Il cortile – Parte prima

Il cortile

RACCONTO INEDITO DI EVA LUNA MASCOLINO

IMMAGINI DI ELENA PAGANI

PARTE PRIMA

Adela non aveva ancora compiuto dieci anni quando il medico era stato convocato in gran fretta a casa Madras per qualcosa di diverso dal solito. Erano i primi di giugno, i cappotti sonnecchiavano ancora negli armadi e le balconate si ripopolavano di insetti a vista d’occhio. Barão Pereira, unico dottore in tutta San Nuno, si era alzato poco dopo l’alba, si era infilato i vestiti del giorno prima, lavato la faccia senza preoccuparsi di asciugarsela e diretto a casa Madras dopo avere sistemato il letto alla meno peggio.

Arrivò a destinazione che l’orologio della chiesa stava battendo le otto. Aspettò l’ultimo rintocco e poi suonò il campanello con la dignità dei puntuali. La signora Madras lo accolse con un Dottor Pereira, finalmente! tra i più acuti della stagione e lo fece accomodare.

«Non si è fatta accompagnare a scuola nemmeno oggi, io non so proprio come prenderla», spiegò riferendosi ad Adela, mentre precedeva Barão Pereira al piano di sopra. Spalancò poi la porta in fondo al corridoio, su cui cinque calamite componevano il nome della ragazzina, e fece segno al dottore di entrare.

«La aspetto qui, si prenda tutto il tempo che le serve.»

Barão Pereira avanzò, esitante.

«Lei è già sveglia?», chiese alla padrona di casa.

«Sì, la sta aspettando», mormorò quella, mentre già apriva la porta.

Prima di congedarsi, rivolse al medico un’ultima preghiera:

«Cerchi di scoprire cosa diavolo le è preso.»

Adela era appoggiata ai bordi del letto, con le gambe incrociate. Aveva le labbra contratte in una sorta di ostentato sigillo, gambe magre e braccia che terminavano in dita affusolate. Le sue piccole ciglia sbattevano spesso, quasi per vezzo, ma l’espressione del volto restava severa, e i capelli neri e ribelli le conferivano un’aria a tratti selvaggia, a tratti sciocca. A tratti dimessa, a tratti già seducente. Quando il dottore accennò un sorriso, lei si sollevò dalle coperte con la leggerezza di un gatto e gli voltò le spalle, avvicinandosi alla finestra con una margherita fra le mani.

Il resto della visita avvenne in totale segretezza. Barão Pereira rimase nella stanza per quasi un’ora e nessuno seppe mai cosa avesse chiesto alla bambina. Sta di fatto che, quando uscì di lì, lui era poco turbato e Adela era più serena.

«Non ha niente», sentenziò mentre Adela imboccava già il corridoio senza degnare i presenti di uno sguardo. Da un paio di settimane non pronunciava quasi una parola, ma il dottore, dopo numerosi ringraziamenti e strette di mano, andò via ripetendo che la piccola si sarebbe ripresa in fretta e che non c’era nulla da temere.

Dopo essersi lasciato la casa alle spalle, però, Barão Pereira abbassò la testa e sospirò. Non era stato del tutto sincero con i Madras, anche se forse pazienti come loro lo avrebbero meritato.

La famiglia di Pedro Madras era arrivata a San Nuno sette anni prima, con un leggero bagaglio in spalla e due capre al seguito. Il giovane Pedro era allora asciutto di corporatura e piuttosto agile. I suoi modi garbati, al limite dell’impaccio, gli avevano fatto conquistare subito la simpatia del sindaco, che era stato ad ascoltare le disavventure del nuovo cittadino con pazienza e partecipazione.

«Sono originario della Spagna, señor. Mia madre era catalana, mio padre italiano. Si conobbero durante uno dei soggiorni militari di mio padre a Barcellona, dove i compagni d’armi lo iniziarono al fumo, all’alcol e alle belle donne, fallendo in tutti e tre i fronti: mio padre tossiva come un bebè alla sola vista del fumo, si dichiarò astemio e sopportò con riluttanza le passeggiate notturne ai bordelli, davanti ai quali aspettava i compagni fino alle prime luci dell’alba.

