09 Mar MARIA CORTI: IL CANTO DELLE SIRENE E LA SANTA SAPIENZA
Maria Corti: Il canto delle sirene e la Santa Sapienza
di Giovanna Di Marco
Il canto delle sirene di Maria Corti è un’opera che venne pubblicata nel 1989 per Bompiani con prefazione di Cesare Segre, che dichiarò l’imprescindibile importanza dell’elemento strutturale all’interno del testo: una struttura che “si rivela persino nei numeri com’è giusto per una medievalista”. I capitoli che compongono l’opera ci presentano vari dialoghi tra le sirene, alternati a dei racconti. L’ultimo è di carattere autobiografico. Il primo, invece, ci porta in una Puglia – terra a cui Corti fu legatissima – medievale e ha come titolo Il silenzio della sirena: un richiamo a Kafka, confermato dalla citazione esplicita. Il protagonista della storia è Basilio, un pittore inquieto, ben lontano da una visione medievale dell’artista: riproduttore, a quel tempo, di canoni, legato a testi, quasi sempre sacri. Basilio invece è un artista romantico: è deracine, irregolare, quasi maledetto; ama una ragazza, Cosima, e per questo non è ben visto dal padre di lei, che la vorrebbe maritata a un ricco, certamente a un uomo più conformista. Ma Basilio, che crede nelle sirene e che ogni tanto, in mare, sente delle strane voci, non si accontenta di quell’unico amore terreno, è proprio attratto da un’altra forma di tensione, quella creativa. E per questo ne soffre: “La creazione non ha felicità; te lo nasconde per un po’ di tempo, poi lo scopri da te. Ma tale conclusione non era terrificante; gli dava solo una gran voglia di scendere al molo, staccare la barca e andare al largo. Era un po’ come viaggiare verso un ignoto”.
Basilio è consapevole dell’esistenza di una seduzione intellettuale, che, nella sua accezione etimologica – del condurre fuori di sé – possa portarlo alla perdizione: “Credo che qualcosa possa sedurre le mente dell’uomo e incantarlo sino a farlo morire. Questo sì”.
Questa inquietudine è il terreno fertile dove possa sbocciare e prendere corso l’ispirazione, il furor poetico, in quanto creativo, che si concretizza in una prima immagine, la celebre iconografia dell’eroe Ulisse, rapito dal canto delle sirene, sofferente ma legato, che sfida questi esseri attraverso gli espedienti della ragione, quei lacci che lo avvinghiano all’imbarcazione: “Ulisse legato all’albero maestro grida, comanda che lo sciolgano, anche se il suo grido sul cassone non ha suono; egli sprofonda nella voragine della conoscenza, che lo attrae, lo calamita e insieme gli fa orrore perché in essa si perderebbe”.
Ma arriva presto una seconda immagine, accuratamente descritta. Basilio si reca in un luogo ipogeo, fra Otranto e il casale di Uggiano, dove dei monaci possedevano delle cripte. Il giovane artista, sfidando l’idea tradizionale del sacro, preconizza una sorta di religione dell’arte, che, attraverso il dato sensibile, conduca a una forma di conoscenza più alta: “Basilio rifletté che esisteva una seconda religione, quella creata dagli affreschi e dalle tavole dipinte. Si sentì guardato da tanti occhi allungati sotto le sopracciglia arcuate”.
Ed ecco che sotto lo sguardo dei santi dipinti nella cripta, avviene il prodigio, accompagnato da una narrazione precisa del soggetto che lo turba. Si tratta di una figura di donna, la Santa Sapienza:
“D’improvviso nella penombra mobile della lucerna gli apparve come una visione il luminosissimo affresco della Aghia Sofia o Santa Sapienza […]. Era incantevole quella Sofia sulla parete destra della chiesa: profilo perfetto sotto l’aureola crucifera, la veste biancoargento dai ricchi panneggi su un fondo color grano, chioma bionda, la Sapienza di Dio avvolta in una stranezza di sorriso dei grandi occhi a mandorla, come se il pittore avesse voluto nell’allegria creativa rompere la fissità dell’arte bizantina. A chi sorrideva? Alla scrittura greca? Allo Spirito Santo? Fu proprio quella stranezza di sorriso a renderla per Basilio indimenticabile: il sorriso della conoscenza. Quella splendida donna gentile era la conoscenza”. E ancora: “La sua Sofia era là, solitaria sulla pietra, temerariamente bella come doveva essere la volontà di sapere all’origine dei tempi”.
Sofia, in silenzio, sollecita in Basilio un’ansia: nella sua iconica solennità sta generando un meccanismo creativo che può agire soltanto su uno spirito predisposto. Da questo momento in poi, il sacro e il profano si intrecceranno, senza più distinguersi, in una mescolanza di arte e di fede, e, come già anticipato, di fede nell’arte. L’arte viene ribadita come un credo, come il viatico per il raggiungimento del sapere più sommo.
