22 Mar Amore «incanta il pensiero di tutti»
Amore «incanta il pensiero di tutti»
Dialogo con Luciano Sesta
a cura di Ivana Margarese
Comincio con il chiederti del titolo L’Eros che non c’è. Meraviglie e contraddizioni dell’amore. Da cosa nasce questo saggio che parla di amore in una prospettiva filosofica?
Il saggio nasce, prima ancora che da un lavoro di ricerca, da un’esperienza didattica, sia universitaria sia scolastica. Il dialogo vivo con gli studenti è stato il principale stimolo che mi ha spinto a dare una veste organica alle idee che andavano emergendo, che hanno poi preso forma in una trilogia “erotica”, di cui questo è il primo volume. Il titolo del libro si riferisce alla natura ideale e utopica dell’amore. “Ciò che eros prende subito fugge via”, leggiamo nel Simposio di Platone. E in effetti in amore siamo sempre tutti perennemente insoddisfatti. Come se cercassimo qualcosa che c’è, paradossalmente, solo nella misura in cui si sottrae al possesso. Anche quando in amore finalmente otteniamo ciò che desideriamo, torniamo a perderlo nuovamente, perché l’amore si rivela sempre diverso da ciò che sembrava quando ancora non lo avevamo trovato. Con il suo proverbiale acume, Oscar Wilde lo ha espresso dicendo che “ci sono due tragedie nella vita: una è non avere ciò che si desidera, l’altra è averlo”. Che l’eros ci sia solo nella misura in cui va via, inoltre, si riferisce al fatto che spesso ci accorgiamo di quanto davvero amassimo qualcuno solo quando lo perdiamo. Come se appunto la “meraviglia” dell’amore ci venisse restituita nel momento stesso in cui l’amore ci viene sottratto.
Platone nel Simposio afferma che l’amore «incanta il pensiero di tutti» ed espone attraverso Diotima la sua teoria dell’amore come mancanza, come desiderio mai totalmente appagato. Eros è, secondo il filosofo greco, per sua natura filosofo: non sapiente dunque ma ricercatore della sapienza. Questa tensione in continuo movimento è espressa in versi anche da Ovidio: «Non posso vivere né senza di te, né con te» (nec sine te nectecum vivere possum).
Ti chiedo come sia possibile definire ciò che per sua stessa natura è in costante movimento. Scriveva infatti Michel de Montaigne che rispetto al calore dell’amicizia «temperato e uguale, costante e calmo», il fuoco dell’amore «è più attivo, cocente e intenso», «cieco e volubile, ondeggiante e vario, fuoco di febbre, soggetto a eccessi e pause e che ci occupa da un solo lato».
È vero, la passione d’amore, soprattutto se paragonata a sentimenti come l’amicizia, è ingovernabile e spiazzante. Più che “definire” l’amore, nel libro ho piuttosto cercato di “descriverlo” così come si manifesta nella nostra comune esperienza, facendomi aiutare non solo dalla tradizione filosofica – che pure ne ha parlato stranamente poco, a eccezione di Platone e di Schopenhauer – ma anche dal cinema, dalla letteratura e dalle neuroscienze. Mi è parso il modo più adeguato di descrivere un sentimento fluido, sempre vivo proprio perché non inquadrabile in standard definiti. Anche se questo non significa, a mio avviso, che l’amore non sia “definibile”. Se non lo fosse, non potremmo distinguerlo da esperienze similari o che si spacciano per “amore” pur non essendolo affatto, come per esempio la pedofilia, il rito delle Sati, l’infibulazione delle proprie figlie e mogli, il femminicidio e certe forme patologiche di legame possessivo e ossessivo, non solo con altre persone, ma persino con cose e animali, come nelle cosiddette parafilie (oggettofilia, zoofilia, necrofilia ecc.).
Il filosofo medievale Riccardo di San Vittore ha scritto: «Ubi amor, ibi oculus». Dove c’è l’amore, c’è visione. Lungi dall’esser cieco, l’amore ci rivela a noi stessi e rivela ciò che l’altro è realmente.
