Parola psicotica: Medusa di Luca Bernardi

Parola psicotica: Medusa di Luca Bernardi

di Sharon Vanoli

Immagini di Roberto Ghezzi (www.robertoghezzi.it)

 

«Al mare con gli Obsoleti si fanno molte passeggiate». Così inizia Medusa (Tunué, 2016), romanzo d’esordio di Luca Bernardi. Il protagonista è un tardo-adolescente disadattato che decide di trascorrere le vacanze al mare in famiglia. Tra avvistamenti di uova metalliche nel cielo, partite a ping-pong con «culi parlanti», e dialoghi con meduse e scarafaggi, affiorano memorie intorno a vicende del passato. La lingua di Medusa è grottesca e ironica, una confusione straniante in cui si mischiano lessico colto e iper-colto, termini stravaganti e gergo giovanile. Decisivo, per il ragazzo, l’incontro con un professore alcolista che lo introduce alle diffidenze linguistiche: insieme lavorano alla costruzione di forme espressive comprensibili per gli extraterrestri. Sono proprio questi ultimi a criticare la comunicazione umana:

«Vi illudete che il guaio stia in una parola. Crediamo che voi abbiate grosse difficoltà a svicolarvi da, come dire, una smania di ripetizione variata, una proclività per la scansione periodica».

Con gli alieni, il ragazzo stabilisce un patto commerciale in base al quale è tenuto a procurar loro dosi di emozioni umane, perché essi desiderano «regredire nella coscienza» tanto quanto l’uomo anela al ritorno nell’utero – collasso della lingua e collasso del pensiero, quindi, accompagnano la sequenza di immagini di questo romanzo, in cui la luna diventa un uovo luminoso e viceversa, mentre il cielo è un’esplosione di meduse. Immagini deformate, che sono «zone liquide», visioni mutanti che si inseguono l’un l’altra e inseguono il protagonista, in una trasformazione incessante che piano piano profila scenari mentali perturbanti. Se la trama è la storia di una psicosi, il primo psicotico è appunto il linguaggio. Questo è infatti il progetto del protagonista quando inizia a scrivere il Dizionario Semiologico Abissale, un’(anti)enciclopedia sperimentale: annichilire il linguaggio, scombussolando i principi convenzionali che siamo soliti associare alla comunicazione, perché «la comunicazione è ributtante» e «il segno è la sindrome dell’individuo. Anzi, l’individuo è la sindrome del segno che è la sindrome dell’individuo». Quest’ultimo gioco di parole introduce bene una delle principali operazioni linguistiche di Medusa, cioè l’assunzione del lessico linguistico stesso come mezzo di definizione della realtà. Ne derivano decine di espressioni quali «occhi sincopati», «sciami di paradigmi sciabordanti da un cielo all’altro», «asterischi delle stelle», «aria come declinazione di scarafaggi», nonché accumuli di parole a ritmo sempre più convulso e delirante: «di quisquigliante in quisquigliare, avanti e indietro, radice e desinenza e foglia ed etimo, di a da in con su per tra fra». Il risultato è un cortocircuito continuo tra significato e significante, tra linguaggio e realtà, fino al punto in cui non è più possibile capire quale dei due elementi sia davvero preso di mira, perché entrambi danno segni di inconsistenza. Alla fine non rimane più niente, ed è proprio questo niente – «il vuoto dietro lo straccio delle cose» – che il protagonista vive all’improvviso, quando il richiamo alieno sconfina in una breve esperienza di salita nel vuoto cosmico, dove tutto si frantuma in poliedri colorati che parlano, e mille facce che sono sempre la stessa, unica faccia: la sua.

Interlocutore costante del ragazzo è infatti un misterioso autointervistatore – sorta di coscienza dissociata, «contubernale cranico» – che ascolta, commenta e gli pone domande a partire dalla prima pagina. È da questa figura intrusiva che il protagonista cerca di scappare, congedandosi dalla vacanza in famiglia sulla costa tirrenica, verso l’Adriatico, con cui si apre la seconda e ultima sezione del romanzo. Ora il giovane è in compagnia di un gruppo di amici. Insieme vanno di nuovo a caccia di «culi parlanti», cercano compromessi con il Mercante degli alieni, su uno sfondo di orgie e centri di recupero. Intanto le colpe del passato ritornano insieme a figure e oggetti già evocati, le stesse distorsioni visive che ripetendosi ogni volta in nuove associazioni spingono al limite la presenza, in sottofondo, di una cantilena sempre identica:

«Senzavolto, scarafaggi. Il cielo l’avevano velato, dietro si vedevano i tentacoli, erano falsi, dietro c’erano meduse a miliardi, erano false, e anche il nulla era falso, no? L’uovo dell’orizzonte contiene un’unica medusa, no? No! Il cielo se piange crepa, no? No! L’uovo del cielo, no? No! La luna mi guarda con i tentacoli, no? Sì!».

Allora, come una spirale, il ritornello sembra avvolgersi in se stesso, e il romanzo implodere e ricominciare.

 

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