08 Apr EMANUELA CANEPA – INSEGNAMI LA TEMPESTA
INSEGNAMI LA TEMPESTA
Dialogo con Emanuela Canepa
a cura di Erika Nannini
Insegnami la tempesta (Einaudi 2020), ultimo romanzo di Emanuela Canepa, ripercorre la vita di tre donne: Emma e Matilde, rispettivamente madre e figlia, e Irene, l’amica d’un tempo di Emma, la famiglia che non le era capitata in sorte, ma che lei aveva scelto per se stessa e dalla quale si è sentita tradita e abbandonata nel momento di maggior bisogno. È un romanzo che tocca molti temi: la scelta tra genitorialità e aborto, il dolore, il sacrificio, l’accettazione e, certo, la libertà. Coraggio è forse il termine in grado di riassumerli: il coraggio di essere se stessi davanti all’imprevisto, di accettare che non tutto ciò che ci accade dipende dalla nostra volontà, ma farvi fronte, questo sì, è una scelta che ha a che fare con le ragioni profonde del nostro essere. Canepa indaga gli inciampi che impediscono la reciproca comprensione, le zone grigie del non detto, e anche in Insegnami la tempesta, come accade sovente, non basta un rapporto di sangue per creare un canale privilegiato tra le persone e facilitare la comunicazione fra loro. È uno spaccato della vita di tutti noi in quanto figli, forse genitori, e, certamente, parte di quei nuclei familiari che si costruiscono crescendo non per discendenza, ma affinità elettive.
Ho letto questo romanzo come una storia corale per quanto un personaggio principale potrebbe esserci, Emma, eppure senza Matilde sembra che la donna non possa definirsi. La figlia le è necessaria per potersi circoscrivere, rappresenta per Emma l’arto fantasma, quella parte che si continua a sentire anche dopo l’amputazione. È qualche cosa che mi pare trascendere un rapporto tra madre e figlia; la gravidanza indesiderata, infatti, ha avuto ripercussioni sul futuro della donna, ma ha inficiato anche il suo passato e i rapporti che le preesistevano, ha fagocitato ogni aspetto della sua esistenza. Per questo, sebbene Emma combatta tenacemente per salvare il rapporto tra lei e Matilde, ma anche la figlia da se stessa e ciò a dispetto di tutti e tutto, ti chiedo se Emma attraverso Matilde, combatta in realtà per se stessa più che per la figlia.
È esattamente così. Emma combatte per se stessa, per dare un senso alla sua esistenza che, come ben dici, coincide con il ruolo di madre involontaria, se mi passi la contraddizione. La gravidanza per Emma ha rappresentato uno scarto di senso, più di quanto non faccia sempre una decisione radicale di questo tipo. Aver accettato Matilde ha significato per Emma rinunciare a tutto il resto, azzerando la gerarchia delle sue aspirazioni. Le motivazioni di una scelta così radicale sono fondate in parte su ciò che è, e in parte su ciò che teme. E quando Matilde arriva all’età adulta e mette tutto in discussione, Emma inevitabilmente si sente giudicata non solo come madre, ma anche in rapporto al senso stesso della sua esistenza.
Ciò che ci determina dipende solo in parte da una scelta volontaria e consapevole e probabilmente il momento in cui Matilde acquisisce l’informazione d’essere indesiderata appartiene al suo tempo prenatale. È stata per te una possibilità che queste due donne non riuscissero a dialogare perché il corto circuito che le unisce e separa al tempo stesso è un punto nevralgico a cui non hanno accesso?
È un’osservazione molto sottile. Gran parte delle complicazioni che ho affrontato scrivendo questo romanzo sono appunto legate alla tematica dell’incomunicabilità e alla difficoltà di rappresentarla attraverso il codice della lingua, che è una sorta di contraddizione in termini. Le scelte che facciamo sulla base della paura – e molto di quel che fa Emma si muove lungo questa traiettoria emotiva – sono spesso incomunicabili e rimangono confinate in uno spazio che non è solo quello del non detto. Spesso si tratta di un’area inaccessibile e molto al di sotto perfino della soglia della consapevolezza. Emma è una madre che non conosce, e meno che mai sperimenta, la portata della sua paura, e proprio per questo la paura sabota fin dal primo istante la relazione con Matilde, a partire, appunto, dalla fase stessa della gravidanza. Le paure a cui non diamo un nome diventano inaccessibili. E quel che è inaccessibile esercita un potere assoluto sulla qualità delle nostre relazioni.
