15 Dic Buona la prima
Buona la prima
Racconto inedito di Caterina Bonetti
Immagini di Benedetta Moracchioli
La prima volta che sono scomparsa non me ne sono accorta.
Avevo cinque anni e mia madre ballava scalza nei prati, l’edera verde intrecciata in testa.
Il 1970 era arrivato da qualche mese anche a Rivarolo, ma nessuno ci aveva fatto caso. Non mia nonna, vestita di un nero lutto cominciato ben prima della morte di mio nonno, solo perché ormai aveva passato i sessant’anni. Non mio zio, che di anni ne aveva diciannove quando aveva sposato una ragazza che non lo amava perché una sera, dopo la festa per la mietitura, si erano ritrovati soli in mezzo all’erba medica.
Non il paese, dove le donne erano ancora bandite dal caffè e la domenica la piazza era popolata da cappelli a tesa larga, mentre i foulard sciamavano dalla chiesa, ognuno per la sua strada, a preparare il pranzo.
Soprattutto non se n’era accorto mio padre, con le sue giornate di lavoro tutte uguali, il tempo segnato dall’alternarsi dei pantaloni grigi di lana e di lino, la cena consumata alle otto, davanti al telegiornale, indifferente ai fiori sulla tavola.
Quando siamo partite, con la corriera delle due del pomeriggio, nella piazza, spaccata dal sole di agosto, non c’era nessuno.
“Facciamo un viaggio” ha detto mia madre.
Ho preso con me un libro, il secchiello e i calzini di lana fatti da mia nonna, senza i quali non riuscivo a dormire. Non avevamo mai fatto un viaggio, ma sapevo, dalle storie che lei mi raccontava la sera, che una grande avventura comincia sempre così.
Non siamo arrivate al mare, ma al quinto piano di un palazzo nella prima periferia di Bologna, dal quale si vedevano i colli e il gasometro.
Per qualche tempo ho chiesto quando saremmo tornate a casa, quando avremmo telefonato a papà, se ci avrebbe raggiunte. Poi è cominciata la scuola e ho iniziato a chiedere un cane, come quello di Matilde, della prima B.
Un giorno un signore con la barba lunga mi ha chiamata per nome all’uscita da scuola. Conosceva la mamma, sapeva che avevo un cane di nome Paco, mi ha regalato un cappello di lana e una scatola di caramelle. Mi aveva pregato di non raccontare nulla a mia madre.
“Hai incontrato qualcuno oggi dopo la scuola?” mi ha chiesto lei quella sera a tavola.
“Nessuno” ho risposto e lei non ha aggiunto altro. La mattina dopo la scatola di caramelle era sparita dalla mia cartella e non ho avuto il coraggio di chiedere spiegazioni. Il cappello di lana invece era ancora lì, sulla sedia dove l’avevo lasciato. Ho capito che nella vita ci sono domande che non si devono fare, per il dolore che potrebbero causare le risposte.
Non ho mai più rivisto mio padre.
La seconda volta che sono scomparsa mi ha aiutata il caso.
Era l’autunno del 1981, frequentavo la terza liceo. Come ogni giorno Marco mi aspettava fuori da scuola. Il suono della campanella, il crescendo di voci che si annacquava all’aria nel cortile e lui, in piedi di fianco al suo Ciao, in mano un libro e la sigaretta all’angolo della bocca. Aveva diciannove anni e un sogno di rivoluzione che, nella mia testa, mal si conciliava con l’anello che mi aveva mostrato alcune settimane prima.
“Fra due anni Isa ci sposiamo. Andiamo a Londra, ci togliamo da questa città che dorme”
“Ma perché sposarci? Andiamo a Londra e basta no? E poi c’è tempo…”
“Prendi l’anello almeno” mi aveva detto “in fondo è un regalo, no? Non devi darmi una risposta adesso”. Un semplice regalo, un pensiero gentile, ma ogni volta che lo dimenticavo sul comodino, mi chiedeva perché non lo indossassi.
“Non è importante, se non ti piace. Però secondo me è carino, ti sta bene”
L’aria pesante frenava le parole.
Avrei voluto rispondere che non mi piaceva indossarlo, che non era un regalo come tanti. Non era un braccialetto, non era un disco. Avrei voluto dirgli che gli volevo bene, che stavamo bene, ma che non trovavo Bologna soffocante, che stavo bene così.
Mi soffocava l’idea di quell’anello al dito, la sua presenza ogni mattina sotto casa, la mano alzata per farsi vedere all’uscita da scuola e “dai, saluta le amiche che andiamo”.
