NOTTE IN BIANCO

NOTTE IN BIANCO

di Antonio Potenza

Immagini di Lavinia Nocelli / Maatrice
Fotogiornalista, Founder Maatrice

 

Corro in mutande per campi di angurie, lunghi come autostrade frastagliate, che graffiano ordinatamente la collina, guardo i miei piedi e sono impolverati dalla terra cremisi. Nelle gambe avverto un formicolio, un ronzio bruciante che si dirama per tutta la coscia fino al ginocchio, un dolore continuo fino all’addome che si ferma improvvisamente all’altezza dei polmoni dove, nonostante l’irruenza della corsa, l’aria sembra scorrere facilmente. Nella gola pizzicano piccoli atomi di umidità.

Attorno a me, da ogni lato, altra gente sta correndo forsennatamente ognuno con le proprie forze, ciascuno con le proprie mutande. Forse scappiamo, ma non so da cosa. Ho l’impressione che tutto il paese si sia riversato nelle campagne sotto la luce azzurrina della luna. Riconosco il panettiere, gli amici di una vita, persone da sempre odiate e i volti familiari incontrati in farmacia o al tabaccaio. In mezzo a queste ordinate sterpaglie che profumano di stagioni calde, ci conosciamo tutti.

Ad un certo punto qualcuno dalle retrovie ha la forza per gridare che le case non ci sono più. La voce arriva rotta, ma il messaggio giunge chiaro. Chiunque sia non specifica in che senso o causa di cosa. Inevitabilmente penso alla mia abitazione, mi chiedo se ora sia un cumulo di macerie dalle quali al mio ritorno dovrò estrarre oggetti d’infanzia ed elettrodomestici guasti, magari quadri frantumati e sorprendentemente solo in questo momento mi chiedo dove possano essere i miei genitori. Guardo in mezzo alla folla alle mie spalle poiché davanti a me ho appena due persone e l’immensità dei campi arati: a sinistra, rinsecchito e fulmineo, c’è Giustino, il figlio del muratore di Via Palombari, con cui ho frequentato il liceo; a destra, più o meno alla mia stessa andatura, imperlato di sudore e colto da un evidente sforzo smosso forse dalla paura o dall’adrenalina, Don Gigi corre con le ginocchia alte che sbattono contro una larga pancia molliccia e mi sorprende come nonostante l’agitazione riesca ad avere sul naso i suoi occhiali da vista tondi. Sento che potrei superarlo se volessi e invece rallento, mi faccio superare da Diego Riva, da Enzo Stifanelli e figli, anche da Teresa Ignazi – che ha ben trent’anni più di me e la pelle delle braccia raggrinzita che dondola vistosamente – e da qualche altro ragazzetto con le guance colme di brufoli che non riesco a riconoscere. Sotto la luce metallica della luna anche i loro volti martoriati dall’acne o dalla fatica quotidiana, intarsiati da questi occhi abnormi e dilatati, hanno ombre differenti che adesso per certi versi sono più dense, ma che lasciano spazio a colpi di luce argentei sul naso e sugli zigomi.

Decelero ancora perché nell’entropica sistemazione di questa corsa attraverso le colline di angurie non riesco a trovare mio padre e mia madre. Entrambi hanno una corporatura corpulenta e temo che possano essere rimasti nella parte bassa della mandria, ma comunque anche a metà della folla guardando con attenzione verso le ultime file che arrancano vistosamente, non riesco a vederli.

Allora penso al peggio: qualunque cosa sia successa in paese, che ci abbia costretti a fuggire – e che io, palesemente, sembra non riesca a ricordare – deve averli in qualche modo colpiti, non hanno avuto la possibilità di fuggire e quindi mi viene da piangere e lacrime calde mi solcano le guance con la stessa copiosità con cui stiamo attraversando, come invasati da una sorta di amok, i campi coltivati di qualcun’altro. Nonostante l’evidente attacco di panico, non smetto di correre, anzi la mia corsa riprende più vigorosa e funesta, le gambe ritornano a contrarsi, a bruciare, sento scorrere l’energia dei muscoli e fanno il loro lavoro.

Il mio stato d’animo, tuttavia, cambia repentinamente e l’avvistamento dei primi filari di olivi all’orizzonte che formano tutti assieme una nerastra barriera rotondeggiante e sfrangiata, pizzicata appena dai raggi lunari. La sua presenza mi incute inspiegabilmente un certo timore. Da quella direzione avverto che la temperatura sta cambiando, qualcuno grida del loro avvento.

