06 Mar Roberto Venturini – L’anno che a Roma fu due volte Natale
L’ANNO CHE A ROMA FU DUE VOLTE NATALE
Dialogo con Roberto Venturini
a cura di Erika Nannini
“L’anno che a Roma fu due volte Natale” (SEM, 2021) è il nuovo romanzo di Roberto Venturini. Spesso tratteggiare la trama di un romanzo, enumerarne i fatti, non basta a rendere la misura del lavoro che ci si appresta a leggere, la differenza la fa la voce dell’autore e dobbiamo sapere a chi appartiene quella tal storia d’amore, dolore, violenza o fantascienza che sia per inquadrare un clima e mettere a sistema delle aspettative. Non funziona così per il romanzo di Roberto Venturini, nel quale la trama è autoportante e conoscerla ci prepara esattamente a ciò che ci attende. In “L’anno che a Roma fu due volte Natale” Alfreda, accumulatrice seriale obesa e diabetica, incontra Sandra Mondaini in una sorta di visioni notturne che interpreta come un appello dell’attrice a adoperarsi per riunire la sua salma a quella del marito. È noto, infatti, che i coniugi più famosi d’Italia riposino in cimiteri diversi: Verano e Lambrate. Dato un simile innesco è ovvio che le persone più vicine alla donna accettino di compiere per lei quel che da sola non è in grado di fare. Così, un gruppo improbabile di personaggi composto da Marco, il figlio depresso e disagiato, un pescatore in disarmo e il travestito Er Donna, non si sottraggono al dovere che l’amore e la cura verso una persona cara richiedono, dando il via al ratto della salma di Raimondo Vianello. Il tutto è ambientato su un tratto di litorale romano in disarmo, depredato nei decenni da palazzinari e malavita. È un plot che promette una certa dose di trash, humor, degrado, violenza, dolore, dolcezza, pudore ed è esattamente ciò che il romanzo restituisce.
Personalmente vorrei vivere in Russia poco prima della rivoluzione d’ottobre anche per poter indossare l’alta uniforme degli ussari, quella che porta Nicola II ritratto in una foto accanto alla moglie, confezionata in panno avorio con alamari ricamati in filo d’argento e il risvolto di pelliccia. Dal taglio di entrambi i tuoi romanzi “Tutte le ragazze con una certa cultura hanno almeno un poster di un quadro di Schiele appeso in camera” (SEM, 2017) e “L’anno che a Roma fu due volte Natale” (SEM, 2021) mi pare di cogliere che anche il tuo sguardo si volge al passato e che, nostalgico, si rifiuti di perdere contatto con gli anni settanta. Se io anelo un’altra epoca, come uno spirito che da lì proviene e che si sente reincarnato frettolosamente e senza reale intenzione nell’oggi, tu, considerata la tua classe, 1983, sembri voler vivere in piena consapevolezza qualcosa che ti è sfuggito per un pelo, di cui hai sicuramente sentito l’eco spegnersi, ma che non hai potuto godere pienamente. Perché è appena oltre lo steccato della tua nascita che ti stai concentrando? Woody Allen fa dire al protagonista di Midnight in Paris che l’idea di poter essere più felici nel passato è un’illusione dettata dalla difficoltà di vivere il presente, dunque condividiamo la sindrome dell’epoca d’oro? Una sorta di camminare voltati all’indietro che ci impedisce di vedere dove stiamo andando e grazie al quale potremmo ritrovarci entrambi dentro a un fosso?
