Le imperfette: Arthur George Morrison

“Le imperfette: Arthur George Morrison”

DIALOGO CON EMANUELA CHIRIACO’ E PAOLA DEL ZOPPO

A CURA DI GIOVANNA DI MARCO

Si riapre il dialogo tra la redazione di Morel, voci dall’isola ed Emanuela Chiriacò e Paola Del Zoppo, curatrici de Le Imperfette. Storie di donne nell’Inghilterra vittoriana e post vittoriana, un progetto corale che recupera e valorizza dieci racconti, nove dei quali mai tradotti in lingua italiana, pubblicati su periodici inglesi tra il 1894 e il 1922, per riflettere sul contributo della narrazione nella comprensione delle questioni di genere, attraverso interrogativi personali e sociali, nati in un momento storico in cui si assisteva alla ridefinizione dei ruoli e al consolidamento dei diritti femminili. La traduzione dei racconti è di Emanuela Chiriacò, curati in collaborazione con Paola Del Zoppo e Antonia Santopietro (ZEST/Literaria) per PE Editore. Emanuela Chiriacò e Paola Del Zoppo, ci parlano di Un povero diavolo, un racconto di Arthur George Morrison compreso nella raccolta.

 

 

All’interno della raccolta di racconti Le imperfette ci sono anche opere scritte da uomini. Con spirito irriverente ho scelto Un povero diavolo, di Arthur Morrison, un racconto scritto da un uomo e che presenta una donna, Melier Jennings, come il personaggio negativo che arreca disagi e dolori alla sua famiglia. Cosa vi ha spinto a selezionare questo racconto?

E. C.: Nel selezionare i racconti ho tenuto conto del maschile attraverso cui far emergere il femminile, e il personaggio di Bob Jennings era perfetto per delineare la moglie Melier. Inoltre, mi ha subito colpito perché la brevità del racconto è direttamente proporzionale alla densità narrativa dello stesso; e in quella condensazione Arthur George Morrison, come in tutta la sua produzione definita slum fiction, non si preoccupa di glorificare o strumentalizzare i poveri dei sobborghi, il suo scopo è piuttosto dimostrare che i proletari non sono soltanto vittime dell’indolenza, dell’abuso di alcol o della malasorte, ma della povertà imposta dal sistema sociale vittoriano. Quindi i sobborghi, i luoghi malfamati dell’emarginazione sociale, del degrado umano e del vizio, sono ben incarnati da Melier e dalla sua vita sciatta, indolente, e dalla sua scelta di abbandonare marito e figli per seguire un inquilino ospite della loro casa.

 

Il personaggio di Bob Jennings suscita tenerezza per la sua ingenuità: vessato nel mondo del lavoro e altrettanto in casa dalla moglie; infine, ogni giorno pronto a illudersi e a rincorrere il suo sogno impossibile. Questo anti-eroe non giudica Melier, anzi dice di lei: “Era una sciocchina anarchica. Ma molto di buon cuore”. Spiegatelo ai nostri lettori.

E.C.: A dire il vero Bob non aveva mai superato la cecità del corteggiamento. Uso le parole di Morrison nel racconto, e in verità il protagonista non hai nemmeno superato la famosa cristallizzazione stendhaliana, in cui il vero ardore amoroso esiste solo se associato alla paura. E Bob vive quella paura, la paura di perderla, di perdere la fiducia e la consuetudine; e in lui, la paura perdura anche dopo aver perso concretamente Melier, e si trasforma nel sentimento più spietato: la speranza. La speranza che lo rende il soldatino infaticabile dell’attesa di un ritorno che non avverrà mai.

A differenza di George Gissing che nella sua narrazione dei sobborghi focalizza l’attenzione sulla perversione e la rozzezza del povero di città, Morrison ne scrive con umana compassione, con personaggi autentici, descrivendo in modo realistico lo squallore e la brutalità della Londra dell’East End; vede il sobborgo come una cultura socialmente deviante da sradicare. Nei suoi racconti e romanzi infatti non ci sono poveri rispettabili. I poveri di Morrison sono o fisicamente o moralmente mutilati. E Bob non fa eccezione, è mutilato emotivamente dall’assenza di sua moglie ma continua ad aspettarla.