Avrei voluto dirgli che non bisogna fare domande le cui risposte non abbiamo la forza di ascoltare.
Così quel giorno, percorrendo il corridoio che dalla classe portava all’atrio, lo sguardo si è fermato sull’uscita di sicurezza. Non l’avevo mai notata, mi ha chiamata. Ho aperto la porta e sono scappata dal retro. Camminando verso casa, il cappello calato sulla fronte, le suole che strusciavano sull’asfalto sotto il peso dello zaino, mi voltavo al rumore di ogni motorino. Non ho risposto al telefono quel pomeriggio, né alla porta. La mattina dopo mi sono alzata prima per prendere l’autobus in anticipo e così il giorno seguente e quello dopo ancora. Fino a quando la scritta “Isabella puttana” è apparsa sul muro di cinta della scuola. Allora sono tornata alla pensilina con gli altri, liquidando con un’alzata di spalle le domande delle amiche.
Poi c’è stata una terza, una quarta, una quinta volta. Nemmeno ricordo quante. Treni persi o presi in direzione opposta, numeri di cellulare cambiati, vestiti lasciati negli armadi, date dimenticate, senza mai tornare indietro.
Fino a Paola e le parole leggere sul divano nella sua mansarda. Paola che mi aveva ospitata la sera del nostro primo incontro, perché quattro gin tonic avevano fatto sparire le chiavi di casa dalla mia borsetta. Lei che dormiva con la finestra leggermente aperta anche in inverno.
“E se me ne andassi?” le ho chiesto una sera mentre preparavamo la cena.
Lei, di spalle, cercava qualcosa nel frigorifero.
“Probabilmente ti chiederei perché” mi ha risposto senza voltarsi.
“E se sparissi? Così, senza farmi più trovare”
“Soffrirei, ma me ne farei una ragione. Tutti se ne fanno una, anche se ci piace pensare il contrario”
Poi ha indossato la mia giacca, si è accesa una sigaretta ed è scesa a comprare delle birre.
Ho chiuso le poche cose che avevo portato lì in una borsa, la porta alle spalle, ho staccato il telefono.
Quando l’ho riacceso, tre giorni dopo, non ho trovato nessuna chiamata, nessun messaggio.
Il silenzio si è preso il resto delle giornate.
Sono passate settimane, Paola restava lì, nello spazio vuoto in cui mi aggiravo: senza avanzare di un passo, senza più scuse. Ci sono domande di cui conosciamo bene la risposta ma, da lì, non sappiamo come proseguire.
Fino a quando un giorno il sole impietoso di mezzogiorno ci riporta nella piazza da cui siamo partiti.
Ho mandato un messaggio.
“Ho dimenticato la giacca da te. Se quando passi in zona hai voglia di portarmela, oppure posso passare io”
“Non pensavo t’importasse, avevo pensato di metterla via”
“La giacca?”
“Un po’ tutta questa storia”
“Ti lascio il mio indirizzo”
Biografie
Caterina Bonetti
Vive a Parma. Scrive per Gli Stati Generali ed è autrice di una monografia sull’attrice settecentesca Elena Balletti. Ha collaborato alla stesura del Repertorio dei matti della città di Parma di Paolo Nori e alcuni suoi racconti sono apparsi o appariranno su Radici posterzine, Retabloid, Risme rivista letteraria, Inutile e Pastrengo.
Benedetta Moracchioli
Nata a Carrara e vive a Parma. Ha frequentato il Biennio Specialistico in Pittura e Arti Visive all’Accademia di Belle Arti di Bologna. Ha partecipato a mostre come “In Liberty”, “Evi bui?… O anche la sfolgorante luce dei colori” e “Ultra modum humanum”. Ha collaborato alla realizzazione di “Eroe” e ideato “Come il segno nel cielo… in eterno rifiorisce”.
Luciana Gantnier
Posted at 10:08h, 16 Dicembrei like this greatest post
Roberto Nizzoli
Posted at 15:17h, 19 DicembrePollice verso l’alto per il racconto che mi fa pensare “scusate il disturbo”, ma che finisce con un pò di anticipo sulle attese. veramente belle le illustrazioni che illustrano .bene.
Roberto Nizzoli
Pingback:Una settimana di racconti #150 | ItaliansBookitBetter
Posted at 16:14h, 21 Dicembre[…] Buona la prima di Caterina Bonetti su Morel-Voci dall’isola […]