Posto che ti vedrei molto bene confezionata in panno avorio con alamari ricamati in filo d’argento e il risvolto di pelliccia, mi mette in seria difficoltà questa osservazione intorno al filo rosso che lega i miei due romanzi. Ti spiego perché: del primo qualcuno ha scritto che è un ritratto generazionale e del secondo che è un affresco sulla contemporaneità. I protagonisti di Tutte le ragazze sono giovani che nel presente vivono un disagio le cui radici affondano in un passato prossimo ingannevole. Stoicamente, e con la potente arma dell’autoironia, nella contemporaneità si ricavano una stanzetta dalla quale sussurrano siamo vivi e malgrado tutto andiamo avanti. Del passato – responsabile di molte delle loro nevrosi, pose e frustrazioni – conservano un immaginario pop (linguaggio delle merci, televisione, cinema, musica, cultura e subcultura di massa) che definisce i parametri entro cui inserire il loro immaginario emotivo. Lo sguardo dei protagonisti, nonostante l’asticella delle aspettative tenuta bassa, è proteso verso il futuro. La faccenda nel mio secondo libro si complica. Ne L’anno che a Roma fu due volte Natale una tematica portante è la perdita. Contestualmente al degrado dei membri del nucleo famigliare che racconto – e degli altri personaggi che gravitano attorno a essi – nel romanzo parlo anche delle grandi opportunità dissipate dal litorale romano: l’arena dove gli attori della mia commedia amara si muovono. Insomma, gli spettri che aleggiano su tutta la vicenda sono rappresentati dalle occasioni perse. Dunque, per forza di cose, i due protagonisti principali non potevano non essere che due nostalgici. Di una nostalgia però che assume forma e contenuto diametralmente opposti in madre e figlio. Alfreda, che la perdita del marito non ha mai superato, riempie il vuoto dell’assenza accumulando oggetti che le ricordano il passato intrappolandola simbolicamente in una casa diventata una gabbia d’amore. Marco è un nostalgico nell’accezione junghiana. Un malinconico che crede di aspirare al passato ma paradossalmente – e nonostante la zavorra dell’ingombrante mamma – anela al futuro. In lui la nostalgia funge da impulso di una sgangherata ricerca e ridefinizione della propria possibilità di essere. A differenza di Tutte le ragazze, in L’anno che a Roma fu due volte Natale lo sguardo dei protagonisti non è rivolto al futuro ma, citando Amy Hampel, si concentra su le piccole ragioni per vivere della quotidianità. Per raccontare poi il territorio – coprotagonista a tutti gli effetti– mi sono avvalso di due personaggi che rappresentano finestre sul passato (Carlo, il pescatore) e sul presente (Er Donna).
Passiamo la vita a combattere i nostri limiti, crediamo di modificarci per accrescimento, introitando nozioni, esperienze, riflessioni, ma in realtà è come estendere il proprio terreno comprando anche quello del vicino, tanto più sappiamo, tanto i nostri possedimenti si allontanano dal nucleo: la casa. Il sapere è una carraia più lunga da percorrere per tornare al focolare, più simile a un liquido buono a diluire uno sciroppo denso, non ci accresce, ci stempera. Credo sia questa la ragione per cui non possiamo cambiare e smettere di prestare fede a ciò che siamo, mai, nemmeno quando inventiamo storie e, in effetti, Roberto Venturini non è sovrapponibile a nessuno dei personaggi da te creato, ma forse lo è con il clima che domina tutti loro rendendoli così bizzarri. I tuoi personaggi sono esposti – emotivamente e economicamente – come se si trovassero senza riparo, eppure non cercano di costruirne uno dove non può esserci, si predispongono semmai all’inclinazione migliore per ricevere la pioggia che li sta bagnando. Diminuire l’attrito con la vita, è questa la loro strategia di sopravvivenza?
Tralasciando il fatto che mi stai dando del bizzarro – cosa che mi lusinga e imbarazza al tempo stesso, ché non credo di meritare – con il clima che domina alcuni dei miei personaggi condivido un desiderio di salvezza. Che, attenzione, non è volontà di benessere. Nel mio immaginario gli attori della mia commedia non aspirano alla serenità. La loro maledizione consiste nella ricerca disperata di una felicità salvifica che non esclude una buona dose di sofferenza, anche quando non è necessaria.
Questo romanzo l’ho visto crescere, ho avuto la fortuna di discuterne con te e di ascoltarti valutare ogni snodo narrativo che hai deciso di scegliere o scartare, le ragioni che t’inducevano a farlo e, a volte, quelle che ti portavano a riconsiderare le decisioni già prese. Ho imparato come un romanzo lo si può condurre fino a un certo punto e come, a partire da quel momento, la storia non risponda più alle sollecitazioni come ci aspetteremmo, ma bisogna scendere a patti con lei. Quello è il momento in cui il talento fa la differenza e l’autore si trasforma in un domatore di leoni. È anche il momento più pericoloso per il romanzo? In cui ancora può morire per implosione?
