12 Mar Una cosa bella
Una cosa bella
intervista a Benedetta Carrara
a cura di Ivana Margarese
Disegni di Valeria Di Ponio
Una cosa bella è l’esordio letterario di Benedetta Carrara, pubblicato nell’ottobre 2020 da Divergenze nella collana Controscena. Nel testo si raccontano gli ultimi giorni di vita del poeta John Keats, malato di tubercolosi, attraverso i dialoghi con la fidanzata lontana Fanny Browne e l’amico pittore Severn che andò con lui a Roma decidendo di restargli accanto fino alla morte.
Comincio col chiederti del titolo: come nasce Una cosa bella? Da quanto tempo avevi in mente di mettere in scena questa storia?
Una cosa bella nasce a novembre 2019, tra le lezioni all‘università e i viaggi in treno. Già qualche mese prima, il mio amico Alberto Camanni mi aveva chiesto di scrivere un testo per lui e per altri due suoi colleghi attori, Matteo Dagnino e Giorgia Fasce. Influenzata dall’amore per la letteratura russa, avevo iniziato a scrivere un testo ambientato nella Russia sovietica, senza però esserne del tutto soddisfatta soddisfatta. Poi un giorno, dopo aver casualmente riletto When I have fears that I may cease to be, ha iniziato a scorrermi davanti agli occhi un dialogo intimo e straziante tra Keats, moribondo, e Fanny, eterea, evanescente, vicina eppure incredibilmente lontana. È stata una folgorazione, un lampo d’ispirazione che ha stravolto i miei piani, spingendomi a mettere da parte quanto scritto fino a quel momento per riprendere in mano le lettere e le poesie di John Keats. Per due o tre mesi ho alternato la lettura e la ricerca alla scrittura e riscrittura, sottoponendo ogni nuova versione del testo ad Alberto, che mi aiutava ad identificare e modificare i passaggi eccessivamente criptici, quelli che rischiavano di risultare comprensibili solo agli appassionati di letteratura. Poco dopo aver finito il testo, però, è scoppiata l’epidemia di Covid: i teatri sono stati chiusi, l’ultimo anno di accademia di Alberto, Matteo e Giorgia è stato messo in pausa, e la messa in scena del testo è stata rimandata a tempi migliori. Oggi le difficoltà non sono finite, soprattutto per il mondo dello spettacolo che ancora sta aspettando di riprendere a vivere e lavorare, ma noi non ci siamo fermati. L‘inaspettata pubblicazione di Una cosa bella, per la quale ancora continuo ad emozionarmi, ci ha spinti a continuare a lavorare con ancora più energia, e al nostro gruppo di lavoro si è aggiunto un altro giovane attore, Davide De Togni, il nostro direttore creativo. Speriamo di riuscire presto ad andare in scena!
Gli ultimi giorni di vita di Keats trascorsero a Roma in compagnia dell’amico Severn, vorrei chiederti cosa ti ha colpito maggiormente di questa loro amicizia.
Mi ha sempre colpito la bontà di Severn, la sua forza e il suo coraggio. Lui e Keats non erano amici intimi, eppure lui accettò di accompagnarlo in quest’ultimo viaggio. Severn non poteva fare nulla per alleviare il dolore di Keats – nemmeno dargli l’oppio, siccome c’era il timore che tentasse di uccidersi –, e Keats era consapevole dell’imminenza della propria morte: in casi come questo, non si può fare molto. Eppure, Severn restò sempre accanto a Keats, prendendosi cura di lui e dimostrandogli non solo una profonda ammirazione e stima, ma anche un affetto puro, fraterno.. Un affetto che si può intuire dalle righe strazianti che scrisse a Charles Armitage Brown per annunciare la morte del loro amico – righe che ho voluto includere anche nel testo proprio per rendere giustizia a questo sentimento.
«Avrei tantissime cose da dirle. Talmente tante, e talmente belle, che tutte le parole inventate non potrebbero bastare. Mi servirebbero una parola più bella di “bella”, una più luminosa di “luminosa”… Ma quelle parole non esistono». Il poeta John Keats, già malato di tubercolosi, pronuncia queste parole rifiutandosi di rispondere alle molte lettere della fidanzata Fanny Brawne.
Queste parole in realtà riprendono una frase della prima lettera che Keats scrisse a Fanny, il 19 luglio 1819: «Non so come esprimere la mia devozione per tanta bellezza: mi servirebbe una parola più bella di “bella”, una più luminosa di “luminosa”». Molti autori del passato ci sono noti esclusivamente attraverso i loro scritti pubblici: poesie, poemi, trattati, romanzi… Testi fondamentali nella definizione della loro poetica e del loro pensiero, ma poco utili a coglierne il carattere. Nelle scritture pubbliche, infatti, c’è sempre un filtro che crea una barriera più o meno spessa tra l’io poetico e l’io del poeta. Abbiamo però la fortuna di avere a disposizione innumerevoli lettere private di Keats, tra cui quelle che scrisse a Fanny, pubblicate e messe all’asta dai figli di lei nel 1878. Ecco, queste lettere ci permettono di conoscere Keats-uomo, con tutti i suoi slanci, i suoi dubbi, i suoi timori. Dovendo dare voce a Keats, mi è sembrato naturale ricorrere alle sue stesse parole. E poiché quando partì per Roma Keats smise di scrivere a Fanny Brawne – in parte per lasciarla libera, in parte perché non voleva illudersi ulteriormente –, ho deciso di fare riferimento alle lettere che le scrisse nell’arco della loro relazione. Le citazioni che sono presenti nel testo sono solo una parte di quelle che avrei voluto includere. Amo la sintesi e ricerco l’essenzialità, quindi ho inserito solo quelle citazioni che, incastrandosi naturalmente nell’economia del testo, permettessero allo spettatore/lettore di capire meglio il carattere di Keats e la sua relazione con Fanny, con la poesia, con la critica.
