L’incanto del pesce luna

L’incanto del pesce luna

Intervista a Ade Zeno

di Noemi De Lisi

 

Ade Zeno è uno scrittore italiano torinese classe ’79. Nel gennaio del 2020 è uscito il suo ultimo romanzo L’incanto del pesce luna (Bollati Boringhieri editore) finalista al Premio Campiello. Prima di questa prova, l’autore ha pubblicato (in ordine cronologico): Argomenti per l’inferno (No Reply, 2009), L’attimo più breve (un audiobook pubblicato da Fonderia Mercury srl, 2012), L’angelo esposto (Il Maestrale, 2015).
L’incanto del pesce luna è una favola nerissima, genere new weird. Tuttavia, una definizione di questo tipo potrebbe sembrar limitativa. Lo stile e l’immaginario di Zeno trascinano l’occhio del lettore attraverso un percorso volto a superare confini e mischiare mondi. Il bulbo lattiginoso si stacca dalla testa, cade sulla pagina e si ritrova immerso in una palude densa fatta di poesia, violenza, e incanto. La premessa è la seguente: cosa saresti disposto a fare pur di salvare tua figlia malata? Cosa saresti disposto a sacrificare di te e degli altri?
Gonzalo fa il cerimoniere al Tempio crematorio, ha una moglie e una figlia. Conduce una vita tranquilla. Tutto cambia quando la bambina entra in coma all’improvviso per una misteriosa malattia. Le cure sono molto costose e Gonzalo non ce la fa. Così accetta di lavorare per una ricchissima e inquietante famiglia, che provvederà alla figlia in cambio della sua professionalità. Ma il lavoro che Gonzalo è chiamato a svolgere è mostruoso: procurare carne umana viva per cibare l’anziana capostipite della famiglia.
Inoltriamoci in questo percorso accompagnati da Ade Zeno, la palude è in fondo, è una melma nera che scintilla.

Ciao, Ade, e grazie di aver accettato questa intervista.
Non ti chiederò del perché lo pseudonimo e perché proprio questo pseudonimo. So che sei restio a parlarne e tuttavia importa poco. In ambito letterario (attenzione, non editoriale) un nome vale l’altro, contano solo le storie e i personaggi. A questo proposito, prima di inoltrarci e parlare del protagonista del tuo romanzo, Gonzalo, vorrei parlare dei personaggi extratestuali. Su cosa è fondata l’editoria, secondo la tua esperienza, sui nomi o sulle opere? E quanto conta, oggi, essere un personaggio prima che un autore per raggiungere il pubblico dei lettori (o il pubblico degli addetti ai lavori innanzitutto)?

Non sono sicuro di essere la persona più adatta a rispondere a una domanda del genere, certi meccanismi non mi interessano granché, li conosco davvero poco. Come autore sono conosciuto da una cerchia piuttosto ristretta, e di sicuro non rappresento un esempio significativo di personaggio pubblico in grado di spostare chissà quali numeri di copie. Comunque sia, agli addetti ai lavori vengono proposte solo le mie storie, il mio modo di scriverle, la partita si gioca esclusivamente su questo territorio.

Sei da solo davanti a un cane randagio sbavante ringhiante rabbioso. Non gli hai fatto niente ma a quanto pare vuole attaccarti. Ade Zeno è il bastone che gli metti davanti al muso affinché azzanni quello e non il tuo braccio?

Certo, è una delle interpretazioni possibili. Ma non so se a quel cane interesserebbe così tanto azzannare un eteronimo. Gli eteronimi non hanno sapore, non combattono, non danno soddisfazione. In ogni caso preferirei risolvere la faccenda in modo pacifico.

Parlando di identità create per difendersi, vorrei parlare di Gonzalo. Il tuo protagonista è molto complesso, dunque vero. Nella realtà le persone non sono mai buone o cattive, docili o violente, fragola o limone. Una città-realtà costruita in bilico su una fune che passa solo tra due estremi (e in mezzo c’è il vuoto) sarebbe inabitabile, precipiterebbe a ogni soffio di vento. Il tuo protagonista ha dentro diversi mondi contrastanti fra di loro. Una delle sue abilità sta nel sapere camminare sulla fune aiutandosi con un ombrello, come fanno gli equilibristi al circo, lo stesso ombrello di Gene Kelly. Quali sono i mondi estremi di Gonzalo attraverso cui cerca di vivere senza cadere?

Come tutti gli esseri umani spaventati e fragili, Gonzalo si è costruito una corazza, un carapace durissimo di cui si serve per proteggersi dagli altri e da sé stesso. Quella di saper scendere a compromessi con il dolore – con la paura del dolore, soprattutto – è un’abilità molto difficile da affinare, conosco pochissime persone capaci di esercitarla. Ma ammettere che esistano dentro di noi innominabili lati oscuri è ancora più arduo, e in genere le strade che si possono percorrere quando si acquisisce questa consapevolezza sono due: soffocare l’inaccettabile voltandosi dall’altra parte; convincersi che il resto del mondo sia peggiore di noi. Probabilmente Gonzalo imbocca entrambe le vie, ma forse se ne accorge solo quando la Signorina Marisòl gli fa intravedere una terza strada, quella di accettarsi assecondando la propria natura. Molti lettori hanno visto in lei un personaggio malvagio, a me invece è stata simpatica fin da subito. Dopotutto è l’unica ad avere il coraggio di dire la verità: ci piaccia o no, siamo tutti mostri, bisogna farsene una ragione.