La perdita che Matilde, e di conseguenza Emma, subisce prima dell’epilogo della storia ha la potenza di un sacrificio propiziatorio. È un evento capace di rimescolare i piani. Se per madre e figlia non è possibile agire su un piano diverso, è la catarsi che può svolgere il compito di mettere un punto al passato?
In realtà non credo di aver voluto mettere un punto alla fine di questa storia. Io stessa sinceramente non so dirti cosa sarà di Emma e di Matilde, e se arriveranno mai a punto di incontro. Allo stesso modo non so come sarebbero andate le cose se Emma e Matilde avessero potuto condividere l’esperienza che invece non fanno. Credo di non avere una risposta precisa da offrire in questo senso, e proprio per questo di aver lasciato in sospeso il finale. Mi piace molto l’idea che ogni lettore provi a inserire le sue coordinate rispetto ai parametri offerti dalla vicenda, e la chiuda nel modo che gli corrisponde meglio. Forse ci tenevo di più a ribadire che se certi livelli di incomprensione e incomunicabilità sono insuperabili, l’amore invece non si spaventa di fronte a nulla. Si può rimanere distanti tutta la vita, certe posizioni sono davvero inconciliabili. Ma per l’amore questo conta solo relativamente. L’amore non è una porta, o un passaggio. È l’anima delle cose. In ogni caso non prevede prerequisiti, meno che mai condivisione di intenti. L’amore è, senza predicati.
Fausto, marito di Emma, è il faro che la tempesta non può abbattere e che sarà ancora lì, alla fine di tutto, a svettare placido sulla schiuma generata dalla violenza del fortunale. Il suo è un ruolo faticoso, opera con un bilancino di precisione per essere sempre alla miglior equidistanza possibile fra madre e figlia, tenendo in considerazione ogni volta costi e benefici. Nel momento in cui si separa da entrambe reagisce alla perdita restando immobile, attendendo che si manifestino. È un personaggio che non forza mai la volontà altrui, ma anzi trova sempre una buona ragione per rispettarla. È un dono, questo, o una condanna?
Credo che Fausto ed io daremmo risposte diverse a questa domanda. Io posso dirti che per me è il dono assoluto, la condizione che permette a una relazione di dispiegarsi in tutto il suo potenziale: non permettere mai alla nostra paura di bloccare il volo dell’altro. Però Fausto lo conosco bene. So anche da dove viene, e tutta una parte della sua vita, che avevo immaginato nel dettaglio, non è entrata nel libro perché i romanzi funzionano così e il loro spazio non è infinito. Rispetto alle traiettorie di trama che crei, entrerà solo quello che è attratto gravitazionalmente dalla vicenda principale. Ma io so che la scuola di Fausto è stata molto dolorosa, e raggiungere quel tipo di perfetto controllo emotivo gli è costato caro. Per cui forse lui sarebbe meno entusiasta di me nel descriverti la medesima qualità per cui io l’ho amato molto, e ne ho fatto il cardine della famiglia.
Irene, suora di clausura, è il personaggio che più di tutti ci parla di libertà, o, almeno, poiché sollecitato, lo fa in maniera esplicita. È corretto dire che tutti i tuoi personaggi rappresentano una diversa forma di libertà e che lottano tutto il tempo per raggiungerla o, in alcuni casi, accettarla? Penso al rispetto, all’autodeterminazione, all’accettazione dei propri bisogni.
Credo che le mie storie, in ultima analisi, parlino sempre e solo di questo. La scoperta di sé, il riconoscimento della propria natura e dei propri bisogni a dispetto di qualsiasi influenza esterna. Perché questa, a mio parere, è l’unica definizione possibile di libertà. E comunque l’unica condizione in cui puoi esercitarla.