Ed ecco che entrano in gioco le sirene: “Secondo l’egumeno, le sue sette ancelle, le arti liberali sono più seducenti delle sirene”. La seduzione del canto delle sirene non è limitato dunque al turbamento erotico, ma alla smania per il sapere. Attraverso Basilio, Corti vuole dunque proporci un novello Ulisse, l’eroe dal multiforme ingegno, mosso da una hybris votata a ‘divenire del mondo esperto’. E Basilio ribadisce di avere già ascoltato delle voci in mare, quel loro canto fatale: “La mia anima è piena di curiosità […]. In mare ne fa di tutti i colori: si lascia sedurre da grandi desideri e ode persino delle voci […]. Qualcosa che assomiglia al canto delle sirene.”
La Santa Sapienza, che ha l’immagine di una donna, riflette la dimensione di un amore altro, quello che non si può riscontrare in un rapporto ordinario con una donna comune: Cosima, seppur amata. E la dimensione sacra e sapienziale di questa personificazione in donna ha a che fare con l’arte, anzi, è talmente sostanziale la relazione con essa, da suscitare il confronto con motivi ascetici: “Il fatto è un altro. Qualche volta a uno capita di andare oltre il punto a cui la sua mente può arrivare. Sono degli sprazzi, dei lampi. Se quella luce improvvisa fosse continua, tu ti perderesti come succede ai santi nell’estasi”.
Basilio incarna il ruolo di un antesignano maudit, in un perenne viaggio di ricerca e scoperta e, dopo questa ekphrasis, sente più vicino e convulso il richiamo verso il superamento di ogni limite: “C’era qualcosa di nascosto a cui ci si avvicinava solo con pericolo di morte e la morte nasceva da un amore speciale per questo qualcosa di nascosto, a cui si aspirava solo se si era segnati: un navigante, un poeta, un suicida. Questo diceva il canto”.
Ad accelerare la risoluzione della vicenda, arriva un’altra folgorazione, anticipata dalla visione dell’affresco della Santa Sapienza. Mosso da un orgasmico stato creativo, sarà suggestionato dall’opera pittorica di uno uomo preistorico: dentro una grotta sconosciuta vicino al mare, vedrà i suoi graffiti, mai svelati prima a uomo alcuno. Lì si confronterà, come pittore, con i lavori di un altro pittore. Quelle scene di caccia lo porranno di fronte a un abisso, un perturbamento che è la voragine del tempo. Per Basilio, lo sconosciuto pittore di cui sta scoprendo le opere sarà adamitico, sarà il primo uomo e il primo artista in preda al suo stesso furore, al mistero della mimesis e della creazione. Seguirà quindi, inesorabile, la volontà di compiere a sua volta un atto creativo: ritornare in quella grotta, sfidando il mare, per dipingere anch’egli. Anche stavolta, nel raccontare il suo viaggio in mare, Corti farà ricorso a Ulisse. Ma non farà assomigliare Basilio all’Ulisse omerico, bensì a quello dantesco, colui che si lancia nel ‘folle volo’. Quasi ad affermare – reinterpretandolo in modo sotteso – che il personaggio dell’eroe proposto da Dante e sfuggito alle sirene la prima volta, fosse stato condotto alla morte dal loro richiamo perché esse, in fondo, incarnano la conoscenza: “La grotta mi ha sedotto, sissignore. Voglio dipingere non posso morire ora, non posso; è inconcepibile”.
Corti sembra riscrivere in prosa e in chiave moderna l’episodio del XXVI Canto dell’Inferno (Tre volte il fé girar con tutte l’acque; / a la quarta levar la poppa in suso/ e la prora ire in giù), a cui si aggiunge la citazione afferente alla montagna (del Purgatorio, in Dante): “La tempesta di tramontana spazzava terra e mare e ora la barca vorticava: si spostava in tutte le direzioni […]. Poi sorse davanti una montagna d’acqua che la barca a fatica scalò per ripiombare di colpo dall’altra parte”.
Basilio ripercorre l’ultimo viaggio di Ulisse, come lui tracotante, perché l’arte è un gesto di tracotanza e di sfida, che mette l’artista in competizione con Dio nella creazione. Cosima, come Penelope, starà ad attenderlo invano: il debito d’amor anche per lei non varrà, perché Basilio ha osato infrangere il senso comune solitamente sposato dai più. Le sirene sono quindi, e non in modo blasfemo, da identificarsi con la Divina Sapienza ed è per questo che forse si spiega l’epigrafe iniziale, di Kafka, relativa al loro silenzio: la Santa Sapienza, immagine sulla roccia, sta lì, silente e bellissima, a turbare e a sorridere. E a suscitare la creazione.
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