Il nome di mio padre era Eugenio Madras, nato e vissuto nel sud Italia, ma di indubitabili origini iberiche, e aveva accettato la prima ricognizione in Catalogna all’età di diciannove anni, nella speranza di incontrare alcuni parenti di cui aveva sentito parlare. Loro avrebbero forse potuto strapparlo alla miseria e alle malsane tradizioni della sua terra, pensava. Quando fu ricevuto nella dimora dei fratelli Madras, in pieno centro storico, due cugini di secondo grado per parte paterna, restò piacevolmente sorpreso nel constatare che l’atmosfera degradata e rozza a cui la città lo aveva abituato non aveva contagiato quella palazzina. L’eleganza senza fronzoli che ogni membro della famiglia esibiva con umiltà, servitù compresa, furono un’ancora di salvezza per mio padre, che rinnovò le sue visite per più di un fine settimana, socializzando in fretta con Santo e Carlos Madras, entrambi più vecchi di sei anni rispetto a lui.

A casa loro imparò a giocare a carte, a tenere in mano un sigaro senza aspirarlo, a maneggiare le posate nel modo corretto e a servirsi delle sopracciglia per mostrare disappunto, orgoglio o benevolenza. I fratelli Madras erano bonari e di temperamento caldo, amavano le feste ma non le gozzoviglie, erano abili seduttori senza diventare mai volgari, e si affezionarono presto a quel giovane cugino un po’ ingenuo: lo iniziarono alla caccia e al galoppo, fino a fargli dimenticare le notti insonni trascorse davanti ai postriboli, il retrogusto pungente del whisky e il prurito delle narici a contatto con la marijuana.

Così, dopo quasi un anno mio padre si rivelò un compagno sveglio e fidato, e (ahimè) un militare piuttosto inetto. Questo lo portò ad allontanarsi dall’esercito, per avvicinarsi invece agli investimenti dell’impresa familiare gestita da Santo e Carlos, dei quali diventò il più stretto collaboratore. Alla fine dell’inverno riuscì a trovare un appartamento arredato di tutto punto e non lontano da casa Madras, nel quale si trasferì nei primi giorni di primavera. I cugini andarono a congratularsi con lui durante la prima settimana di aprile ed Eugenio insistette per ospitarli per un paio di notti. Al terzo giorno, disse a Santo e a Carlos:

«Ieri ho scritto una lettera ai miei genitori, spiegando loro che non tornerò in Italia nemmeno a colpi di frusta. Ho l’intera vita a disposizione per ripagarvi dell’esistenza che potrò condurre in questa terra ospitale per merito vostro. Sono vostro servo: vi basterà aprire bocca e io obbedirò.»

Santo, il più spigliato dei due fratelli gemelli, rispose con una sonora risata e una pacca sulle spalle del cugino, a cui ordinò:

«Vuoi davvero farci un favore, cugino? Ebbene: sposati.»

Mio padre recepì a fatica quelle parole, troppo abituato all’indipendenza, alla compagnia maschile e alle questioni economiche per prendere seriamente in considerazione il matrimonio. D’altronde, sosteneva di non conoscere nessuna femmina attraente e divertente al tempo stesso, di non sapere corteggiare le donne sensuali ma ignoranti, né tanto meno certe intellettuali insulse. Si dichiarava immune ai profumi orientali, ai veli indossati con maestria sulle spalle e al tintinnio di orecchini e bracciali. Si definiva un animale selvatico, poco adatto alla convivenza, e mostrava un disgusto esagerato nei confronti delle virtù tipiche di una giovane di buoni costumi.

Fu per questa ragione che Eugenio Madras scosse la testa come un toro e cercò di cambiare argomento. Lo stesso identico copione si ripeté fino ad agosto e terminò solo grazie a un intervento di Carlos Madras.