Intuisco allora che ci saremmo divisi, che in qualche modo restare uniti poteva essere una buona strategia difensiva, ma che probabilmente la diaspora sarà inevitabile. E così accade: prima dei primi tronchi percepisco il suolo sotto i miei piedi farsi più rigido, non più vittima di solcature e rughe artificiali, ma contratto nel suo ancestrale carapace amaranto. Conseguentemente tra le sterpaglie selvatiche aumentano in numero esponenziale i cocci di roccia granitica, incastonati tra i grumi di terra rossa, sporcati da antichi licheni ormai morti che lasciano il loro cadavere arancione ancorato alle grasse pietre diafane. Ora i pericoli diventano due, se non tre: i tronchi che sbarrano la corsa, i cocci che tagliano i piedi e il nulla che ci insegue. Come previsto la folla si dilata e si dirama attraverso il dedalo di tronchi rugosi bagnati da un’intermittente luce fioca e biancastra, ostacolata dalle secolari chiome. Iniziano a sentirsi i primi tonfi, qualcuno cade, altri li vedo chiaramente incespicare tra le tracotanti radici, gonfie e sgorganti dal terreno rossastro, per poi scapicollare violentemente verso il suolo, insanguinandosi viso e piedi.

L’ansia allora inizia a diluirsi con l’acqua nei muscoli, la contrazione avviene meno efficacemente, la corsa rallenta e ora anche gli alveoli cominciano ad abbeverarsi non più con aria umidiccia, ma con vischioso sangue nero prodotto dalla visione della mandria che persa nel buio azzurrognolo dell’uliveto arranca, muore, si disperde, evapora, decretando praticamente la fine della corsa comune. Qualche esule disperso continuerà a correre finché avrà fiato, qualcun altro si arresterà aspettando che il nulla arrivi rassegnandosi a ciò che lo aspetta, magari ci sarà anche qualcuno come me che invece deciderà di fermarsi per preservare le energie. Prendo coscienza dell’assurdità della situazione che esula dalla mia apparente (o traumatica) amnesia, ma che abbraccia totalmente l’inesistenza di una partenza e forse di una fine. Ho percorso un moto senza preposizione.

Mi fermo in una radura in cui solo un muretto dismesso segna la proprietà di qualcuno con quella di qualcun’altro, qui l’iridescenza biancastra illumina lo spiazzo con intensità e l’apertura permette anche ad un leggero vento, mi pare sia scirocco, di soffiare. Allora mi calmo, colpito da un’inspiegabile senso di protezione e con un formicolio lungo gli arti, un movimento pizzicato che sa di consolazione e di pace, cedo all’impellente bisogno di stendermi. Da lontano alcune grida lancinanti si alzano nella coltre di buio. E nonostante il palese pericolo indefinibilmente lontano non faccio una piega, anzi mi accovaccio nelle braccia rugose di un albero e sento che la corteccia mi graffia la schiena, mi sembra però un atto di gentilezza, quindi cado nel sonno.

Poi Marco mi sveglia con il suo respiro gravemente concitato.

La levata improvvisa mi fa tuonare il cuore per lo spavento, ma nonostante l’agitazione riesco a riconoscerlo. Ha ancora le basette rossastre e ricciolute che si allungano per tutte le guance bianchicce, proprio come durante i nostri bagordi in scooter ai tempi del liceo. Credo abbia perso i suoi soliti occhiali rettangolari nella corsa e questo dettaglio, assieme al suo modo di rannicchiarsi che a fatica riesce a contenere la pancia informe, mi fa stranamente pena. Vedere Marco tra i nodi rugosi affianco a me dissipa nella memoria il motivo per cui non parliamo da tempo. Prima di chiedergli come si sente faccio attenzione ai rumori circostanti ma non sento niente di particolare, noto solamente che in questo momento in mezzo alla radura – la vedo sfilacciarsi tra gli ulivi più lontani – giace una nebbiolina spessa e biancastra che sembra dotata di fluorescenza propria, se non fosse che io abbia ben in mente l’immagine della grossa luna tondeggiante sopra il campo di angurie.

Solo dopo essermi assicurato della situazione gli chiedo come sta e in risposta ottengo delle rassicurazioni singhiozzanti perché il suo respiro non si ferma, anzi sembra aumentare. Ricordo in quel momento che in passato Marco avesse l’abitudine di venire con una certa facilità. Una volta gli bastò una storta mentre giocavamo a calcio sul sagrato della chiesa per farlo stramazzare a terra come un salume senza baricentro. Quindi deduco dal ritmo del suo respiro, indicativo della paura che lo sta attanagliando che probabilmente tra poco sverrà. Gli suggerisco allora di stendersi e lo fa, nonostante la terra adesso sia più umida e fredda. Dal filo minimo che intercorre tra le nostre esistenze verticali e le realtà orizzontali del sottobosco si riesce ad annusare l’odore acre e piacevole delle foglie secche che giacciono ai piedi dell’albero. La notte riesce a far esalare loro i profumi e il calore assorbiti dal sole di un’intera giornata.