Ne sono del tutto convinto, contrariamente a ciò che spesso si dice, quando si parla dell’innamoramento come di una luce abbagliante e, dunque, accecante. Nei Frammenti orfici troviamo scritto che l’amore non ha occhi e, in altri frammenti, che ne ha quattro. Chi ama non è affatto cieco. Al contrario, vede una bellezza che, altrimenti, la routine nasconderebbe. Non è dunque vero, come scrive Gainsbourg, “che ci si innamora dell’altro per ciò che non è e lo si lascia per quello che è”. Nell’amare qualcuno vengono alla luce qualità reali della sua persona, che però l’abitudine, ogni tanto, induce a trascurare e a far passare inosservate, portando in primo piano i suoi limiti e i suoi difetti. Ciò che due persone fanno vedere di se stesse quando sono innamorate non è ancora tutto. Ma sarebbe falso dire che è soltanto il meglio. C’è una ricchezza, in noi, che nell’innamoramento rimane silente, e che potrà manifestarsi gradualmente solo con il tempo – e i tempi – dell’amore. Anche gli aspetti più scomodi e oscuri della nostra persona, certamente, emergeranno solo nel tempo. Ma non avrebbe senso dire che poiché l’innamoramento ci induce a non pensare a questi possibili difetti, allora equivale a un’illusione. L’ignoranza iniziale di certi difetti, infatti, ha anche la funzione di farceli scoprire solo quando l’evoluzione del nostro sentimento ci avrà messo nelle condizioni di inquadrarli nella giusta ottica. Scoprire i difetti dell’altro quando lo si ama, non prima: potrebbe essere questa la funzione dell’effetto “coprente” dell’innamoramento.
“Quella «cosa» per la quale vale la pena spendere la propria vita, le proprie energie, la propria salute fisica e mentale. Ognuno di noi sa bene di cosa stiamo parlando. E può trattarsi di una dedizione che riguarda sia «qualcosa» sia «qualcuno»”. L’amore è soprattutto dedizione?
No, non direi che sia “soprattutto” dedizione, ma semmai “attrazione”. La dedizione è una conseguenza dell’attrazione: sono spinto a dare tutto e a prendermi cura di ciò che amo (dedizione) perché mi sembra di non poter fare altrimenti (attrazione). La componente passionale, e dunque in qualche modo “subìta” dell’amore, è a mio avviso prioritaria. Chiunque parli con una persona innamorata, che può essere anche una madre al cospetto dei propri figli, ha la sensazione di trovarsi di fronte a qualcuno che sta liberamente assecondando, e con gioia, un’energia di cui non dispone e che non saprebbe spiegarsi. L’amore è certamente anche “scelta”, non già di creare dal nulla un legame che diversamente non ci sarebbe stato (questa è forse amicizia, o filantropia), ma appunto di assecondare una corrente già in atto. Che possiamo sostenere con le nostre scelte, certo, ma anche da cui le nostre scelte sono sostenute e sempre nuovamente rilanciate.
Nel saggio sottolinei come sia importante non confondere l’amore col possesso perché, contrariamente a quanto comunemente si pensa, non è l’amore a fare soffrire, quanto piuttosto il credere l’altro a nostra disposizione, l’istinto della proprietà, che è il contrario dell’amore.
L’amore non dev’essere confuso con il possesso, certo. Ma chiediamoci anche come mai si sia indotti quasi sempre a questa confusione. La mia idea è che l’amore sia anche possesso. Ma, attenzione, è il possesso di ciò che ricevo in dono, non di ciò che mi accaparro prendendolo da me. In questo senso io ho anche provato, nelle mie riflessioni, a riabilitare l’uso degli aggettivi possessivi in amore (il “mio” uomo, la “mia” donna, “mio marito” ecc.). Io sono il “tuo” uomo perché io stesso voglio esserlo, non perché tu possa accampare pretese di proprietà affettiva su di me. E non c’è dichiarazione d’amore più sensuale che “sono tuo”, “sono tua”. Il possesso reciproco, in amore, esiste, ma non è frutto di un contratto o di un impossessamento, ma di un libero, e dunque sempre precario, venirsi incontro. Affinché si realizzi il miracolo di questa appartenenza reciproca senza impossessamento, occorre coltivare la capacità, da parte di ciascuno dei partner, di saper sempre fare “un passo indietro” quando la situazione lo richiede. Se mi aggrappo all’altro, se ne invado tutti gli spazi per paura di perderlo o perché manco di autonomia affettiva, se non gli lascio un margine di movimento, gli impedirò di venirmi incontro liberamente, se vuole, e dunque non saprò mai se è “lui” a voler stare con me, o se sono soltanto “io” a non poter stare senza di lui.