«Cugino», esordì questi, passando un braccio attorno alle spalle di mio padre, «quasi una stagione fa hai ospitato me e Santo in casa tua sostenendo di essere pronto a soddisfare qualunque nostro desiderio, pur di ricompensare l’amicizia che ti avevamo dimostrato. Eppure, da quando Santo ti ha suggerito di prendere moglie, tu hai fatto orecchie da mercante, anzi, ti sei impegnato con zelo a evitare questa opportunità. Dicevi di volerti mettere a nostra disposizione, ma da quando proviamo a darti un consiglio, fra l’altro, per il tuo bene, tu non fai che deluderci.»

«Carlos», rispose subito mio padre, turbato, «a te e a Santo io devo il mio onore, la mia reputazione di gentiluomo e adesso parecchi investimenti. A voi devo la mia nuova cerchia di conoscenze, nuove abilità, incalcolabili favori e ogni dimostrazione di affetto disinteressato. Sarò vostro debitore fino alla morte, lo sai bene: ho dato la mia parola. Nonostante questo, cugino, non mi sento pronto ad affrontare l’esperienza del matrimonio, né ritengo degna di me alcuna delle signore che ho conosciuto. Sono un uomo di umili origini, ma ambizioso e bisognoso d’affetto: al mio fianco vorrei una donna forte, coraggiosa e tenera. Una donna riservata, però brillante e astuta. Combattiva, eppure sottomessa al mio amore e alla mia autorità. Una compagna di viaggi, una consigliera, una guaritrice, un’amante fedele e tollerante, ma dall’animo libero. Non mi accontenterò di nessuna che non possieda tutte queste qualità, mio buon Carlos. Se saprai presentarmi una donna simile, ben istruita e delicata nei modi, allora prometto che la sposerò all’istante.»

Per quanto Carlos Madras avesse recepito quello del cugino come un misero capriccio, raccolse la sfida in men che non si dica, supportato ancora una volta dal fratello. La loro ricerca comportò mesi di impegno, di partecipazioni ai più svariati salotti e di conversazioni vicine all’interrogatorio, ma non sortì i risultati sperati.

Una sera in cui Santo ululò di essersi rassegnato al fallimento, ebbe la fortuna di trascinarsi fino a un piccolo locale periferico per bere un rum e dimenticare lo scottante insuccesso. Il posto era tenuto indiscutibilmente male, era arredato con mobili spogli e tavoli sgangherati, ed era poco frequentato. Nell’entrare, Santo sentì un brivido percorrergli la schiena e sfiorargli la nuca.

Vinto dall’afflizione, si risolse comunque a prendere posto e borbottò che gli portassero qualcosa di forte da bere.

Al bancone non c’era nessuno. Santo Madras si guardò attorno, non vide anima viva e scandì l’ordinazione a voce più alta. Una giovane cameriera lo raggiunse fra mille scuse e gli preparò un rum fra i più buoni che Santo Madras avesse mai assaggiato.

«Di solito non viene molta gente qui, sa… Ecco perché me ne stavo in cucina.»

Santo Madras non avrebbe badato a quelle spiegazioni, se la cameriera non avesse avuto una voce tanto risoluta e se non gli avesse appena deliziato la gola. Si girò per osservarla meglio. Portava una cuffia in testa, da cui scivolava un ciuffo di lisci capelli corvini. Il viso, incorniciato da un laccetto, era aggraziato e colorito. Le labbra erano carnose quanto bastava, e sembravano allenate a sorridere con compiacimento e pudore. Le sue mani curate e svelte la raccontavano lunga sulle sue abilità pratiche, così come sulla sua potenziale bravura nel dare piacere agli uomini.

«Come ti chiami, ragazza?», sputò quasi Santo Madras, incuriosito.

«Fortuna.»

Fortuna, ripeté fra sé Santo Madras.

«E ti ritieni una persona fortunata, Fortuna?»

«Non saprei, signore», ammise la cameriera, abituata a eludere quella domanda.

Santo Madras era deciso a non farsi scappare quell’occasione: dopo innumerevoli sforzi nell’alta società di Barcellona, infatti, la candidata che più avrebbe soddisfatto le richieste di Eugenio Madras lavorava forse in una stamberga.