 

P.D.Z.: Bob Jennings ci lascia, al termine del racconto, un sapore di tristissima malinconia. Non è solo abbandonato, è disorientato, perché la bontà non gli è servita, e tantomeno la pazienza. D’altro canto Melier stessa è un personaggio affascinante, che non è solo ribelle, ma anche inappagata, e sappiamo che lo resterà anche una volta andata via di casa. Il tutto sposta l’attenzione sul contesto, sull’impossibilità e la piccolezza degli esseri umani che si “inventano” categorie e piccole felicità, perché altro non possono fare per sopravvivere alla realtà del dolore, se non sono capaci di donarsi, se non lo hanno mai imparato. Bob e Melier sono entrambi non amati, ma Morrison ci svela i due bisogni di amore e di accudimento in modo diverso.

Melier opera un vero e proprio ribaltamento rispetto al ruolo della moglie irreggimentata: trascura la casa e i figli, si ubriaca, abbandona il tetto coniugale. Sono evidenti in lei anche dei tratti quasi caricaturali in una femminilità discinta e disinibita. Il personaggio non è però mai narrato nel suo percorso interiore. Spiegateci come interpretarlo.

E.C.: Arthur George Morrison, a differenza del suo mentore Walter Besant che tendeva a romanticizzare i personaggi dei sobborghi, era un acuto osservatore del sottoproletariato dell’East End, e fondava la sua narrazione austera su una puntuale osservazione di persone e luoghi, anticipando la letteratura sociale realista britannica degli anni ’30 e ’50 del 1900.

La sua scrittura è ispirata all’opera di Emile Zola e influenzata dalle arti visive, in particolare pittura e fotografia, e dal loro impatto politico. Nel 1892, Morrison pubblica un articolo sulla rivista The Strand in cui parla del potenziale della “fotografia istantanea” paragonandola alla precedente tecnica del dagherrotipo; era un uomo informato sugli sviluppi nel campo, sulle possibilità tecniche, sul contenuto e sul messaggio fotografico, e in tal senso, la sua pratica letteraria è vicina alla urban slum photography di Jacob Riis. Le scene naturalistiche d Riis pongono infatti enfasi sull’ambiente tanto quanto sull’umanità ritratta; questa connessione lascia emergere quanto l’ambiente ne determini la condizione e favorisca l’impulso documentativo; questo è sicuramente un punto di grande convergenza con il lavoro di Morrison.

P.D.Z.: Melier è descritta “da fuori”, ma lo sguardo è rivolto al suo animo. Morrison non intende impartire giudizi morali, né tantomeno condannare Melier. La tristezza che colora il racconto dal principio alla fine è una consapevolezza di impotenza, e il livello critico resta sempre e chiaramente focalizzato sulla società che induce all’opacità, che non permette il perseguimento di uno scopo, nel caso specifico una società ristretta, povera di mezzi e di spirito, in cui una sorta di madwoman vitale porta alla follia il marito che si rifiuta semplicemente di classificarla come tale.

 

L’ambientazione del racconto in un contesto di degrado mi riporta a tante situazioni attuali in cui molte famiglie si barcamenano. In questi contesti il matrimonio è a volte una scelta obbligata, ma, al di là di queste appartenenze, è evidente che lo sia in tutti i contesti sociali come il raggiungimento di uno status. Cosa ne pensate?

E.C.: Prima di pubblicare A Child of the Jago (1896), che lo consacra come slum writer, Morrison era prevalentemente uno scrittore di gialli, nonché inventore dell’investigatore Martin Hewitt nato per colmare il vuoto lasciato da Sherlock Holmes ( a tal proposito mi fa piacere ricordare che la casa editrice Del Vecchio di cui Paola Del Zoppo è direttore editoriale ha pubblicato nel 2020 Martin Hewitt, investigatore con la traduzione di Angelo Riccioni).