John e Fanny seppure consapevoli di essere lontani fisicamente, lui a Roma e lei in Inghilterra, condividono la stessa scena, si guardano e parlano, come in effetti avviene per gli amanti che mantengono un legame invisibile e sono comunque vicini e in dialogo.
Keats rifuggiva qualsiasi contatto diretto con Fanny, rifiutandosi appunto di leggere le lettere che lei gli mandava e quindi di rispondere ad esse. Ma pensava spesso a lei, e nei suoi deliri cercava il dialogo con lei. Mi ha appunto affascinato questa duplicità di atteggiamento da parte di Keats: il desiderio, soffocato, di avere un ultimo dialogo, e la volontà di risparmiare a sé e a Fanny l’infinito protrarsi del loro addio. La consapevolezza della morte, che gravava su di lui ormai da mesi, da quando per la prima volta aveva tossito sangue arterioso, lo spingeva a ritrarsi in sé stesso, ad allontanarsi dagli altri nella speranza di limitare, così, il dolore. Ma la giovinezza e l’amore gli impedivano di tagliare del tutto i ponti. Mettere in scena un dialogo tra Fanny e Keats è stato il mio modo di dar loro un ultimo incontro, un ultimo dialogo prima della morte, nella speranza che le loro preghiere si siano comunque avverate, e che si siano rincontrati in un altro mondo, in cui poter essere finalmente insieme, finalmente felici.
Nel testo fai riferimento alle false recensioni e ai critici letterari che possono dare celebrità a opere di poco valore o deprezzare ciò che magari sopravviverà artisticamente. È un tema sempre attuale, sul quale vorrei una tua opinione.
Tutto ciò che ci è contemporaneo ci risulta difficile da valutare. Il continuo divenire degli avvenimenti ci porta ad una visione parziale della realtà, viziata dai nostri sentimenti, dalle nostre mancanze, dai nostri pregiudizi e soprattutto dall’impossibilità di analizzare a mente fredda i dati. Per questo, è fondamentalmente impossibile, secondo me, definire il valore di un’opera d’arte quando essa è appena stata prodotta. Il tempo è l’unica cosa che ci permette di valutare non solo la qualità di un’opera, ma anche il suo impatto. Ciò che ci sembra banale e ingenuo, potrebbe rivelarsi profondo, a tratti universale se riletto dopo cinquant’anni. E ciò che ci sembrava grandioso un giorno si può poi rivelare totalmente marginale. Con questo non intendo svalutare in toto la critica letteraria, ma semplicemente ridimensionarne il ruolo: essa è utile a individuare i punti di forza e di debolezza di un testo, come nel caso dell’Endimione di Keats, ma è incapace, a causa dei limiti propri dell’uomo, di prevedere il futuro successo o insuccesso di questo.
Il poeta inglese, ispirandosi a un verso del Carme LXX di Catullo, ha voluto che sulla sua tomba fosse scritto: «Qui giace uno il cui nome fu scritto sull’acqua». Tu, nota Angela Di Maso nella postfazione, sembri far proseguire con queste parole l’epitaffio: «E ogni goccia d’acqua è caduta dal volto di chi ti ricorda ancora».
Fin da piccola sono stata incuriosita dall’epitaffio di Keats. Come poteva essere convinto di quelle parole? Certo, i critici non erano stati clementi nei suoi confronti, ma i suoi amici lo stimavano, e non ne facevano mistero. Eppure lui era davvero convinto che il mondo non avrebbe conservato memoria di lui, che il suo nome sarebbe sbiadito fino a perdersi completamente, e che i suoi versi sarebbero rimastri chiusi in un libro abbandonato in fondo a uno scaffale polveroso, dimenticati da tutto e da tutti. Keats ha passato i suoi ultimi mesi attanagliato dalla consapevolezza di non avere avuto abbastanza tempo per fiorire artisticamente e garantirsi così l’immortalità letteraria. I suoi amici hanno rispettato la sua ultima volontà, dandogli una lapide anonima, ma poi, in una dimostrazione di affetto e stima, non solo hanno curato la memoria di Keats (basti pensare che Shelley gli dedicò una toccante elegia, Adonaïs), ma si sono anche assicurati che il suo nome fosse inciso su pietra. Chi visita la tomba di Keats a Roma se ne può facilmente rendere conto, poiché accanto alla sua lapide, decorata da una lira, ce n’è un’altra con una tavolozza: è la tomba di Severn, “amico devoto e compagno sul letto di morte di John Keats”. E al di là della gloria poetica, la cui eco riverbera fino ai giorni nostri, credo che l’aver lasciato dietro di sé tanto amore e tanti ricordi già sia un grande traguardo per un giovane amante della Bellezza – e non della Fama – spaventato dall’oblio.
Biografia
Benedetta Carrara, classe 2000, vive a Sondrio e frequenta Lettere all’Università di Pavia. Autrice di articoli e racconti, ed editor per la rivista Efemera, ha esordito con il testo teatrale “Una cosa bella” (Divergenze, 2020), di cui sta curando la messa in scena.
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