Tradire, inoltre, significa dire all’altro: «Io non sono sempre come tu mi vuoi». Nel libro parli a lungo del tradimento e giustamente fai riferimento anche alla cultura di genere che abbiamo ereditato per cui da un lato c’è Ulisse, che viaggia e incontra varie donne da cui rimane sedotto, dall’altro Penelope, che resta sull’isola di Itaca a difendersi dal desiderio di altri uomini.
Sì, il tema del tradimento è fondamentale per capire l’amore. Giustamente ricordi quel passaggio in cui scrivo che nel tradimento si consuma, benché in forma dolorosa e spesso drammatica, l’indipendenza dell’altro dalle mie aspettative. Tradire ed essere traditi è un modo traumatico di scoprire che l’amore non è un’assicurazione sulla vita o una corrente spontanea di felicità, ma un legame dinamico, libero e per ciò stesso precario. Quanto alla differenza di genere, nel libro, come sai, dedico alcune pagine alle opinioni maschiliste di filosofi come Rousseau e Schopenhauer. L’immagine dell’uomo “farfallone” in giro per il mondo e della donna madre “devota” chiusa nella dimensione domestica, tuttavia, è ormai di maniera, e non corrisponde nemmeno, a mio avviso, al più profondo significato della coppia omerica, che pure conserva gli elementi tradizionalisti e un po’ stereotipati che hai sottolineato. Al di là di questa rigida – e per l’uomo molto comoda – divisione dei ruoli, che vuole il “maschio” tendenzialmente poligamo e la “femmina” tendenzialmente monogama, nel mio libro cerco però di recuperare una certa diversità di vissuto fra uomini e donne rispetto al tradimento. Facendomi aiutare anche dalla letteratura psicoterapeutica, ho voluto mostrare che il “trauma” del tradimento è direttamente proporzionale all’investimento affettivo riversato sul legame, ed è significativo che persino nella prospettiva del “poliamore”, e cioè di un legame in cui la coppia si accorda sulla possibilità di avere anche altri partner sessuali, si faccia fatica ad accettare la poligamia. Ne consegue una certa riabilitazione anche della gelosia, che al di là delle sue contraffazioni patologiche, rimane, come ha scritto il filosofo francese Jean-Luc Marion, “un nobile sentimento ingiustamente calunniato”.
La fine della comunicazione, il parlare solo di cose insignificanti, mai di ciò che si prova è senza dubbio un segno di crisi della relazione amorosa. In questo caso sembrerebbe che persino la recriminazione sia un buon segno, dal momento che dimostra che c’è ancora un’aspettativa nei confronti del partner, e dunque che non si è totalmente indifferenti nei suoi confronti. Come mai avvengono spesso queste dinamiche che portano a sentire estraneo chi abbiamo vicino?
È vero. Sembra che la mancanza di comunicazione sia uno dei principali ostacoli alla “buona manutenzione” di un legame amoroso. Ed è naturale, perché una delle forme più radicali di intimità, forse ancor più di quella sessuale, è quella dialogica e confidenziale, che si esprime nella comunicazione. A proposito della coppia omerica, quando finalmente Ulisse ritrova la moglie Penelope, i due godono il piacere di coricarsi nuovamente insieme, con tutto ciò che questo ritrovarsi intimo comporta: “tutt’e due, quand’ebbero consumato il dolce incanto d’amore, si deliziarono delle parole, e ognuno dei due raccontava”. “Si deliziarono delle parole”, scrive Omero. Non c’è eros senza logos. Perso l’uno è perso anche l’altro. Perché ci si arriva? Non sempre è facile capirlo. Solitamente i legami si inaridiscono perché mentre sono ancora sentiti non vengono coltivati, e perché quando non si sentono più diventa difficile coltivarli senza avvertire forzature o avere la sensazione di voler rianimare un cadavere. Eppure i miracoli, in amore, esistono, come del resto le tragedie. Ciascuno di noi, credo, può raccontare almeno un esempio degli uni e uno delle altre.