Marco sembra respirare meglio ora ma osservando la sua caviglia sinistra, oltre i boxer larghi decorato da stampe disordinate di Snoopy, mi accorgo che anche questa volta la sua corsa dinoccolata e sbilenca non l’ha aiutato. Lo svenimento è imminente, quindi mi affretto a chiedergli cosa stia succedendo, perché corriamo, e tutta una lista di domande a cui Marco risponde solamente con un filo di voce: acqua, serve l’acqua.

Cazzo, penso, dove gliela trovo l’acqua a questo adesso.

Non faccio in tempo a darmi la risposta che gli occhi di Marco sfrecciano verso l’interno del proprio cranio. A me restituiscono solo il bianco ingiallito del cristallino, sporcato da venuzze ramificate rosse e viola. Prontamente gli alzo le gambe, scuotendole un po’, pochi secondi e Marco è di nuovo vigile, ma stralunato. Glielo richiedo, come sta, che succede e perché, ma forse è troppo presto e la risposta non cambia: acqua, serve l’acqua.

Mi assicuro che non si muoverà – lo ammetto: un cenno del capo non potrei considerarlo come un’assicurazione, ma legarlo all’albero credo sia controproducente – e ricomincio a muovermi nella direzione decisa dalla prima mandria, ricordandomi improvvisamente che continuando a percorrere il profilo della collina, in quella direzione, attraverso le colture di olive e angurie, arriverò al mare e alla fonte potabile vicino alla riva delle Quattro Colonne.

Piombo nuovamente all’interno dell’intrico di chiome appesantite dal tempo. Nella cella di rami arricciati, bagnati dalla luce bianchiccia della luna che continua a splendere in un cielo terso e scuro. Per un momento mi sembra che spazio e tempo si esprimano in modi differenti. Taglio i fogli di nebbia come se fossi una lama attraversandoli con il corpo trasportato da un paio di gambe annichilite dalla fatica, che si muovono compiendo uno sforzo ancestrale, oltre gli avvisi fisiologici di dolore, combattendo la contrazione violenta dei muscoli.

Tra i tronchi i corpi accasciati, sfiniti dalla fatica della corsa, giacciono dormienti o inermi in modo disordinato, diafani e nudi come lumache senza guscio in un giorno di pioggia. Li circumnavigo o li salto, procurando dei rallentamenti alla corsa, ma ho la conferma che non sia un problema quando dal fondo del bosco iniziano a filtrare i primi bagliori e l’aria soffia in modo più agile e fresco: sono quasi arrivato, penso.

Il terreno inizia a piegarsi e sull’ultimo ulivo di fronte a me vedo la collina sparire, incurvarsi improvvisamente per allargarsi verso la riva, fino a cadere nella densa distesa di pece nera.

Voglio ridere, colto da un’improvvisa felicità. Sulla sinistra le Quattro Colonne, irte e robuste, sono accese appena nella notte. Mi lancio nella discesa nonostante la macchia mediterranea con i suoi arbusti avvizziti, ma acuminati, mi buchi e pizzichi la pianta dei piedi. Dal mare esalano aliti di iodio, madidi di umidità che si schiantano sull’epidermide in corsa. Quei fiotti invisibili si rompono sui muscoli in movimento, per poi abbandonare il mio corpo dopo la collisione come lunghi filamenti bianchi, alle mie spalle si addizioneranno ai banchi di nebbia. Ricordo la densa coltre di foschia di poco fa, deduco che altri concittadini siano arrivati al mare.

E invece nella discesa tra gli arboscelli tozzi della macchia non trovo nessuno, nemmeno a dormire infiacchito dallo sforzo, neppure nessun altro ancora in forze che corra con me. Il crinale verso la risacca è ripido, ma semplice e solitario. In un lasso di tempo che mi sembra abbastanza breve sono sulla riva a godere dello sciabordio lento e ritmato delle onde, che si abbattono affamate contro la scogliera acuminata. L’asfalto del litorale è orfano non solo di corridori nudi, ma anche di possibili carcasse d’auto abbandonate ai lati delle strade, come ipotizzavo quando guardavo giù dalla sommità della collina.

