Il Trionfo della morte di Palermo

Il Trionfo della morte di Palermo

di Ivana Margarese

Non ai morti

si addice la tristezza

ma al bugiardo

perdurare dei vivi.

Chandra Livia Candiani, Bevendo il tè con i morti

 

Ci sono opere strettamente legate alla narrazione di un luogo come Il Trionfo della morte per Palermo. Nel Quattrocento, quando fu realizzato, il grande affresco si trovava sul muro meridionale del cortile dell’Ospedale Grande e Nuovo in Palazzo Sclafani in opposizione a un altro affresco, ispirato al “Giudizio Universale”, tema altrettanto ricorrente nella predicazione di quel tempo, che andò invece distrutto probabilmente a causa di un incendio nel 1713. Il Trionfo della morte sarà staccato dal muro dell’Ospedale soltanto nel 1944 a seguito dei danni causati dai bombardamenti per essere esposto prima nella sala delle Lapidi del Palazzo di Città e in seguito nella Galleria di Palazzo Abatellis. Questa architettura visuale complessa per bellezza e distruzione è tuttavia, al di là del luogo che la ospita, emblematica. C’è un tratto beffardo e teatrale in quest’opera che non è semplicemente memento mori o danza macabra, ma composizione di voci che, nonostante o forse in virtù dell’assenza di un’organizzazione prospettica, si rivolgono da più angolazioni allo spettatore. Siamo davanti a un fotogramma congelato in attesa di scorrere nella narrazione di una storia, a un gioco drammatico in attesa di svolgimento. La morte, su un cavallo scheletrico con le costole a vista e i muscoli e la pelle tesi e lacerati, è al centro della scena che si apre sul theatrum mundi rappresentato e divide l’affresco in quattro parti. Come scrive Libero De Libero nella sua introduzione all’opera, definita da Leonardo Sciascia come la più adatta ad aprire il valore di questo capolavoro della pittura, la visione sembra esplodere dalla rapida cavalcata della morte:

la visione esplode dallo scatto di quella velocissima cavalcata, roteando dalla supplica dei mendicanti fino all’estremo concento della fontana, con una modulazione concentrica che sembra ricondurre subito ogni gruppo a quel perno, or ora scatenato dall’ira voluttuosa della protagonista e del nitrito fulminante del suo spettrale corsiero […] Sta in groppa al “cavallo pallido”, che, pur col torace ridotto a graticcio, vanta l’energica prestanza per quel nitrito che gli tende estremamente le corde del collo e le muscolature scorticate alle natiche e alle zampe, col vento alla criniera e alla coda intatte.

L’autore o i possibili autori dell’affresco non sono noti, anche se sono state fatte in merito moltissime ipotesi, così come resta ignoto il committente. Perfino la datazione resta incerta seppure su uno dei due cartigli posti sotto l’intonaco dell’affresco fosse leggibile la data del 1441. La tradizione ha raccontato di uno straniero che giunto, sconosciuto e ammalato, in questo luogo volle fare quest’opera in segno di gratitudine e sua memoria. A questa trama si ricollega lo scrittore Eduardo Rebulla nel romanzo, edito da Sellerio, Linea di terra che ripercorre le tracce del Trionfo e del suo autore:

Per me questo dipinto è diventato qualcosa di diverso da una colta metafora: è una navigazione pericolosa, costantemente in bilico tra ragione e speranza, tra la certezza del nulla e il bisogno della rinascita.

Gli appunti visivi, la cura dei dettagli e il sentimento di malinconica precarietà espresse dall’affresco trovano nel romanzo motivazione nella storia personale di esilio e trasformazione del pittore e ne divengono presagio e testamento. Anche lo scrittore siciliano Gesualdo Bufalino ha dichiarato varie volte il suo interesse per quest’opera e in alcune pagine del Fiele ibleo la nomina tra le mete significative della città: “fra tutte quel Trionfo della morte d’ignoto, dove una morte cavallerizza punta le sue frecce fatali su un’umanità condannata, senza distinzione di rango e di età, pietrificando le vittime in una smorfia di supremo stupore”.