Alla fine del libro, Emma si presta a un esperimento scientifico che ha lo scopo di tradurre i pensieri in immagine. Mentre descrivevi il quadro che si andava formando ho pensato ai cieli di Van Gogh, in specie “Notte stellata”. C’è stato uno spunto, un’immagine che effettivamente hai tenuto vicino mentre preparavi quella scena?
Non pensavo esattamente a Van Gogh ma era quel tipo di esplosione cromatica che avevo in mente. Il mio modello preciso però è stata la tela che rappresenta l’esito finale di un esperimento che ho fatto un paio di anni fa. Non c’è nulla di inventato, accade proprio come lo descrivo nel romanzo. È un servizio offerto da una start up di giovani ingegneri di Cesena, si chiama BrainArt, ed è un’esperienza davvero molto interessante. Osservi la trasposizione per immagini dell’andamento delle tue onde cerebrali sollecitate da una particolare emozione. Ha qualcosa di profondamente lirico, quasi toccante.
Facciamo entrambe lo stesso lavoro, per quanto immagino che lo svolgiamo in maniera molto diversa, se non altro perché la mia è una biblioteca di pubblica lettura, la tua è universitaria, io lavoro da sola, tu fai parte di uno staff. È per me un’esperienza totalizzante e, in quanto tale, spesso esige un prezzo altissimo che assume la forma di tutte le mie energie fisiche e mentali. Che cosa significa per te essere una bibliotecaria, in particolar modo in questo ultimo anno così complicato? E che ruolo ha questo lavoro nella tua scrittura? È un elemento che in qualche modo l’ha determinata?
In passato ho vissuto anni di grande entusiasmo per la mia professione, adesso però la guardo con un certo distacco. Prima di tutto perché non credo che si dovrebbe mai fare lo stesso lavoro per più di una decina d’anni, e in secondo luogo perché ho perso molte delle ambizioni che avevo. L’’information literacy oggi è una tale priorità che pensavo che nel tempo avrebbe avuto un grado di penetrazione più radicale, almeno all’università che è per definizione il luogo a cui attribuiamo il progressivo affilarsi della nostra conoscenza in qualsiasi campo (nel nostro Sistema Bibliotecario ci occupiamo soprattutto di questo: mettere gli studenti in condizione di interrogare le risorse digitali e trovare le informazioni di cui hanno bisogno).
E invece non ho visto nessun significativo progresso in questi ultimi dieci anni. La percentuale di studenti che riusciamo ad avvicinare e a formare è rimasta sostanzialmente inalterata, cosa che trovo piuttosto demotivante.
Il grandissimo privilegio che mi offre il mio lavoro invece – e che sto sperimentando soprattutto in questi mesi, nel corso dei quali ho finalmente trovato il coraggio di occuparmi di un romanzo storico, come desideravo fare da anni – è la competenza nella ricerca bibliografica, oltre che l’accesso diretto a moltissime fonti.
“Libera?”
“Sì. In un modo che non coincideva con l’idea che mi ero fatta della libertà fino ad allora.
La possibilità di andare, partire, spostarsi. L’assenza di vincoli.
Quella che provavo invece era una una cosa che aveva a che fare con la mia natura.
La libertà di essere totale. La libertà di non coincidere con niente, di non venire definita da nulla.
È come un volano, trattiene il tuo corpo tra queste mura, mentre lo spirito può essere ovunque, focalizzato solo sul volo”.
Biografia
Emanuela Canepa è nata a Roma dove si è laureata in Storia Medievale, e vive a Padova dal 2000. Lavora come bibliotecaria per l’Università e si occupa di assessment in psicologia. Nel 2017 ha vinto la XXX edizione del Premio Calvino con il romanzo L’animale femmina, pubblicato da Einaudi Stile Libero ad aprile del 2018. Nel 2020 è uscito il suo secondo romanzo, sempre per Einaudi Stile Libero, Insegnami la tempesta.
Gian Paolo Grattarola
Posted at 05:19h, 10 AprileComplimenti ad Emanuela Canepa per il libro che ho molto apprezzato. E congratulazioni ad Erika Nannini per l’arguta sottigliezza delle sue domande con cui ha consentito all’autrice e a noi lettori di portare in luce aspetti che nel corso della lettura non eravamo stati in grado di cogliere. Grazie e buon lavoro ad entrambe.
Gian Paolo Grattarola