Gesualdo Bufalino: la menzogna delle menzogne

Gesualdo Bufalino: la menzogna delle menzogne

di Gianluca Crisci

IMMAGINE IN COPERTINA DI ROSSELLA GRASSO

Immagini di Rossella Grasso, tratte dal cortometraggio ispirato all’opera di G. Bufalino Dizionario dei personaggi di romanzo (www.rossellagrasso.altervista.org)

 

Menzogna delle menzogne. Tutto è menzogna. Sia consentita questa libera parafrasi del detto del Quohélet come epigrafe di questa lettura del romanzo di Gesualdo Bufalino Le menzogne della notte (1988), opera che valse all’autore il premio Strega, testo che lo stesso scrittore invitava a classificare “a piacere: fantasia storica, giallo metafisico, moralità leggendaria”. Non, dunque, romanzo storico, anzi, opera che di questo strano ircocervo letterario che tanto dannò la penna del Manzoni denuncia l’impossibilità in un’epoca che disconosce le teleologie della Storia e le frantuma nelle disiecta membra delle storie individuali. Lo sfondo storico che si intravede tra le pieghe del racconto è quello di un vago Risorgimento da melodramma, che ostenta le quinte consunte della finzione scenica, un anacronismo dichiarato dove gli stati e gli staterelli della Restaurazione sono figura di tutti gli ordini costituiti “con la stessa innocenza con cui in certe opere liriche Stoccolma diviene Boston e un re di Francia duca di Mantova”. Anacronismi storici che richiamano anatopismi geografici, condensati nel luogo che fa da sfondo alle vicende narrate.

In una non meglio precisata isola d’un regno vagamente borbonico, i membri di una setta di cospiratori (un po’carbonari un po’ pseudomazziniani) attendono il loro destino sotto la sorveglianza del Governatore dell’isola, il reazionario Consalvo de Ritis, detto Sparafucile. Sulla testa dei cospiratori pende una condanna a morte, che verrà eseguita all’alba, a meno che uno di loro non scriva il nome del loro inafferrabile capo, chiamato Padreterno dagli stessi membri del gruppo in quella che suona alle orecchie del Governatore come una parodia blasfema, e lo inserisca in una cassetta preparata all’uopo, dannandosi come traditore della causa ma salvando se stesso e i compagni di prigionia. A far compagnia al gruppetto dei rivoltosi nell’ultima notte di veglia, un misterioso personaggio, frate Cirillo, bandito in attesa anch’egli dell’esecuzione, che si presenta coperto da bende che fasciano il suo volto in seguito alle torture ricevute. Il bandito propone di trascorrere la notte prima dell’esecuzione narrando ciascuno una storia, in quello che è esplicitamente richiamato come un “Decamerone notturno”. Le storie dei condannati costituiranno i singoli capitoli dell’opera.

Siamo dunque in presenza di una classica cornice che fa da sfondo all’estremo rosario dei racconti dei personaggi, che squadernano, grano a grano, le loro esistenze, tutte più o meno irrisolte. L’espediente iperletterario della cornice, si presta a un’interpretazione più sottile sulla natura stessa del raccontare. C’è infatti uno stesso convitato silenzioso che siede, muto e invisibile, sia tra la brigata dei novellatori di Boccaccio che tra i protagonisti condannati dell’opera di Bufalino: la morte. Ma se nella perfetta scansione di temi e giornate la colta e scelta brigata del Boccaccio rifonda col primigenio e ancestrale atto del narrare il kosmos di un mondo rovesciato da quel Carnevale della morte della peste, la ricerca notturna dei narratori bufaliniani avrà esiti ben diversi. C’è tutto il peso della crisi della coscienza moderna nello scacco esistenziale dei protagonisti del romanzo di Bufalino, giocato sul filo dell’ossimoro e del paradosso. Ognuno dei nostri protagonisti, come ne I Racconti di Canterbury di Chaucer (con i suoi Mercanti, Cavalieri, Chierici, Scudieri…), incarna un Ruolo (e dunque abbiamo lo Studente, il Barone, il Soldato, il Poeta) che indossa come una maschera di questo mortuario veglione carnascialesco o che lo configura come l’illustrazione della carta di un mazzo dei Tarocchi, disposta nelle combinazioni di un sottile gioco mentale.

Bufalino, sardonicamente, ribalta il topos classico del rapporto morte/verità mescolando e rimescolando le carte della partita tra i condannati e il Governatore. L’uomo che si confronta con la morte è spesso apparso in letteratura come sulla soglia di una rivelazione definitiva, illuminante. Gli eroi greci morenti dell’epica classica erano addirittura dotati del dono della profezia, quasi come se la morte conferisse con la sua irriducibile e ultima realtà lo stigma della verità suprema; o pensiamo al principe Andrej, in Guerra e Pace, che solo sulle soglie della morte si scopre, finalmente, intero e arriva a conoscersi. La sfida gnoseologica dei narratori bufaliniani è uno scacco, una sciarada; la luce dell’alba non dissipa le ombre intessute dalle parole della notte, non c’è luce salvifica a conferire veridicità ai sogni e alle immagini notturne. Troppo grande lo iato tra i significanti e i significati perché sia possibile la verità.

