23 Apr La fotografia di Giovanni Chiaramonte
La fotografia di Giovanni Chiaramonte
di Ivana Margarese
Immagini fotografiche di Giovanni Chiaramonte
Fotografo e intellettuale di grande respiro, Giovanni Chiaramonte è stato anche ideatore di collane di libri e fondatore, insieme a Luigi Ghirri, della casa editrice “Punto e Virgola”. Diversi anni fa ho avuto il piacere di frequentare le sue lezioni di Storia della fotografia all’Università di Palermo, immerse in un’atmosfera al contempo di vivacità e raccoglimento. L’immagine fotografica nell’opera di Chiaramonte ha come tema principale l’incontro tra luogo e destino nella civiltà occidentale ed è una ricerca attenta e profonda sull’origine. Ho dialogato con lui tentando di ricostruire il suo percorso artistico e di avvicinare la sua poetica e il suo sguardo.
Hai una tua definizione di fotografia?
Riflesso speculare del mondo fermato in un istante.
Come è nata la passione per lo sguardo fotografico?
Ho trascorso un’infanzia e un’adolescenza guardando film al cinema, comprendendo via via come alcuni temi e problemi drammatici della mia vita fossero rappresentati e resi comprensibili nella verosimiglianza dei gesti nei corpi fissati nelle sequenze cinematografiche.
Memoria, esperienza e poesia sono le parole che userei per mettermi in cammino verso le tue immagini. Potresti dirmi qualcosa al riguardo?
Ancora una volta devo ritornare al tempo dell’infanzia e dell’adolescenza trascorsi tra Milano e la Sicilia. Solo nelle prose di Parini, Stendhal, Manzoni mi erano date le parole per definire i miei sentimenti quando attraversavo certi luoghi tipici di Milano. Così, soltanto nelle poesie di Quasimodo mi era data la possibilità di comprendere e trovare il senso delle mie giornate passate sulle spiagge di Gela, dove tutti i tempi della storia erano visibili, da quelli dell’antica Grecia dorica di Caposoprano, alla raffineria che toccava una mia tenuta tra le dune di sabbia e i boschi di eucalipto.
I tuoi genitori sono siciliani e alcuni momenti del tuo percorso di fotografo sono legati alla Sicilia. Io stessa ho avuto la gioia di assistere alle tue coinvolgenti lezioni a Palermo, capaci di aprire spiragli nuovi e idee con grande divertimento. Qual è il tuo legame con l’isola e con la sua luce, dolce?
Il legame più profondo è per l’appunto il modo con cui il popolo di Gela viveva la propria esistenza sulla scena della strada, un legame comune tra corpo parola gesto e pietra nell’abitare. L’esperienza più toccante della luce in Sicilia è stata quella del lungo meriggio che dal mezzogiorno s’inoltra verso il pomeriggio prima del crepuscolo: una luce potente che chiudeva e persone nelle case e che filtrava dalle persiane, ponendo una relazione costante tra l’apertura del giorno e l’oscurità chiesta dall’ascolto e dalla quiete.
Parliamo del “paesaggio” e di ciò che può insegnarci.
Ciò che io so e ho vissuto e ho rappresentato del paesaggio l’ho imparato nelle estati della mia infanzia, in cui preferivo trascorrere gran parte dei giorni con mio zio che seguiva il grande giardino di agrumi nella tenuta di Bulala, separata dal mare solo da un bosco di eucalipti. Essendo piccolo, il mondo in cui vivevo era davvero legato alla superficie della terra e alle dune di una sabbia finissima che permetteva di giocare con le creature del bosco e di rotolarsi senza mai sporcarsi, coincidendo sempre col calore che la sabbia tratteneva e restituiva. Il mio rapporto con il paesaggio si è formato in questa esperienza di accoglienza, di benevolenza e di unità. Come tutti i bambini, amavo scavare buche, da cui quasi sempre emergevano frammenti in ceramica, vasi o piatti greci. La presenza poi delle antiche mura della città greca appena riportate alla luce mi permetteva di rievocare nei giochi le vicende degli eroi omerici che dovevo studiare per la scuola. Quindi, il mio primo rapporto col paesaggio è stato vissuto in una terra in cui visibile era ancora il tempo antico, contemporaneamente era però ineludibile l’incontro con la storia della Seconda Guerra Mondiale e dello sbarco in quella parte di Sicilia delle truppe americane. La sacca e il salvagente che usavo quando andavo a fare il bagno in mare erano quelli lasciati dai marines sul litorale dopo lo sbarco nel luglio del 1943. Nella piana di Gela erano ancora presenti scheletri di aerei, camion, carri armati e soprattutto un piccolo cimitero di guerra dove gli alleati avevano seppellito i soldati morti nello sbarco. Questa complessa esperienza mi ha sempre inconsapevolmente guidato nel mio modo di guardare i luoghi e di scegliere i punti e le inquadrature delle mie immagini. Solo attorno all’anno 2000, studiando un libro dell’antropologo René Girard, ho scoperto che le parole paesaggio, paesano, paese derivano dalla radice indoeuropea che indica l’atto di seppellire e di coltivare.
Ti chiedo, se puoi, di raccontarmi una fotografia a tua scelta.
Come fotografia capace di rivelare la ragione e il modo con cui fotografo, scelgo quella scattata nel 1990 nel parco esoterico di Bomarzo, un luogo in cui sono passati molti dei più autorevoli fotografi del XX secolo. Per questo i monumenti più significativi di quel luogo li conoscevo già per immagini. Io quindi ho cercato punti e inquadrature nuovi e diversi dai precedenti che ingombravano la mia memoria. Lavorando sul cavalletto, con un teleobbiettivo mi sono messo a scrutare lentamente il famoso mascherone di pietra con la bocca aperta, cercando un elemento visivo capace di farmi scattare un’immagine significativa. Dopo un tempo lungo abbastanza da innervosirmi per non avere ancor trovato un punto di vista personale, scorsi nella piccola grotta che si apriva buia dentro la bocca aperta un sedile di pietra ricoperto di muschio. Abbandonando subito la fotocamera sul cavalletto, entrai in quel vuoto buio e mi misi a sedere. Passò ancora un tempo abbastanza lungo perché la mia schiena e le gambe si ritrovassero interamente bagnate, ma finalmente nello sguardo si spalancò la visione: quel grande mostro di pietra non doveva essere visto dall’esterno, ma chiedeva all’osservatore di essere inghiottito dalla sua bocca, perché solo da lì si poteva fare esperienza della morte che tutto ingoia nel proprio buio. Rimanendo ancora a lungo, questa esperienza negativa si mutò nel suo contrario: era come se il mio volto coincidesse con quello del mostro nei cui occhi si apriva lo splendore della natura all’esterno. Purtroppo l’editore non volle pubblicare quella fotografia, rimanendo quindi nel mio archivio personale, diventando la copertina del libro Nascosto in prospettiva, in cui ho pubblicato le immagini più significative del mio abitare il paesaggio italiano.
Vorrei infine mi consigliassi un libro tra i tanti che hai amato.
Mirrors messages manifestations di Minor White edito da Aperture e di cui potete leggere la mia esperienza nel volume Nuove visioni. I grandi libri della fotografia edito da Contrasto.
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