20 Gen Dalla parte di Medusa
Dalla parte di Medusa
di Francesca Irene Sensini
Se è vero che le figure del mito antico vivono e muoiono molte volte, buttate come sono nel grande mare della memoria del mondo a fare cerchi infiniti, è anche vero che a ogni nuova versione della storia portano con sé l’esperienza di tutte le altre. E proprio per questo le figure del mito indicano un tracciato di senso che, per quanto fluido in apparenza, va considerato nel suo contesto. Solo in questo modo possiamo percorrerne tutte le rotte.
Così, nel 2020, la mitica Medusa riapre la partita con il suo mitico uccisore, Perseo, nella statua dello scultore italo-argentino Luciano Garbati, dal titolo Medusa with the head of Perseus. Realizzata nel 2008, l’opera è esposta dallo scorso 13 ottobre a New York, al Collect Pond Park, in Center Street, Lower Manhattan, dove resterà fino al 30 aprile 2021.
La scultura – un bronzo di oltre due metri di altezza – rappresenta una giovane donna di tipo caucasico, interamente nuda, con una morfologia debitrice dei canoni della statuaria classica e serpenti attorcigliati sul capo e un lato del collo al posto dei capelli, in conformità con il mito. Serpenti a parte, la Medusa di oggi si discosta dal racconto che conosciamo sotto diversi aspetti. Intanto, non è un mostro. Al contrario, il suo aspetto si conforma ai parametri di una bellezza occidentale mainstream. Ma il punto è un’altro. La donna regge nella sinistra una spada e nella destra la testa di Perseo. Il rapporto di dominazione si è capovolto: la vittima consuma la sua vendetta. Lo sguardo di Medusa, intensamente rivolto verso il basso, esprime la concentrazione della forza appena dispiegata e, insieme, la consapevolezza del gesto compiuto.
Il fatto che la statua sia esposta dalla parte opposta della strada rispetto al New York Criminal Court, tribunale fortemente legato al movimento #metoo per i casi giudiziari che vi sono stati discussi (uno per tutti, quello che ha visto imputato il potentissimo ex produttore cinematografico Harvey Weinstein), amplifica la risonanza del capovolgimento dei ruoli intercettando il presente e il bruciante tema della giustizia per le vittime di abusi e violenze sessuali.
D’altra parte, l’autore dell’opera ricorda che Medusa stessa ha subito una violenza sessuale: Poseidone l’ha stuprata nel tempio di Atena, come racconta il poeta latino Ovidio (Metamorfosi, IV, vv. 779-803), aggiungendo che Atena, in preda all’ira per la profanazione del luogo a lei sacro, decide di punire non l’aggressore, ma l’aggredita: un caso eclatante di victime blaming alla corte degli dei dell’Olimpo. E così che la splendida capigliatura di Medusa viene trasformata in un groviglio di serpenti e il suo sguardo diventa un’arma che pietrifica chiunque lo incroci. Insomma, la vittima viene mostrificata e respinta ai margini del mondo. Non contenti, gli dei mandano Perseo a stanarla e a tagliarle la testa, allo scopo di impadronirsi del suo potere pietrificante.
Il rovesciamento di questa storia si pone dichiaratamente, nell’ottica dello scultore Luciano Garbati, come atto di giustizia postuma ed espressione di solidarietà nei confronti delle donne vittime di violenza. Inoltre, questa Medusa riumanizzata sembra voler assolvere, attraverso la rappresentazione artistica della violenza e della vendetta, una funzione catartica, cioè di distacco liberatorio dalle passioni e dai traumi subiti.
Ora, l’esposizione della statua al New York Criminal Court ha sollevato tutta una serie di reazioni e alimentato una discussione molto ampia su quello che l’opera esprime, non esprime, su cosa e chi mette al centro, cosa e chi marginalizza, su quello che avrebbe potuto esprimere in quello stesso luogo una scultura magari realizzata da una donna, se solo glielo avessero chiesto. Il merito essenziale di questa rappresentazione rovesciata del mito sta, dopo tutto, proprio in questo: nell’agitare una nebulosa di interrogativi in diversi campi, compreso quello troppo spesso lasciato ai margini della riflessione sulle nostre vite e sulla storia, come quello del simbolico.
A questo proposito, proviamo ad affrontare almeno due questioni importanti. La prima riguarda il dispositivo retorico del rovesciamento. Se è vero che esso induce a una pausa riflessiva l’osservatore, chiamato di forza a uscire dal campo dei dati noti e acquisiti, incosciamente naturalizzati, è altrettanto vero che, scambiando il ruolo della vittima con quello del carnefice, la modalità della relazione tra i soggetti non cambia: una testa salta sempre. Restiamo sempre all’interno di un rapporto di dominio. La giustizia si confonde con la vendetta e la violenza resta legittimata. Come uscire da questa logica di vittime e carnefici?