Ti faccio un’ultima domanda. Comincio a credere che il nostro desiderio di “avere” un amore assoluto da declinare col per sempre appartenga al bisogno umano di sentirsi indispensabile per qualcuno, quindi sia più una dinamica di rassicurazione o di contenimento di ansie che un lasciarsi andare all’incontro con l’altro senza etichettare, chiudere, sancire, assicurarsi, ma semplicemente per conoscersi e conoscerlo. Forse che l’amore più che essere platonicamente un’idea dovrebbe essere una scoperta?
Dietro il bisogno di amare e di essere amati “per sempre” possono annidarsi, è vero, problemi irrisolti. E il partner, reale o ideale che sia, può sempre diventare o lo specchio del nostro narcisismo o la stampella delle nostre mancanze. Come dici giustamente, una cosa è cercare una compensazione alla propria solitudine, altra cosa è “lasciarsi andare all’incontro con l’altro senza etichettare, chiudere, sancire, assicurarsi”. Proprio questo “lasciarsi andare” all’imprevedibilità sempre viva del rapporto, tuttavia, richiede che si lasci aperta la possibilità al “per sempre”. Anche l’idea che il “per sempre” non esista o sia solo una proiezione del proprio bisogno di sentirsi indispensabili, a ben vedere, è un modo di “chiudere” e di assicurarsi contro le delusioni. E cioè contro la vita, che spesso ci informa che no, non siamo indispensabili. Chi dice che l’amore “è eterno finché dura”, in fondo, cerca assicurazioni, perché sta esorcizzando il rischio di rimanere deluso dalla morte precoce del legame. L’imprevedibilità dell’amore è tale da non poter essere addomesticata. E in effetti ci sono circostanze in cui diciamo “per sempre” con una spontaneità e una naturalezza che fanno riflettere. A cosa è rivolto il desiderio che sia “per sempre”? Al sentimento che si sta provando sul momento, al proprio stato d’animo, al benessere, alla felicità e all’appagamento garantiti dal legame o alla persona con cui si è legati? La differenza è importante. Nel primo caso ci si augura che sia per sempre “qualcosa”, e cioè un proprio modo di sentirsi, al quale ci si aggrappa e a cui non si vuole rinunciare, nel secondo caso, invece, ci si augura che sia “per sempre” non già “qualcosa”, ma “qualcuno”, e cioè proprio lui, l’amato, con la sua voce, il suo odore, i suoi tic, il suo volto e le sue mani. Nel primo caso si ripete qualcosa di intercambiabile, nel secondo caso ci si fissa sull’unicità inconfondibile di qualcuno. Ed è di nuovo la perdita di questo “qualcuno” – perché si ammala, soffre e infine muore – che ci restituisce un “per sempre” altrimenti impossibile. Romeo e Giulietta sono morti mentre si amavano e perché si amavano. Per questo il loro amore non è mai morto e, ancora oggi, è vivo. Il ricordo dell’altro, dell’amore che non c’è più, c’è per sempre.
Biografia
Luciano Sesta insegna Filosofia e Storia nei licei statali ed è docente a contratto di Filosofia Morale e di Bioetica presso l’Università di Palermo. Svolge lezioni di Etica medica presso i master in Cure Palliative e in Discipline Medico-Legali del Policlinico Universitario di Palermo, co-dirige la rivista «Studium Philosophicum» e fa parte del comitato di redazione delle riviste «Anthropologica», «Bioethos» e «Filosofia e teologia». Ha pubblicato numerosi saggi su riviste specializzate nazionali e internazionali.
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