Sicuramente A poor stick rientra nella categoria vittoriana dei matrimoni infelici (troubled marriages) e qui si potrebbe citare Lev Tolstoj in Anna Karénina “Ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”; sicuramente la famiglia Jennings era una famiglia infelice a modo suo, e se Melier avesse ottenuto una progressione sposando Bob non è dato saperlo; di certo il suo non ne è stato un matrimonio fondato su amore e rispetto, o per lo meno in maniera univoca, cioè solo da parte di Bob.

P.D.Z.: Ogni posizione sociale riconosciuta come esistente è uno status. Sposato/divorziato/single sono status che portano con sé, in una concezione superficiale, caratteristiche della persona, o che addirittura portano, talvolta, a immaginare i pensieri degli altri in base alla loro condizione relazionale, devo dire, ancora spesso a detrimento della donna. Ci si immagina, per dire, che chi è single sia continuamente alla ricerca di una relazione, cosa che ovviamente non è vera. Credo che il matrimonio, poi, sia una scelta gravata di significati stratificati nel tempo, su cui ognuno di noi si potrebbe interrogare. Quello che intendiamo noi e che è ritratto nei racconti è un concetto culturalmente delimitato di matrimonio, però l’unione tra due persone (o più, in alcuni casi) data dal desiderio di sicurezza è naturale. Quello che fa il matrimonio è dichiararne la responsabilità sociale, cui quella individuale viene vincolata. E per la società questo implica una “cura” delle unioni degli individui che ne fanno parte. In questo lo sviluppo dell’individualismo ha reso al matrimonio relatività sociale, ma come per tutte le relazioni sociali, ha rarefatto la responsabilità degli altri rispetto all’unione, di fatto rendendola sempre più sterile. Cioè si tende  a non prendersi più cura delle “unioni” degli altri, dei propri amici, conoscenti… siano esse matrimoniali o no (ma anche di amicizia, per dire).

Il contrario del matrimonio è il divorzio, per dirla ironicamente, come di ogni relazione il contrario potrebbe essere la distanza o il disinteresse. Usando il divorzio come cartina d’analisi, come si vede bene anche da questi racconti, la separazione era da sempre e la storia della letteratura è piena di donne divorziate o non sposate e non per forza ribelli. Si tratta di una classificazione a posteriori che ci ha fatto leggere certi romanzi e libri come descrittivi di una condizione eccezionale e non riconosciuta e non desiderabile che destinasse alla solitudine. Eroine come Anna Karenina, Effi Briest, ma anche Tony Buddenbrook o la Thymian del Diario di una donna perduta di Margarethe Boehme portata sugli schermi da Pabst, e innumerevoli altre restano protagoniste della loro vicenda in maniera diversa l’una dall’altra. L’aura dell’adultera, e della divorziata in quanto adultera come “moralmente vacillante”, è sopraggiunta in seguito come “disinibizione possibile” talvolta con tratti vagamente voyeuristici e quindi di nuovo come costrutto maschile delimitante.

Poi con il tempo lo status di divorziati ha raggiunto l’energia categorizzante di quello di “sposati”, quando la possibilità di separarsi o mettere fine a un matrimonio è diventato possibile per un numero più alto di persone. Oggigiorno sta a ciascuno riconoscere a che livello una relazione sia “matrimoniale” e anche a volte traslare alcune caratteristiche dell’unione – che si suppone duratura o inscindibile – alle relazioni che ritiene corrette e degne. E credo che quindi stia a ciascuno, con o senza un certificato, porsi il problema di relazioni durature e di costruzione e valorizzazione di chi nella relazione è coinvolto. La questione più spinosa, oggi come allora, resta quella economica. Se con qualcuno condividiamo i soldi con cui facciamo la spesa a volte sembra più importante che condividere salite e discese, e questo è ancora oggi quanto più ci accosta all’idea di matrimonio come status e quindi come costrizione.

Melier è una donna che viene presentata come più forte rispetto a Bob, il marito. Mi vengono in mente tanti episodi di donne che, nel privato, hanno sempre comandato, salvo poi farsi paladine, in pubblico, di una mentalità maschilista. Cosa pensate del matriarcato occulto?