È assolutamente quello il momento. È bellissimo, è orribile. Proprio quando tutto sembra incasellarsi, il personaggio, malgrado la tendenza a imbrigliarlo, richiede giustamente la sua autonomia. Allora come un flusso migratorio non puoi arginarlo ma devi agevolarlo. Nella maggior parte dei casi, nell’istante in cui si compie quell’atto di coraggio di riconsiderare le dinamiche, i raccordi, financo la struttura, avviene la magia. Si avverte, paradossalmente, la sensazione di stare a raccontare quello che veramente volevi raccontare.
Dalla primissima volta che abbiamo avuto occasione di parlare di questo romanzo a L’anno che verrà di Martino Baldi presso la San Giorgio di Pistoia, ho coltivato la segreta speranza che celasse il germe della rivolta e producesse l’effetto dirompente di riunire le salme di Sandra e Raimondo. È una possibilità che senti plausibile?
Premetto che non sono a conoscenza delle ragioni per cui la Mondaini abbia voluto essere sepolta a Lambrate però, egoisticamente, sapere la coppia simbolo per eccellenza dell’unione coniugale nazional popolare separata nella morte mi fa molta tristezza. Debbo deluderti ma non credo proprio che questo romanzo possa produrre l’effetto dirompente di riunire le salme, ahimè.
Il tuo primo romanzo ha vinto il Bagutta Opera Prima. È notizia di venerdì che “l’anno che a Roma fu due volte Natale” è stato presentato al Premio Strega, segnalato da Maria Pia Ammirati. Competere in premi così importanti è qualcosa che mette in discussione lo scrittore o l’opera? C’è differenza? E ci si può davvero separare dalla propria creatura una volta che è stata pubblicata?
L’atto dello scrivere è qualcosa di talmente identitario che scindere l’autore dall’opera e quasi impossibile. L’annuncio del premio Bagutta Opera Prima è stata una rivolverata di felicità, completamente inaspettato. La segnalazione allo Strega è una cosa gratificante che mi riempie di gioia (notare la banalità della risposa che neanche un calciatore in una conferenza stampa). Dalla propria creatura ci si deve necessariamente separare dopo la pubblicazione altrimenti si incorre in serie problematiche di natura psicologica. E noi, Erika, ne sappiamo qualcosa.
“Il freddo le aveva morso le mani e, alitandoci sopra, la condensa appannava l’orologio: il Seiko al quarzo a tiratura limitata, col cinturino in metallo, a cui Mario teneva tanto. Se l’era comprato da Costa, la gioielleria di via Spagna vicina alla rotonda di Torvaianica, e praticamente non se lo levava mai, neanche quando il vetrino gli si era graffiato tanto che non si riusciva più nemmeno a leggere l’ora. Da quando era morto, Alfreda lo indossava, anche se un po’ le stava stretto, e quando la sera prima di andare a dormire se lo toglieva, poggiandolo sul tavolino di fianco alla poltrona, le rimanevano un segno viola e la mano leggermente intorpidita. Quanto ci si arrabbiava Marco, per questa cosa: «Guarda che ti si blocca la circolazione del sangue, ti si gonfia la mano e poi te la devono amputare. Te lo porto io in gioielleria e te lo faccio allargare» le diceva. Ma Alfreda non si fidava più neanche del figlio: tutti cercavano di separarla da quegli oggetti che erano appartenuti al marito per farla distaccare dai ricordi, ma non lo capivano che quell’orologio, così come molte altre cose che conservava, era indispensabile.
Biografia
Roberto Venturini è nato nel 1983 a Roma. È autore, soggettista e sceneggiatore della pluripremiata serie web che ha ispirato il suo fortunato esordio letterario: Tutte le ragazze con una certa cultura hanno almeno un poster di un quadro di Schiele appeso in camera (SEM, 2017), vincitore del Premio Bagutta Opera Prima. L’anno che a Roma fu due volte Natale (SEM, 2021) è il suo secondo romanzo.
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