Vi è un silenzio soffuso qui, interrotto appena dalle onde e dal brusio elettrico dei lampioni. Inizio a scorgere le Quattro Colonne, l’antico rudere del castello seicentesco in riva all’oceano, che negli ultimi anni era stato adibito – proprio nella parte centrale, dove un terremoto nell’ottocento aveva poi divelto il corpo principale di quello che un tempo fu un castello – a centro eventi. Inizio a rovistare nei bidoni antistanti le grasse torri per trovare una bottiglietta di plastica, o un qualsiasi contenitore per raccogliere dell’acqua e nonostante le previsioni pessimistiche, la trovo. Con l’aria umida che mi pizzica le cosce mi dirigo verso la sorgente potabile che sgorga dalla parte bassa del muro del litorale, per poi diramarsi e diluirsi con il moto sinuoso delle onde.

Oltre a prendere dell’acqua per Marco, potrò finalmente dissetarmi anche io.

Ma subito dopo i gradini che portano alla sorgente, una donna dai capelli corti, neri e lucidi come un casco nella cui scocca è incastonato il volto smilzo, mi sbarra la strada con un fucile stretto in grembo. Il suo viso dalle labbra piccole non mi suggerisce nulla. La parte del mio cervello adibita al riconoscimento facciale non fa il suo dovere quindi concludo che non sia nessuno che appartenga al mio paese, nessuna conoscenza della vita precedente alla Grande Fuga. In ogni caso però la osservo attonito, non solo per il fucile – che mi sembra possa essere un modello sovrapposto e non un automatico visto che non credo di scorgere a causa della penombra lo sportellino da cui nell’eventualità sarebbero sputate fuori le cartucce vuote – ma anche per la tonicità del suo fisico lambito dalle acque basse della sorgente. Le cosce sono giunoniche e la sorreggono donandole una certa imponenza, le vedo unirsi in un pube rasato sfiorato dalla luce azzurrognola e un addome levigato, sporcato appena da due piccoli cuscinetti adiposi sui fianchi. E benché le braccia mi occludano un po’ lo sguardo sul seno, riesco ad intravedere i suoi piccoli capezzoli scuri e un fremito si muove nella parte bassa della pancia, una specie di contrazione ancestrale e selvaggia: vorrei saltarle addosso, divorarla, azzannarle l’interno coscia colmo di miele, nonostante il pericolo d’acciaio che stringe in grembo.

Rimane infatti il problema del fucile, al netto della mia palese eccitazione. Parto dal presupposto che possa essere carico, ma potrebbe anche non esserlo: non posso saperlo. Il fatto che sia appostata lì, vicino alla sorgente, mi fa dedurre che sappia del valore che ha quell’acqua. Volerla sorvegliare significa che altri, stanotte, prima di me probabilmente siano venuti a prenderla. Il suo rimane un gesto di attribuzione di proprietà del tutto arbitrario, ma tant’è: sembra essere l’unica ad avere un’arma. Guardando meglio verso il mare, oltre l’insenatura frastagliata della scogliera, in quell’imbuto acuminato, illuminati appena dalla luce slavata dell’astro li vedo meglio ora tutti i coraggiosi che hanno voluto appropriarsi dell’acqua. I loro corpi ammassati sbucano dalle piccole onde del delta per culminare in una vera e propria piramide sanguinolenta.

Preso dallo sconforto mi accascio. Non provo a convincerla, ma nel momento stesso in cui le mie ginocchia toccano l’asfalto freddo, la donna si volta di spalle inspiegabilmente con un movimento che sembra ritualistico. La schiena esangue è dritta come una lancia scoccata nell’aria, una corda tesa che culmina in due glutei sodi imbiancati dall’ombra diafana di un lontano slip che li avrà coperti per chissà quante estati. In questo momento vorrei prenderle le mani, voltarla verso di me dopo averle toccato con le labbra la schiena diafana per poi ballare sotto la luna, come se fossimo gli ultimi due sciamani della più nascosta delle tribù autoctone, quindi la stringerei a tempo di musica prima che gli estranei ci sparino, danzeremo la nostra ballata della morte e l’occidente metterà fine alla nostra storia.