E.C.: La forza di Melier deriva soprattutto dalla mancanza di amore verso Bob; è una donna in perenne fase destrutturante e la manifesta fino al gesto estremo della fuga, con la quale non abbandona solo il marito, ma anche tre figli piccoli; non sappiamo se la sua sia stata una scelta consapevole o immatura, e cosa l’abbia realmente motivata.

Al netto di Melier, per rispondere alla domanda credo che il matriarcato occulto esista ancora, ma resta la percezione di un fenomeno così liquido, quasi trasparente, e culturalmente assimilato che non disturba proprio per la sua configurazione quasi tirannica nella sfera privata e remissiva in quella pubblica; eppure in ogni caso tradisce la Grande Dea Madre Mediterranea di cui parlava Momolina Marconi, nei suoi studi sulla Pelasgi, e fa pensare a Sciascia e a quanto lui abbia scritto e detto sull’argomento, definendo il matriarcato della sua Sicilia anche mammismo.

Tornando alla Grande Madre mediterranea, mi riferivo al concetto più alto e nobile di matriarcato che non vedeva nella prevaricazione dell’altro la sua affermazione e che puntava ad un’equa collaborazione fra i due sessi: la centralità delle donne regolava il funzionamento generale della società e la libertà dei due generi, senza le strutture gerarchiche del patriarcato; il passaggio dal matriarcato al patriarcato ha invece prodotto la declinazione di un femminile fondato sul modello maschile di prevaricazione e potere.

Credo che l’unica società che in maniera conclamata ancora oggi applichi una netta divisione tra spazio pubblico e privato fornendo un’importanza determinante nel gioco dei ruoli sia senz’altro quella musulmana. La divisione spaziale, infatti, concretizza il modo in cui la società concepisce il rapporto uomo/donna e naturalizza l’idea che lo spazio pubblico sia predominio degli uomini e che ad essi sia consacrato, mentre lo spazio privato, “l’unico posto giusto” per le donne, sia loro appannaggio.

Mi viene in mente un bellissimo saggio della scrittrice e giornalista del Tg2 Luciana Capretti intitolato La jihad delle donne. Il femminismo islamico nel mondo occidentale che ho recensito su Zest Letteratura Sostenibile, e che parla di molte donne di religione islamica (teologhe, studiose e attiviste, alcune delle quali imamah che guidano la preghiera in moschee europee e americane) che hanno saputo innescare un processo di modernizzazione senza precedenti. Pur essendo una minoranza, queste donne non possono essere ignorate o sottovalutate perché con il loro approccio critico si muovono all’interno dell’Islam, sono sostenute dalla fede e da studi approfonditi del Corano. Capretti ha raccolto le loro testimonianze e raccontato la sfida di cui si sono fatte carico per restituire l’Islam alla sua essenza pura e originale: quella di una religione fondata su giustizia ed eguaglianza fra uomo e donna.

Lo sforzo di queste donne è un vero messaggio di speranza.

 

P.D.Z: Io non vedo Melier più forte. Forse più ribelle, in un certo senso, ma alla fine anche convenzionale nella sua ribellione oppositiva, quindi debole. Mi sembra comunque piena di fragilità. Ma sulla questione del maschilismo delle donne ovviamente mi trovo d’accordo. Penso che sia una questione complessa e molto facile da strumentalizzare. Il maschilismo delle donne si rivela anche in molte rivendicazioni femminili che non riescono a liberarsi dell’idea di autorità tipica della società patriarcale, come appunto è il “comandare”, o la necessità dell’essere forti fisicamente. Anche intendere la parità come “essere uguali agli uomini” è infatti una delle forme più potenti (ed evidenti) di maschilismo, ma anche di annullamento delle personalità. Per fare un esempio, non è detto che la possibilità per le donne di essere soldati o di fare “il prete” sia una forma di parità. Il farsi paladine in pubblico di una mentalità maschilista mi sembra invece più affine agli atteggiamenti manipolativi di controllo, e quindi certamente di un pensiero debole, che può essere sia degli uomini che delle donne, come tutte le caratteristiche.

 

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