Durante un’altra intervista, il tuo protagonista è stato paragonato a Walter White di Breaking Bad (Vince Gilligan, 2008-2013). Un uomo comune, malato, un po’ sfigato, che diventa uno dei più pericolosi criminali del Nuovo Messico. Durante la lettura, ho trovato un altro paragone preso in prestito dalla schermo. Sai chi mi è sembrato Gonzalo? Titta Di Girolamo, il protagonista de Le conseguenze dell’amore (Paolo Sorrentino, 2004). Un uomo serio, freddo, apatico, un eccellente professionista nel suo campo costretto a lavorare per Cosa Nostra. Alla fine sarà pronto a tutto, anche a sacrificare se stesso per amore. Nella prima parte del romanzo, Gonzalo sembra non avere scrupoli nel condannare a una morte orribile uomini, donne e bambini. Quindi pare non sacrificare niente di sé. Tuttavia, questo potrebbe essere giustificato dalla presenza della figlia malata in coma da dodici anni, quelle morti orribili servono a pagare le sue costosissime cure. Ma è davvero così? Oppure la figlia serve solo a giustificare la misantropia di Gonzalo? In diversi punti del romanzo, lui sembra non sopportare gli altri: “Miseri, sbalorditi mortali./ Meritate di finire così./ In fondo lo meritiamo tutti.” (p. 11); “Pensavo che da vivi siamo peggio.” (p. 61), ecc.

Ho molto amato Le conseguenze dell’amore, che ricordo di aver visto per la prima volta pochi giorni dopo la sua uscita, in un cinema praticamente vuoto. È vero, Gonzalo ha parecchi punti in comune con Titta Di Girolamo, ritrovo in entrambi la stessa compostezza, l’identico sangue freddo che in realtà nasconde inferni privati molto complessi. Come tutti i misantropi, ha un disperato bisogno d’amore, e si può dire che tutta la sua vita sia un alibi. In fondo temiamo e allontaniamo gli altri solo quando il nostro unico desiderio è amare, essere amati. Niente ci fa più paura della prospettiva di un abbandono.

Il romanzo sceglie mondi oscuri, fantastici, weird, per parlare di tematiche immanenti su cui si basa la nostra società: istinto e libero arbitrio. In una delle scene più angoscianti e ipnotiche della storia, dove Gonzalo si ritrova ancora una volta nella camera da letto (il mattatoio) della vecchia padrona di casa, la signorina Marisòl, avviene un dialogo-chiave ai fini dell’interpretazione dell’opera. La Signorina parla della sua malattia, una condizione che non si può scegliere e dalla quale non puoi scegliere di sottrarti “ha un nome semplice … Uno dei primi che impariamo da bambini. Si chiama fame, Gonzalo. Fame. La sciagura più antica del mondo” (p. 98). La mostruosa donna svela al protagonista anche che lei ha riconosciuto in lui un suo simile. Tutti i personaggi del romanzo sono spinti da questo istinto mostruoso, da questa fame. Per Marisòl, adesso, potrebbe anche essere la giovinezza perduta; per Lentini, è la curiosità, il suo mestiere (di giornalista), e per Gonzalo? Se l’amore della figlia fosse solo un pretesto per sublimare i suoi istinti? Qual è la fame di Gonzalo: la morte o l’incanto?

Entrambe le cose, immagino. Come tutti gli esseri fragili e tormentati, deve fare i conti con parti di sé che non comprende fino in fondo, ad esempio l’attrazione verso la morte e la paura, che talvolta si concretizza nella dimensione dell’incubo. C’è un mostro immaginario che lo perseguita, e nei suoi sogni vede sé stesso commettere atti vicini al cannibalismo. La realtà in cui è immerso è cupa, disarmante, una realtà in cui non sembra esistere salvezza. Ma il suo unico desiderio, in fondo, è affrancarsi da sé stesso e andare a vivere in un paesino di mare, dimenticando, lasciandosi dimenticare. Anche io ho aspirazioni molto simili, prima o poi troverò il coraggio di trasferirmi in un posto lontano da tutto, un posticino tranquillo, illuminato bene.

Cosa scriverai, cosa stai scrivendo dopo L’incanto del pesce luna? Hai mai pensato a una raccolta di poesie? Ho visto il poeta riflesso nella palude nera. Faceva ribollire a tratti la superficie, oppure erano solo i guizzi di luce fra le squame sommerse del pesce luna…

In effetti sì, fra i veri progetti in corso c’è anche una raccolta di poesie, a cui però mi dedico con un misto di timore e vergogna. Si tratta più che altro di una sfida dettata dal desiderio di sconfinare in territori per me più disarmanti. Intendiamoci, come lettore mi sono sempre abbeverato ai versi, ma scriverli è un altra cosa, non mi permetterei mai di definirmi poeta, è già tanto se riesco a immaginarmi narratore. Nel complesso direi che la dimensione per me più congeniale è quella drammaturgica, lavorare per il teatro mi diverte, mi fa sentire misteriosamente bene. Ci sono due miei testi pronti per andare in scena, ma prima bisogna che qualcuno si decida a riaprire le sale. Per quanto riguarda il resto, ho chiuso il nuovo romanzo – non chiedermi se e quando uscirà, non ne ho idea – e da qualche settimana ho iniziato il corpo a corpo con una nuova storia, pensata per essere recitata nella forma monologo, ma potrebbe anche uscirne fuori un piccolo libro. Parla di un ballerino triste. Forse, dopo aver chiuso con lui, riprenderò un romanzo lasciato da parte per troppo tempo. Si intitola Polifemo, ma rimando sempre la lavorazione: qualcosa mi dice che sarà il mio ultimo libro.

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