Lei lo fissò con le sue pupille castano scuro.

«Le verso un altro rum?»

«No, grazie, Fortuna», provò a dire Santo Madras, «anche se avrei bisogno del tuo aiuto.»

In breve, spiegò alla cameriera le vicende che lo avevano condotto fino a lì, anticipandole che non era sicuro di avere trovato in lei la sposa giusta per quel suo eccentrico cugino, ma che valeva la pena fare un tentativo e rivolgere alla ragazza alcune domande.

«La tua vita potrebbe cambiare da così a così, Fortuna,» aggiunse per convincerla «potresti diventare la più fortunata fra quelle che portano il tuo nome.»

Lei, divertita e consapevole di non avere nulla da perdere, decise di stare al gioco per un po’. Disse di essere figlia di una schiava africana poi emancipata e di un intagliatore di statuette che stava patendo la fame a causa della cattiva nomea della moglie sbarcata in Spagna. Si vociferava infatti che quest’ultima avesse ottenuto la libertà sgozzando nel sonno i padroni americani, ma né il suo innamorato né lei, Fortuna, avevano mai prestato fede a quelle dicerie, ben consapevoli delle condizioni di alienazione e sofferenza dalle quali Tildy (così era stata soprannominata in Louisiana) era stata strappata via per volere della sorte.

Alla nascita della prima figlia, ormai salva dai colpi di frusta, Tildy l’aveva chiamata con il nome della dea che aveva protetto la giovane madre: Fortuna. La bambina, cresciuta nella rete pericolosa e ammaliante della libertà, si era dimostrata indomita e avida di sapere: aveva imparato a leggere e a scrivere, si intese presto di politica e di arazzi, familiarizzò con il galateo e diventò esperta di rimedi erboristici, alta moda e igiene.

Tre anni prima dell’incontro con Santo Madras, il padre le aveva parlato a quattr’occhi e con i nervi tesi, mettendola al corrente del fatto che la famiglia rischiava la bancarotta. Fortuna avrebbe dovuto tirar fuori dalla miseria i genitori, iniziando a svolgere qualche lavoretto.

«So rammendare, tenere pulita una casa e cucinare decentemente», aveva detto Fortuna.

Il padre aveva scosso la testa.

«O fai la prostituta o fai la cameriera.»

La madre, però, terrorizzata al pensiero che Fortuna restasse schiava degli uomini e del loro sporco denaro, l’aveva accompagnato di bettola in bettola finché un omaccione vicino alla pensione non le aveva proposto di piazzarsi per dieci ore al giorno dietro al bancone. Lo stipendio non era dei migliori, ma Tildy aveva accettato subito l’offerta per nome della figlia e le aveva raccomandato di lasciarsi corteggiare dai clienti solo a patto che non le mettessero le mani sotto i vestiti senza il suo permesso e che non parlassero di nozze.

Queste furono le ultime parole che Fortuna riportò a Santo Madras.

«Così lavori qui da tre anni?»

«Sì.»

«E ti sei lasciata corteggiare molto?»

«Quanto è bastato per curare mio padre, che si è ammalato di tifo.»

«Che genere di regali ricevi di solito?»

Fortuna rifletté qualche istante.

«Per la maggior parte anelli o scarpe di vernice. Qualche volta delle gonne o dei biglietti soltanto. Una volta pure una giarrettiera.»

«Una giarrettiera?», ripeté Santo Madras, incredulo.

«Gli uomini sono la razza più bizzarra che abbia mai conosciuto», replicò Fortuna.

«Saresti disposta a incontrare il più bizzarro fra loro, a lasciare questo locale e a guadagnarti da vivere sotto il suo tetto e con il suo cognome?», le propose allora Santo Madras, ormai persuaso di non essersi sbagliato sul conto della giovane.

Fortuna, poco avventata di natura, si limitò a un Perché no? scrollato con le spalle. E fu così che, l’indomani mattina, i miei genitori si conobbero.