E ancora in Diceria dell’untore ritorna a questa immagine di “fulgore e sfacelo” che diventa eco, insieme dolorosa e gloriosa, della vicenda dei protagonisti:

Fuggimmo, ce ne andammo senza meta, evademmo in tassì dal gomitolo di straducce, scansando, non si sa mai, quel che restava di Palazzo Sclàfani, e l’affresco che parlava di noi, se era sopravvissuto alle bombe, con l’amazzone senza naso, armata di frecce, galoppante in trionfo su un’ecatombe d’illustri e d’oscuri.

Il racconto visuale interpella lo spettatore con una pluralità di stimoli e richiami e la complessa drammaturgia di sguardi dell’affresco è portatrice di una narrazione che si sovrappone a quella della Morte. Quella del Trionfo è una pittura fatta di molteplici sguardi che coinvolgono lo spettatore e lo conducono nella composizione. Scrive Michele Cometa nel suo Il Trionfo della morte di Palermo. Un’allegoria della modernità:

Prima, più di ogni altro segno, bisognerà tenere conto degli sguardi. Sguardi molteplici. Di sbieco, frontali, evasivi, intensi. La morte e il cavallo che, per singolare contrappasso, non hanno occhi. Lo sguardo silente di un cieco guidato da un cane.

Tra questi sguardi troviamo nel gruppo che ritrae i mendicanti quelli di un pittore, con in mano un pennello e la bacchetta per poggiarsi all’affresco, e del suo aiutante, che gli porge un vasetto di colore.  Come era in uso nel Quattrocento, potrebbero essere autoritratti degli stessi autori. Un duplice sguardo extradiegetico verso noi spettatori. Dall’altra parte dell’affresco, nel gruppo delle dame, in opposizione sinonimica, veniamo guardati da un suonatore di liuto e da una dama, entrambi elegantemente vestiti. I loro sguardi sono enigmatici e indolenti tanto da apparire distanti rispetto alla tragicità dell’insieme.

Ricorre tra i personaggi qualcuno all’interno del gruppo che non è concentrato sullo spettacolo che si sta svolgendo ma sembra guardare altrove, verso un altro orizzonte, rivolgendosi allo spettatore o dando a questo le spalle. Una contemplazione assorta, distaccata e intima, che rimanda a una soggettività più moderna. Come è noto, Foucault nelle sue riflessioni sulla pittura di Manet sottolineerà la valenza degli sguardi non rivolti all’azione che si sta facendo o sottratti alla vista, come quello del falconiere ritratto di spalle vicino alla fontana nella parte superiore dell’affresco palermitano: sguardi rivolti verso l’invisibile, a qualcosa che accade dinanzi alla tela o, al contrario, dietro di essa. Il Trionfo della morte tiene insieme visibilità e invisibilità in una costellazione sospesa di figure raccolte intorno a un centro che non smette di rimandare a qualcosa che non possiamo vedere. Il motivo ricorre anche nella posa dei due cani che accompagnano l’elegante paggio con gli occhi malinconici. I cani svelano chiaramente la presenza di qualcosa oltre l’affresco, hanno il presentimento del pericolo e fiutano ciò che è invisibile, compresa la morte. Anche il falconiere che, accanto alla fontana, guarda oltre la siepe si volge indisturbato verso qualcosa che non vediamo. Dante dice nel Convivio che ogni immagine rivela immancabilmente la sua fonte: nullo dipintore potrebbe porre alcuna figura, se intenzionalmente non si facesse prima tale quale la figura essere dee. E Rebulla immaginando le vicende di chi ha dipinto Il Trionfo richiama questo intreccio tra visibile e invisibile e questo anelito a uscire dal mondo:

Ciò che io desidero invece è l’eclissi: l’oscurità falsa, il visibile che diventa invisibile, scomparire ma esserci. Vorrei che la mia malattia fosse un presagio, che fosse come la tempesta di grandine che precede il sorgere della costellazione di Arturo, cioè un segnale: il visibile che annuncia l’invisibile.

 

 

 

 

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