11 Mag Clarice Lispector: Acqua viva
Clarice Lispector: Acqua viva
di Ivana Margarese
È tutto uno scrosciare, spruzzare, sgocciolare, scorrere.
I giorni passano. Ci addormentiamo e ci risvegliamo
con il rumore della pioggia sul tetto.
Maja Lunde, Storia dell’acqua
Acqua viva (Adelphi, 1973) è l’ultimo romanzo di Clarice Lispector, considerato da molti come il suo capolavoro. L’opera ha come protagonista una pittrice che si rivolge a un amante perduto o comunque oramai assente. Attraverso il flusso di parole il lettore si immerge a poco a poco in una scrittura che cerca di restituire una narrazione che invoca libertà da forme preordinate:
Inutile volermi classificare: semplicemente sfuggo via senza permetterlo, il genere non mi imprigiona più.
Una scrittura densa e frammentaria, fatta di proposizioni brevi e prevalentemente legate per paratassi. Una scrittura che spesso assume la forma del discorso indiretto libero, cioè di una mistura tra il dire e il pensare. La visione della forma pittorica fa parte dell’esperienza della scrittrice, che dipinge nel corso di tutta la vita e posa anche per alcuni pittori, tra cui Giorgio De Chirico: “Ti scrivo come esercitandomi negli schizzi prima di dipingere. Vedo parole”. E ancora:“Quando si vede, l’atto di vedere non ha forma… ciò che si vede a volte ha una forma, a volte no. L’atto di vedere è ineffabile. E a volte anche ciò che si vede è ineffabile. Ed è così una certa maniera di pensare-sentire che chiamerò « libertà », tanto per darle un nome”.
Agua viva in portoghese significa anche medusa, organismo trasparente e metamorfico. Viene in mente la medusa immortale, Turritopsis nutricula, che fa ritorno dopo essere stata adulta allo stato di polipo. Si dà una nuova nascita.
Questo vivere in costante trasformazione appartiene alla stessa biografia di Lispector, che nata nel 1920 da una famiglia ebraica a Chechelnik, un piccolo villaggio dell’attuale Ucraina, già ad appena due mesi viene costretta a trasferirsi con la sua famiglia in Brasile, per fuggire dalle persecuzioni antisemite. Qua il suo nome da Haia Pinkhasovna diviene Clarice Lispector. Intorno ai sette anni Clarice comincia a scrivere racconti ma vive una prima delusione quando la redazione del quotidiano di Recife, il Diario de Pernambuco, rifiuta le sue storie ritenendole manchevoli di trama. Lei stessa in seguito riconoscere il fatto che «nessuna raccontava come si deve una storia con i fatti necessari a una storia».
La sua infanzia è segnata dalla malattia e dalla paralisi della madre. Alla sua morte, nel 1930, Clarice ha appena nove anni. Dieci anni dopo muore anche il padre, a causa di una complicazione durante un intervento chirurgico, e Clarice si ritrova senza genitori.
A soli ventitré anni pubblica il suo primo romanzo, Vicino al cuore selvaggio (in Italia pubblicato da Adelphi con traduzione di Rita Desti), e sposa il diplomatico Maury Gurgel Valente, i cui molteplici incarichi in giro per il mondo le offrono la possibilità di viaggiare e conoscere realtà differenti: trascorre quindici anni tra Europa e Stati Uniti soggiornando a Berna, Napoli, Torquay, Washington e Roma.
I più importanti critici letterari brasiliani accolgono il suo esordio letterario con grande favore, accostando la sua scrittura a quella di James Joyce e di Virginia Woolf, sebbene Lispector dichiara di non conoscere bene né l’uno né l’altra (seppure Joyce sia citato in esergo al romanzo: «Era solo. Era abbandonato, felice, vicino al cuore selvaggio della vita»).
È con un’allegria così profonda. È un tale alleluia. Alleluia, grido, alleluia che si fonde con il più oscuro ululato umano del dolore della separazione ma è un grido di felicità diabolica. Perché nessuno mi tiene più legata. Sono ancora capace di ragionare – in altri tempi ho studiato matematica che è la follia del ragionamento – ma ora voglio il plasma… voglio nutrirmi direttamente della placenta. Ho un po’ di paura: paura di lasciarmi andare perché il prossimo istante è l’ignoto. Il prossimo istante lo creo io| O si crea da sé| Lo creiamo insieme con il respiro.