Eugenio Madras, troppo cinico e pretenzioso per fidarsi di una cameriera scovata in periferia, arrivò in anticipo all’appuntamento e per mezz’ora si annodò e snodò come un idiota il nodo della cravatta, masticando una pietanza immaginaria per l’ansia che lo corrodeva dall’interno. Santo e Carlos Madras lo raggiunsero alle undici e trenta, tenendo ciascuno per una mano Fortuna Torres. Lei indossava un abitino turchese di cotone lungo fino al ginocchio, pieno di lacci e fasce sul petto. Ai piedi aveva delle scarpe bianche con un tacchetto, alle orecchie due ovali di agata bianca. Arrivati di fronte al cugino, i due fratelli raccolsero il capello che gli era appena caduto a terra per l’impaccio e fecero le presentazioni in grande stile.

Eugenio Madras la osservò a lungo senza perdersi in chiacchiere, e rimase mortificato dalla reazione infastidita della giovane quando lui si accese un sigaro. A distendere l’atmosfera furono i gemelli Madras, che ripeterono quanto avevano appreso sul conto di Fortuna mentre lei si limitava a sorridere con garbo. Fra un fazzoletto scivolato e un secondo sigaro acceso male, si guadagnò la discreta attenzione della cameriera, che non osò ridere di lui.

Quei due non sarebbero diventati marito e moglie, comunque, se non fosse passata di lì una camionetta che vendeva frutta e verdura.

Eugenio, pur di rompere il ghiaccio, azzardò:

«Le interessa la coltivazione, signorina?»

«Non particolarmente, ma ho dovuto imparare molto sull’argomento.»

«Come mai?» si informò ancora Eugenio.

«Per via di mia madre», spiegò Fortuna, «ha insistito fin da quand’ero ragazzina perché conoscessi la giurisprudenza, la politica e il giardinaggio. È convinta che siano tutt’e tre indispensabili nell’educazione di una donna libera, che vuole essere rispettata dai propri simili.»

«Così è», approvò soddisfatto Eugenio Madras. Poi, mutando tono di voce, aggiunse:

«Le sarei molto grato se volesse aiutare il mio pollice a diventare più verde, di tanto in tanto. Senza nessun impegno, naturalmente», si affrettò a spiegare.

Gli occhi di Fortuna avevano luccicato in modo impercettibile, forse per via dell’indiretta stima che Eugenio sembrava aver appena dimostrato nei suoi confronti. Questo la spinse ad annuire con complicità, poggiando cinque dita su quelle del giovane Madras e altre cinque sul proprio orecchino sinistro, mentre rispondeva con un misto di servilismo e superbia:

«Sarò onorata di rendermi disponibile tutte le volte che vorrete, signore.»

Eugenio non sobbalzò soltanto perché era una persona composta per carattere, ma interpretò quel come un consenso alla proposta di matrimonio che non aveva ancora formulato.

Fu così che non risultarono necessari corteggiamenti, dichiarazioni, accordi verbali: con uno sguardo d’intesa i due si erano già confidati ogni sentimento, ancora confusi ma reciproci, e si apprestarono a dichiararsi il resto durante i primi incontri dedicati alla coltivazione. Eugenio Madras convinse Fortuna a vedersi in casa propria, per distogliere la ragazza dal clima di malattia che imperava dai genitori di lei. Si davano appuntamento nel piccolo orto dietro la cucina alle sedici di ogni martedì, giovedì e sabato, e si congedavano poco prima di cena. In quel lasso di tempo Eugenio Madras poté studiare la disinvoltura, l’innata dolcezza e la fierezza di Fortuna, ammirando la sua impeccabile educazione, i suoi gusti e la sua scioltezza nel discorrere.

Tutto ciò lo invogliò a imparare bene e presto ogni suggerimento della giovane. Dal proprio canto, Fortuna nutriva rispetto per quell’uomo ancora acerbo e introverso, ma già nobile d’animo e sveglio di mente, patriottico per abitudine, ateo eppure fedele all’amore. Ci vollero tre mesi per farla innamorare perdutamente e altre sei per essere portata all’altare.