Invece è la percezione del pericolo a farlo: mi desto dalla mia fantasia, corro verso la fonte, sempre mentre la donna voltata di spalle guarda l’orizzonte nero e confuso. Riempio la bottiglia e faccio due sorsi veloci anche io, maldestri, visto che l’acqua mi cade oltre la bocca e mi riga il collo

Quindi inizio a correre in direzione di Marco, con la coda dell’occhio la vedo, nella sua bellezza mortifera, voltarsi verso di me, imbracciare il fucile, puntarmi e sparare. Il fiotto d’aria mi lambisce appena l’orecchio, l’esplosione mi fa sobbalzare e la corsa diventa sbilenca con gli arti impauriti che perdono per un attimo il dono della coordinazione.

Dopo quello sparo, la osservo di nuovo con la coda dell’occhio, voltandomi pochi secondi senza arrestare la corsa, e quella donna, dai fianchi venerei e il pube cristallino, mi osserva a sua volta con il fucile in braccio, ma senza detonare la seconda cartuccia. Capisco allora che quello non era un avvertimento, ma un messaggio: poteva uccidermi, ma non l’ha fatto. Un modo del tutto opinabile per informarmi del suo atto gentile.

Invasato da una felicità spenta risalgo col fiato corto la collina con le fasce muscolari delle gambe ormai in frantumi. Mi lascio alle spalle il mare che sospinto dagli ultimi soffi della notte sembra rombare piano. Scorgo i primi ulivi e incontro nuovamente i corpi bianchicci e nudi della gente del mio paese, tutti intenti a dormire con le mani ben strette attorno all’addome. Rallentando il passo mi accorgo che alcuni di loro sembrano mugugnare nel sonno, non capisco se in preda ad incubi o a dolori intestinali. Qualcun’altro è chiaramente morto.

Lo spiazzo arriva presto e la figura lattiginosa di Marco sembra quella di una bestia mitologica: appoggiato con la schiena al tronco e con la pancia gonfia ben in vista ricorda una statua pagana, una mostruosità adamitica che aspetta l’eroe al fronte del mondo umano, sorvegliando il confine dell’alterità con l’acrimonia e l’impazienza degli déi ellenici.

Ce l’ho fatta, grido da lontano brandendo la bottiglia come uno stendardo.

Percorro la radura circolare e la luna mi illumina ancora una volta, poi lascia il passo alla copertura delle fronde, mi accovaccio affianco a Marco, gettandomi sulla terra umida stanco come un lupo da slitta e con la lingua appesa cerco di inalare quanto più ossigeno possibile per potergli parlare. Nel frattempo gli porgo l’acqua che stringe con avidità e ingurgita lasciando che quel liquido trasparente trasbordi dalla bocca fino alla pancia tumida.

Ora dimmi cosa è successo, ti senti meglio, dico. Ingolla Marco, con la stessa foga degli animali del deserto e in quel suo deglutire violento ha la forza di rispondermi. Sì, mi sento meglio, dice, poi beve, poi di nuovo: non avevo digerito i peperoni, continua, credo non l’avesse fatto nessuno, aggiunge e nel ritmo singhiozzante di quelle parole la realtà straccia il cielo con artigli arcuati, dilania i carapaci di cellulosa degli alberi, si dilata dall’ombelico di Marco come una grossa chiazza nera, io allora ci guardo dentro mentre si dipana attraverso i peli dell’addome, allargandosi fin sopra ai capezzoli barbuti e prendo coscienza del lenzuolo che pesa sulle mie gambe, della luce tiepida dell’alba che filtra dalle persiane, della sveglia sul comodino che lampeggia iraconda e del bruciore che si dipana come fuoco nelle membrane del diaframma.

Nella mia camera da letto adesso la gola arde, ho sete anche io e maledico i peperoni in agrodolce che mia madre ha preparato la sera precedente. In cucina, nel buio di casa illuminato dall’inizio di un nuovo giorno, placo l’arsura, ma rimpiangendo la mia strana notte in bianco.

Biografia

Nasce a Galatone, in provincia di Lecce, nel 1993. Vive a Milano, dove lavora come giornalista di Forbes Italia. I suoi racconti sono apparsi su Lahar Magazine e Spore Rivista, per quale dirige la rubrica “Bestiario Incerto”. Altri articoli di critica sono stati pubblicati da Il Rifugio dell’Ircocervo. Ha eretto altari a Cortàzar, Volodine e Cartarescu: la lista delle divinità continua a allungarsi, ma la sua stanza è piccola.

1 Comment
  • Marco Barberis
    Posted at 17:07h, 12 Aprile Rispondi

    Dai peperoni nascono i racconti, dai bignè alla crema non nasce nulla (per parafrasare de André. Bel racconto, bel sogno, un bel ritmo di corsa e di immagini. Elegante e onirico il giusto. Grazie

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