, i due giovani protagonisti, malati di tisi e residenti alla Rocca della Conca d’oro, un sanatorio, visitano la città per recarsi al cinema, ma ne sono dissuasi perché attratti da un comizio politico che appare anch’esso come una finzione. Marta però, capricciosamente, vuole andare via: definita una “guitta”, con il suo potere seduttivo che conduce al cupio dissolvi, fa il paio ai temi iconografici dell’antico dipinto. Marta si racconta civettando con il protagonista che non ha mai vissuto una vera e propria vita: “Ma io avevo letto più libri che vissuto giorni”, lo fa narrando di un suo amore perduto, parlando sempre del doppio di sé, una sorella cattiva che esce fuori a piacimento, appunto una finzione:

“Non è vero nulla, sai. Ti ho raccontato un ricordo inventato, ti ho raccontato la vita di un’altra”.

Recitando e danzando Marta ha fatto il suo ingresso sulla scena del romanzo; poco prima che lei spiri, nel quindicesimo capitolo la coppia assisterà a uno spettacolo: anche la sua uscita di scena sarà preceduta dunque da un’altra finzione. Ma un po’ assomiglia al protagonista: lui goffo e inesperto nelle faccende amorose, si avverte villano al suo cospetto, ma intuisce in lei una qualche volgarità, una piega “plebea e ghiotta”. Si assomigliano nella vita replicata nella letteratura in lui e nella finzione e nella bugia in lei, come del resto tutti i personaggi di Bufalino risultano essere suoi alter ego. Ma nel destino assegnato a essi in Diceria dell’untore, solo l’io – narrante sopravvive (e non può essere altrimenti): la Medusa – Marta, come colpita dalla freccia dello scheletro a cavallo, viene uccisa come la donna del mito, ma pietrificata lei stessa dall’opera: “Era morta, questo era ora il suo stato naturale e pacifico. Come se non fosse stata mai altro: di botto impietrita, uccisa e neutra, una cosa”. Il romanzo con un protagonista senza nome è dedicato “A chi lo sa”, aprendo la breccia a una sorta di mistero sospeso. Forse è dedicato a qualcuno nello specifico, forse la dedica è universale, come lo è il monito dell’affresco ora all’Abatellis (che ha ispirato, non a caso, il film Palermo shooting di Wim Wenders, attualizzandone il tema per ogni uomo e ogni tempo): il suo anonimo autore, un cingano, uno straniero che porta una ventata di internazionalismo nella cultura figurativa siciliana, si raffigura con il suo aiutante. Sono gli unici personaggi che sopravvivono agli altri e sono gli unici a guardare in direzione degli spettatori dell’opera. Sono nel dipinto mentre raccontano il dipinto, dichiarando sfacciatamente questa finzione. Anche l’io-narrante e protagonista di Bufalino ci risulta anonimo ed è anche dentro l’opera ma ne è fuori. Sopravvive a essa, almeno temporaneamente. L’opera invece è salva come il dipinto, sopravvissuto alle bombe. L’autore ha danzato con la morte un ballo sensuale, seguendo una cultura letteraria europea, arricchendola però di un connotato tipico della cultura siciliana, citata come ultimo punto dell’identik dell’isolano che ritroviamo in un’altra opera di Bufalino, La luce e il lutto: “Sentimento pungente della vita e della morte, del sole e della tenebra che vi si annida”. Per una beffarda ironia del caso, la morte di Bufalino, avvenuta a causa di un incidente stradale, verrà cristallizzata e anticipata nel suo ultimo romanzo, Tommaso e il fotografo cieco. Come un guitto, l’autore smaschera l’umanità attraverso la farsa, che sia il dipinto, che sia il romanzo, mentre anche noi ci dimeniamo in altri artifici, teatri, sofferenze. La vita, quella sofferta e soprattutto quella immaginata, raramente però diventa testimonianza sublime, monito, pietra. Lo fa quando ha guardato negli occhi Medusa. Per questo incantesimo oggi ereditiamo Diceria dell’untore o l’affresco dell’Abatellis.

 

Vanni Quadrio

Vive e lavora a Palermo. Dopo la formazione artistica tra Palermo ed Urbino si è laureato presso l’Università della sua città in psicologia con una tesi sul linguaggio dell’arte e arte-terapia. Si forma in Arte Terapia a Bologna presso Art Therapy Italiana  e si specializza in Psicoterapia Espressiva presso IPSE sempre a Bologna. Fin da giovane partecipa alla vita artistica della sua città. Dopo numerose esperienze artistiche come performer (Incontri su tela, libreria Sellerio, e lo spettacolo teatrale di B. Monroy “Inferni, Luoghi, Immagini”, “Palermo di scena” – Comune di Palermo) e scenografo (375° festino di S. Rosalia) nel 1997 espone in una mostra personale (“Galleria di ritratti – Personale”. Opera Universitaria Palermo) una serie di ritratti inaugurando la sua ricerca, non ancora esaurita, sul corpo. Nel 2010 comincia il progetto “ Evoluzione” e a luglio dello stesso anno ne presenta una prima allo spazio espositivo “ CasaSuccoAcido”- Giacalone (Pa). 2009 espone in mostre collettive a Venezia, Ferrara e Milano, grazie alla collaborazione con la galleria Spazio d’Arte L’Altrove di Ferrara e a Palermo presso Spazio Deep dove espone in una personale dal titolo “ho perso la testa per Giuditta”. Nel 2008 prende parte al progetto N.EST, con un ciclo di fotografie sul tema del confronto tra centro città e periferia a Napoli. Tra il 2007-2005, partecipa alla mostra collettiva 13 x17 Padiglioneitalia. Febbraio 2006 collettiva Eugenìa, incontro tra giovani artisti di Roma e Palermo, galleria Centro Biotos di Palermo. Nel 2005 partecipa al laboratorio d’arte contemporanea e cultura del territorio (progetto Isole), con un’installazione ambientale nella Biblioteca Comunale di Isola delle Femmine. Ha illustrato racconti editi da Gaefra, Anteprima e Libr’aria e ha realizzato la copertina di RHFB Rapports-Het Franse Boek Litterature algerienne Rabalais, Amsterdam. La sua attività artistica si è svolta parallelamente a quella di formatore, ha infatti tenuto vari corsi di pittura, disegno e ceramica individuali o per piccoli gruppi ed ancora attività di riabilitazione con pazienti psichiatrici adulti, bambini. Oltre alla sua produzione pittorica e grafica esegue interventi ambientali e scultorei.

 

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