E qui veniamo a quello che sembra essere il cuore di questo “giallo metafisico”. Ogni giallo che si rispetti, persino il più classico e tradizionale, sottende, lo abbiamo appreso da Leonardo Sciascia, una sfida metafisica. E quindi, dietro la cortina dell’indagine che lo scaltro, e segnato, Governatore conduce nel suo ruolo di marionettista occulto dei destini dei condannati, intravediamo l’ombra di quelli che il pensiero teologico definiva con il solenne nome di novissimi, i quesiti ultimi di ogni possibile indagine umana, tra cui spiccava la domanda sul senso della morte.

È quindi ironico, ma non meno significativo, che il mistero principale del testo è quello relativo all’identità del fantomatico Padreterno, perché, a conti fatti, ogni singolo personaggio del romanzo conduce la sua personale battaglia con Dio. La psicomachia tormentata dei personaggi si può riassumere con la parafrasi di una celebre massima di Dostoevskij: “Se Dio non c’è”, è il celebre ragionamento condotto da Ivan Karamazov, “tutto è concesso”; “Se Dio non c’è”, ci verrebbe da aggiungere dopo la lettura di Bufalino, “tutto è menzogna”. L’abisso che si schiude tra le parole e il loro significato, è l’abisso scaturito dall’assenza di un principio in grado di conferire unità, univocità e in ultima istanza verità alle cose. È questa la posta in palio dell’indagine messa in scena. In questo Bufalino si configura il “teologo ateo” evocato da Sciascia in un suo saggio su Borges. Scriveva Sciascia nel suo articolo L’inesistente Borges, apparso nella sua raccolta Cronachette:

“Qualche anno fa ho definito Borges un teologo ateo. È da aggiungere che è un teologo che ha fatto confluire la teologia nell’estetica, che nel problema estetico ha assorbito e consumato il problema teologico, che ha fatto diventare il “discorso su Dio” un “discorso sulla letteratura”. Non Dio ha creato il mondo, ma sono i libri che lo creano. E la creazione è in atto: in magma, in caos. Tutti i libri vanno verso “il” libro, l’unico, l’assoluto. Intanto, i libri sono come dei ribollenti “accidenti” rispetto alla “sostanza” in cui confluiranno e che sarà il libro (“substantia sive deus”: spinozianamente); e finché non avverrà la confluenza, la fusione, ciascun libro sarà suscettibile di variazioni, di mutamenti – e cioè di apparire diverso ad ogni epoca, ad ogni generazione di lettori, ad ogni singolo lettore e ad ogni rilettura da parte di uno stesso lettore. Un libro non è che la somma dei punti di vista di un libro, delle interpretazioni. La somma dei libri, comprensiva di quei punti di vista, di quelle interpretazioni, sarà il libro”.

 

Il libro di Bufalino, “creazione in atto”, “libro di libri” iperletterario, ultracitazionista, babelico e borgesiano nella rete dei rimandi, dei sottintesi, delle parafrasi crede ancora che si possa raggiungere il libro dei libri, il racconto dei racconti, la somma zero delle menzogne che in ultima analisi è l’unica verità cui si possa aspirare? Probabilmente no. È questo il dramma della profana rappresentazione messa in scena dall’autore. Ma si muove dentro l’orizzonte di questa teologia atea, l’unica possibile dopo che si è consumata, da più di un secolo, la morte di Dio. Se il Racconto ci è precluso, allora la natura della letteratura (letteratura come menzogna, ci ricorda Giorgio Manganelli) è quella di incarnare il paradosso di quel bugiardo che dice la verità, l’unica verità possibile, cioè la rivelazione della sua artificiosità. Non c’è un mondo da rispecchiare, fuori dal castello d’Atlante delle parole e delle storie. Non c’è un Io univoco, sicuro, che possa assurgere al titolo di Narratore; ci sono le storie, ambigue, sfuggenti, menzognere. C’è, su tutti, l’ultimo interrogativo, l’ultima indagine, la suprema inquisizione: che sia Dio la menzogna delle menzogne per giustificare il mondo o che sia il mondo la menzogna creata da un qualche dio per giustificare se stesso.

 

Biografie

Gianluca Crisci, nato a Palermo nel 1984, ha conseguito la laurea magistrale in Filologia moderna e Italianistica presso l’Università degli studi di Palermo con una tesi sull’Hypnerotomachia Poliphili di Francesco Colonna. Vive e lavora a Palermo, dove insegna materie letterarie nella scuola secondaria.

 

 

Rossella Grasso vive in provincia di Catania. Ha perfezionato la sua arte frequentando  il corso universitario per disegnatori  al  Design Media Art  (UCLA) di Los Angeles.  Ha realizzato mostre personali, contests  pubblicitari,  volontariato in carcere per insegnare arte ai detenuti,  video- artist;  autrice di  “cinema disegnato” come Magico Carillon (2016), Il Cavallo di Bronzo (2016), 132 personaggi di romanzo (2018) ispirata dal libro di Gesualdo Bufalino.  Collabora  come illustratrice  per articoli culturali di scrittori e autori sul quotidiano La Sicilia, ha pubblicato per l’Osservatore Romano, stampa e riviste culturali nazionali ed internazionali.

 

 

 

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