Questo l’incipit di Acqua viva. Un andirivieni di gioia e paura, alleluia e dolore, separazione e nutrimento, tessuti insieme dal respiro. Un faticoso stare al passo con il fluire degli istanti. La lettura segue una sorta di flusso di coscienza dal tono intimo. La voce narrante è quella di un’artista che continuamente domanda e dialoga con un ipotetico interlocutore vivo nell’assenza. C’è un costante interpellare l’altro, che si è amato, per cui si scrive, che sta leggendo: “Tu che mi leggi, aiutami a nascere”. C’è il tentativo di rappresentare una nuova nascita con tutta la fatica del travaglio, il buio, la luce, la volontà, la pulsione. Magma composito che cerca di restituire la vita:
Sono sul punto di morirmi e di formare nuove composizioni. Mi sto esprimendo molto male e le parole giuste mi sfuggono. La mia forma interna è finemente depurata e tuttavia la mia unione con il mondo ha la nuda crudezza dei sogni liberi e delle grandi realtà. Non conosco il divieto. E la mia stessa forza mi libera, questa vita piena che da me straripa. E non pianifico nulla nel mio lavoro intuitivo di vivere: lavoro con l’indiretto, l’informale e l’imprevisto.
La lingua di Lispector è inafferrabile, difficile da definire, è avvicinare il linguaggio mentre si va facendo : “Io mi sto creando. E camminare nella completa oscurità alla ricerca di noi stessi è quello che facciamo. Fa male. Ma è dolore di parto: nasce una cosa che è”.
Lispector si mostra, si espone, si abbandona. Ascolta e cerca di restituire ciò che ascolta col coraggio di resistere alla tentazione di inventarsi una forma:
Non mi piace quello che ho appena scritto – ma sono costretta ad accettare tutto il pezzo perché mi è accaduto. E rispetto molto quello che io mi accado . La mia essenza è inconsapevole di se stessa ed è per questo che ciecamente mi obbedisco.
Potrebbe sembrare un elogio del non-logico, con i suoi riferimenti all’inconsapevole e al cieco, ma a dispetto di ciò la scrittura di Lispector è misurata, equilibrata, sembra schiudersi lentamente e con grazia.
Una lingua-intuizione, una parola poetica, che procede per lampi, gorgoglìi, interruzioni e confluenze e fa dell’essere relazione il suo luogo di espressione. Scrive Adriana Cavarero in A più voci: filosofia dell’espressione vocale (Feltrinelli, 2003):
I codici che organizzano l’io e il discorso si rompono sotto l’onda di un flusso vocale nel quale qualcuno ride, piange, grida e respira, cantando nella scrittura l’avvento della sua disorganizzazione.
Anche Hélène Cixous, che apprezzava profondamente Lispector, ha sottolineato come nel suo scrivere lo scambio, la relazione, il dono siano più importanti dell’affermazione solipsistica e della sopraffazione. In L’approccio di Clarice Lispector Cixous scrive:
Questa donna, nostra contemporanea, brasiliana (nata in Ucraina, di origine ebrea), ci dà non dei libri, ma il vivere salvato dai libri, dai racconti, dalle costruzioni repressive. E noi entriamo, attraverso la sua scrittura-finestra, nella terribile bellezza di imparare a leggere: andando, attraverso corpo, dall’altra parte dell’io.
E ancora, cogliendo un aspetto assai importante dell’opera di Lispector:
Riuscire a pensare che la solitudine è non aver bisogno, che aver bisogno già da adesso significa rompere la solitudine, è la suprema lezione di umiltà, in cui la sete in sè stessa già rinfresca, poiché avere sete è darsi all’esperienza, decidersi a bere, ad aprire la porta.
Aver bisogno è tendere spiritualmente la mano all’altro, e tendere non è chiedere, è salutare il mondo, dar luogo. Aver bisogno è un fiducia muta. È una forza.
Scrivere è per Lispector un esperimento profondo, un’immergersi all’interno di se stessa per andare al di là di sé, un venire alla luce attraverso un lento dolore, un senso costante di scoperta: “vado avanti senza sapere dove tutto ciò mi porterà”. L’incontro con l’Altro, così fortemente cercato, sembra vivere nel mancarsi, nell’attenzione a custodire un’assenza:
Guardami e amami. No: tu guardi te stesso e ti ami. È quello che è giusto.
Ciò che ti scrivo va avanti e io sono stregata.
Bibliografia
Adriana Cavarero, A più voci: filosofia dell’espressione vocale, Feltrinelli, 2003;
Isabella Cesarini, Con la parola vengo al mondo. Bellezza e scrittura di Clarice Lispector, Tuga edizioni 2021;
Hélène Cixous: «L’approche de Clarice Lispector – Se laisser lire (par) C. L.» Université de Paris VIII
Luisa Muraro: «Commento alla passione secondo G. H.» nella rivista DWF N° 15 ed. Utopia Roma
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