Il mito stesso ci viene in aiuto grazie alla sua lunga e profonda memoria. Il potere di Medusa è grande. La statua contemporanea lo vuole evidenziare. Il modo non è felicissimo perché la questione della giustizia all’interno del movimento #metoo non può e non vuole ridursi al payback. Inoltre, il pensiero femminista si situa radicalmente, direi essenzialmente, al di fuori da modelli relazionali e sociali basati su relazioni di dominio. Il potere e l’empowerment che derivano dall’elaborazione del mondo da parte del femminismo sono altri dalla rivalsa, dalla violenza, dagli asfittici binarismi patriarcali.
Nello stesso modo, il potere di Medusa è un altro. La figura del mito, nelle sue tante vite e rinascite, ci indica una strada alternativa al bivio. Il suo nome – Médousa in greco è un participio presente dal verbo médō, “penso a / ho cura di” – vale come “colei che ha ha cura / che protegge”. Come altre dee residuali, Medusa è una divinità primordiale, legata all’elemento acquatico e a una società di cui non sappiamo molto ma che conteneva ancora al suo interno un substrato che possiamo definire, utilizzando una categoria del pensiero moderno, di derivazione matriarcale.
Con l’arrivo nel Mediterraneo delle popolazione indoeuropee, nomadi, dedite alla pastorizia e alla guerra, la civiltà cosiddetta egea, composta essenzialmente di navigatori e commercianti, viene sottomessa. È un cambio di paradigma. In quanto rappresentante di un mondo sconfitto, anche Medusa viene sottomessa dalle divinità dei vincitori. Ecco che la sua bellezza diventa uno stigma: il nuovo dio del mare la desidera e la stupra. Lo stupro traduce la violenza dei dominatori; come la storia insegna, è un’arma di guerra. Dal canto suo Atena, agendo coerentemente con l’ordine patriarcale organico alla nuova civiltà, punisce la vittima della violenza, facendole scontare l’empietà dell’aggressore.
Eppure Medusa resta indispensabile perché depositaria di una sapienza legata al mistero delle origini. I nuovi padroni vogliono impadronirsene per disporne ai propri fini. Il punto di forza di Medusa è rivelato dal suo stesso nome: la capacità di proteggere, di “pensare con cura”, al di fuori delle logiche predatorie. Ma il personaggio ha anche un altro nome, altrettanto famoso: è la “Gorgone”, dall’aggettivo gorgόs, che in greco antico vale “terribile”, “impetuoso”; in greco moderno ha il senso di “veloce”, “agile”. Il legame tra terribilità e velocità è dato dal riferimento alla luce, presente nello sguardo di questa figura: luminoso, abbagliante, capace di riflettere velocemente mille riflessi, sempre mobile. Perché la sapienza sconcerta, abbagliante, non è mai rassicurante e ci sfida.
Per recuperare questo immenso potere interviene dunque Perseo, il protégé di Atena. La decapitazione è un cruentissimo passaggio di consegne, entro un tópos antropologico che vede la testa il centro del pensiero e che si ritrova in diversi miti e culture (non a caso Atena, dea della sapienza, nasce dalla testa di Zeus). La testa della Gorgone finisce in mezzo allo scudo (secondo altre versioni, sull’egida, una sorta di pettorale di bronzo o di pelle di capra sfrangiata) della dea guerriera. È grazie a Medusa se in battaglia Atena terrorizza il nemico fino alla paralisi. Anche il suo sguardo originario continua a operare nella nuova divinità. Gli occhi di Atena, detta glaukṓpis, “dallo sguardo azzurro-argento”, hanno un che di ‘meduseo’: essi splendono di un bagliore perturbante, che è quello della sapienza, rappresentata dalla civetta, animale totemico della dea, uccello dagli enormi occhi lucenti che penetrano la notte.
Medusa è dunque rinata a Manhattan per mano di un uomo che ha voluto, con lei, esprimere solidarietà al movimento #metoo e alle donne vittime della violenza patriarcale. Se è purtroppo rimasto intrappolato dentro la logica vittima/carnefice, l’artista ha comunque il merito di aver messo mano, da parte maschile, alla memoria mitica, al simbolico. E che proprio per questo sollecita tutt* e rovista nei nostri cassetti chiusi. In questi cassetti si trova il segreto del tempo che l’uomo ha posto tra le sue origini e la sua Storia. E Medusa porta sempre con sé, in tutte le sue rinascite, il ricordo delle origini. Di esse è figura misteriosa e,insieme, infinitamente significativa, se la si situa nel contesto che le è proprio.
“La critica alle separazioni che l’uomo ha messo a fondamento della sua storia” è e resta “presupposto irrinunciabile per ripensare la vicenda dei sessi in relazione alla vita dei singoli e del mondo”, afferma Lea Melandri nella raccolta di scritti Lo Strabismo della memoria. E di queste separazioni fanno parte anche le decapitazioni, che la testa a saltare sia quella di una donna o di un uomo. Perché da esseri umani abbiamo bisogno delle nostre teste, non separate ma saldate sui nostri corpi, da essi inseparabili, con essi profondamente interconnessi, come lógos e mýthos tra loro.
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