Le nozze vennero celebrate di domenica mattina come aveva imposto Tildy Torres, devota a incomprensibili riti africani. Il padre della sposa, invece, vide soddisfatto il proprio capriccio di maritala in una chiesa cattolica poco lontana dalla Sagrada Familia, alla quale si presentarono festanti i parenti di Fortuna, gli amici di Eugenio e quattro testimoni di nozze scelti con cura. La cerimonia durò circa due ore, tenendo conto del pianto corale scoppiato a metà messa nella navata sinistra (riservata ai Torres) e dell’interminabile gospel intonato da Tildy con l’accompagnamento dell’organo dopo il fatidico (padre Sergio, che non era stato avvisato di quella iniziativa e che non la gradì affatto, si riprese quasi subito dalla sorpresa e continuò a predicare come se nulla fosse stato, servendosi per la prima e l’ultima volta del microfono messo e interrompendosi solo dopo un che l’organo e le corde vocali di Tildy Torres si erano zittiti).

Eugenio Madras ebbe l’obbligo di baciare la sposa davanti a tutti, mentre si trovava ancora sull’altare. Sarebbe stato il loro primo bacio e lui, imbarazzato dalla folla, avvicinò le labbra a quelle di Fortuna dicendole in un soffio:

«Voglio sfiorarvi quando saremo soli.»

Dovettero passare molte ore, però, prima che i due giovani Madras riuscissero a restare soli davvero. Prima si svolse un estenuante banchetto organizzato dai cugini di Eugenio; poi fu il momento di raccomandazioni, consigli, minacce e regali presentati dalla signora Torres alla figlia e al genero, seguiti da un’interminabile benedizione del cagionevole signor Torres. Per finire, gozzoviglie e civetterie coinvolsero fino al tardo pomeriggio Eugenio Madras nel tentativo di rimediare al suo mancato addio al celibato. Gli sposi si aspettarono a vicenda con eroica pazienza, pur smaniando di voluttà nell’attesa di accarezzarsi.

L’ultimo ospite strinse loro la mano dopo cena. Eugenio Madras lo accompagnò all’ingresso e Fortuna ascoltò con il cuore in gola il rumore della porta che si apriva e si richiudeva alle spalle del visitatore. Lui la aggiunse in uno, due, tre balzi, e la strinse a sé tremando da capo a piedi. Chiuse gli occhi e le accarezzò i gomiti, i polsi, i fianchi, le spalle, il collo, le guance e i capelli. Poi spalancò le palpebre e le guardò le labbra. Sforzandosi di non cadere in ginocchio la baciò, mentre Fortuna percepiva il calore che si era acceso anche in lei, piena di devozione e di passione purissima. Le sfilò gli abiti con una lentezza millenaria, poi si lasciò a sua volta denudare un gesto dopo l’altro, finché entrambi non si ritrovarono senza più niente addosso, adoranti e increduli di fronte a quello spettacolo. Fortuna lo prese per mano e lo portò in camera da letto, un’ampia stanza affacciata su un cortile. I due si sdraiarono nello stesso istante, amandosi poi senza molte parole fin oltre l’alba.

FINE PARTE PRIMA

Biografie

Eva Luna Mascolino, editor e traduttrice freelance, è nata a Catania e si è laureata con il massimo dei voti alla Scuola per Traduttori e Interpreti di Trieste, dopo avere svolto tre scambi all’estero. Ha vinto il Premio Campiello Giovani 2015, tiene corsi di scrittura e collabora da anni con concorsi, festival e riviste culturali, oltre ad avere cofondato nel 2020 LightMagazine. Attualmente vive a Milano, dove frequenta il master in editoria organizzato da Fondazione Mondadori, AIE e La Statale.

 

Elena Pagani, lombarda di nascita, emiliana di formazione e siciliana di adozione, vive a Palermo dal 1983 dove ha vissuto esperienze artistiche che hanno lasciato una traccia importante nel suo viaggio attraverso la pittura. Numerose le mostre personali e collettive, in varie città d’Italia, ma anche a Barcellona, Londra e New York. Le sue opere, recensite da scrittori, poeti e critici, hanno ottenuto notevoli successi.

 

No Comments

Post A Comment