03 Dic Glück, un diario del passaggio
Glück, un diario del passaggio
di Mariadonata Villa
Tante cose si sono scritte di Louise Glück, da quando il Nobel l’ha tolta all’oscurità del grande pubblico. La sua voce limpida e aspra attrae, molto al di là del dato biografico che la motiva, e che terremo dall’altra parte della soglia, in questo viaggio tra i suoi testi.
È una soglia che lei stessa varca costantemente, senza retorica, ma con il passo netto del gesto. Non c’è nulla di guerriero, di battagliero, di epico, ma un costante chiamare in causa del lettore, o meglio, dell’altro da sé (come i rinascimentali facevano con l’occhio di chi guarda, per tirarlo dentro l’immagine, per rompere la distanza).
Il nostro viaggio possibile parte da una spaccatura, una faglia tellurica, che troviamo in Averno: “Dicono/ che c’è una faglia nell’anima umana/che non è stata fatta per appartenere/ del tutto alla vita”. Una faglia, un rift.
Per costituzione l’anima ha una crepa, un passaggio da cui i morti e i vivi passano clandestini. Non è chiesto obolo per questo passaggio, se non l’accettazione della responsabilità di quella che Glück chiama negative creation, creazione negativa. Che cos’è che ci salva dal male, soprattutto quando il male è nostro? Niente, sembra dirci, ma non importa – o forse, invece, ci salva la vita stessa, che anche del male fa creazione.
Le descrizioni della natura, il suo vivere in essa, hanno qualcosa della cesta di frutta di Caravaggio: una luce che non teme di mettere sul piatto anche ciò che già la corrompe.
In tutta l’opera corre carsico il fiume del corpo, la lotta di tutta un’esistenza: quello della natura, forse l’unico che Louise/Persefone sa abitare, quello umano, sede dell’amore e dello straniamento, quasi un dispossesso anche nel momento più intimo dell’atto corporale. Come se esso fosse contemporaneamente guardato all’interno e dal di fuori, indagato per esporre un mistero che però non si rivela mai, nemmeno in piena luce. L’amore è un fulmine, le dice la sorella, ma guardando agli adulti sembra piuttosto, chiosa lei, il lampo di una sedia elettrica. “A differenza di tutti noi, non sa/cos’è l’inverno, ma solo/ che è lei la causa”. Persefone è causa dell’inverno, ma non ne ha cognizione, mentre noi invece che leggiamo, che viviamo –persone, e non dramatis personae – sappiamo. (“Sai, puoi anche non farti piacere nessuno. I personaggi/non sono persone”, Persefone vagabonda). Conoscere è una via ripida che, come la natura sa bene, può portare alla morte. In Echi, scrive: “Una volta immaginata la mia anima/potevo immaginare la mia morte”. Immaginare, altra faccia del dire. C’è un filo dorato che sempre percorre il corpus dei testi, quello del ragionare della poesia, del tessuto del dire au de dans, dal di dentro. La voce umana, cambiata nella voce della natura dall’impatto contro il fianco della montagna, pone una domanda al silenzio, e il silenzio risponde. Così in Paesaggio: “ La sua voce adesso è diventata molto strana,/la voce di uno che chiama/ ciò che non sa vedere”.
Ancora una sinestesia dell’assenza, l’altro volto del terribile. Si apre ne L’iris selvaggio un lungo arco che arriva fino ad Averno, proprio nei testi che danno il titolo alle due raccolte:
“È terribile sopravvivere/come coscienza/sepolta in terra scura. […] Tu che non ricordi/passaggio all’altro mondo/ ti dico che potei parlare di nuovo: qualsiasi cosa/ ritorni dall’oblio, ritorna/ per trovare una voce” (Iris).
Il silenzio e la voce, la voce e il silenzio. “È terribile essere soli./ Non intendo vivere soli -/essere soli, nel punto in cui nessuno ti ascolta. / Mi ricordo come si dice sedia. /Ma voglio dire – non mi interessa più”( Averno). Non c’è salvezza nel mondo di sotto, ma solo nel credere e amare, nonostante tutto, ciò che si vede, che consiste, che sta, ben al di là dell’accessibilità del significato. Sappiamo solo quello che vediamo; le parole non ci sono di aiuto. Non c’è salvezza nemmeno in esse. Bisogna credere nell’incendio. “Tutto quello che sappiamo:/il campo è bruciato./ Ma l’abbiamo visto”.
Non c’è altro spazio se non questa dilatazione del visibile, dove l’unico giudizio (ius dicere) è il coraggio piano e feroce di chiamare le cose col proprio nome. A volte le parole vengono usate da chi le traffica come vestiti da indossare per coprire un corpo piagato. E invece Glück non teme piaghe, scopre i corpi – umani, vegetali – e li espone ai rigori dell’inverno incipiente, a un ottobre che vede, forse, al di là di tutto il ghiaccio dei passaggi. “Persefone, protetta,/guarda fuori dal finestrino della carrozza./ Che cosa vede? Un mattino/di primavera, presto, in Aprile”.
Sono gli uomini, in fondo, i custodi unici della memoria:
“Quando la terra decide di non avere memoria/ il tempo sembra in certo senso insignificante”. E, più oltre: “La natura, alla fine, non è come noi; / non ha un magazzino della memoria./ Al campo non viene paura dei fiammiferi”. Senza memoria, rimangono solo fatti: “Sali su un treno, scompari./ Scrivi il tuo nome sulla finestra,/ scompari”.
Si può arrivare a dire, dunque, della morte, eterna Medusa che gli umani non osano guardare in volto, ma Glück fissa dritta negli occhi (settantadue occorrenze del termine nel corposo Poems 1962-2012, Macmillan): “La morte non può farmi male/ più di quanto tu mi abbia fatto male,/amata vita mia” (Ottobre). Una vita che “si riduce a un niente, in realtà, quasi/ un attimo sulla terra./ Non una frase, ma un respiro, una cesura” (Labor Day).
Dalla morte, però, si ritorna. Cambiati, ma vivi. Di fronte alla morte e al silenzio, non esistono aggettivi. Il lessico, scarno ed esatto come un bisturi, non lascia spazio all’interpretazione, al non detto della metafora: tutto è lì, squadernato e vertiginoso. L’angolo incolto del giardino apre voragini, dà luogo a una nuova liturgia delle Ore, a cui Glück si riferisce esplicitamente in tutto il corpus dell’Iris, coi suoi Mattutini e i suoi Vesperi laici, diretti a un “irraggiungibile padre” (con la minuscola), che riecheggia per litote l’altro biblico che rifiuta.
La condanna, allora, è la solitudine?
“Non sei sola, /diceva la poesia, /nel buio del tunnel”(Ottobre).
Se tengo i testi di Glück davanti agli occhi, non riesco, per quanto cerchi, a ricordare angoli bui; per quanto le sue parole facciano male, lasciano sempre addosso uno splendore. Lo splendore del rift.
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