Elémire Zolla: Dal tamburo mangiai, dal cembalo bevvi…

Elémire Zolla: Dal tamburo mangiai, dal cembalo bevvi…

 

di Ivana Margarese

 

 

«Tutto ciò che è visibile deve superare se stesso addentrandosi profondamente anche nell’invisibile» 

Il crogiolo, dal cinquantesimo Libro dei mutamenti

 

Elémire Zolla è figura complessa del panorama culturale italiano. Scrittore e saggista, accademico, studioso di fama internazionale e fondatore della rivista “Conoscenza religiosa” (1969-1983).
La scrittura di Zolla non si concede a facili strizzate d’occhio e conduce il lettore a un processo attento e vigile di comprensione, costringendolo a un rigore che diviene paziente esercizio sui temi di indagine.
Quest’anno, che si avvicina la ricorrenza del ventennale della sua morte (2022), in Italia l’editore Marsilio ha pubblicato, con la curatela di Grazia Marchianò, una raccolta di saggi dal titolo “Dal tamburo mangiai, dal cembalo bevvi…”. L’espressione è scelta dall’autore ed è tratta da un testo, celebre nell’età imperiale romana, di Giulio Firmico Materno, L’errore delle religioni pagane, nato con l’esplicito intento di mostrare l’errore della religiosità pagana e la costitutiva verità del cristianesimo. Firmico sottolinea l’uso nei riti pagani di formule sacrileghe come “dal timpano ho mangiato, dal cembalo ho bevuto”, laddove il solo cibo capace di elargire salute e vita e rendere immortali non può che essere Cristo.
Questa formula, a osservare più attentamente, allude a un rito misterico in cui vengono a legarsi insieme elementi materiali che fanno riferimento al corpo, al cibo e alla nutrizione e elementi di armonia simbolica, riferiti a un alimentarsi di ordine spirituale. “Come in basso così in alto” è una massima ricorrente nella saggezza misterica. E nel Talmud si dice: Sarebbe bene che non fosse mai nato colui che medita su quattro cose: ciò che sta sopra e ciò che sta sotto, ciò che è prima e ciò che è dopo.
Non a caso l’immagine riprodotta in copertina nel saggio raffigura la pittura di un tamburo sciamanico indiano d’America dove la fila di otto tamburi sintetizza le tappe del viaggio immaginale dalla terra al cielo. Nella sensibilità antica inoltre il sacrificio era affine al dono e alla festa e privo del senso di colpa suscitato dall’azione dell’uccidere per procurarsi il cibo: 

 

Tamburo e cembalo sono pelli di animali sacrificati la cui voce vibrante si trasforma in alimento quindi in forza procreatrice. La vita spirituale è infatti l’opposto dell’istinto di conservazione che esige il cibo come necessità primaria […] Esiste una serie di immagini che si convertono l’uno nell’altra: tamburo, barca, ruota, ali, eros, spirito, acqua, seme: esse indicano opposizione all’opposizione, perciò sottrazione alla schiavitù o gravità terrestre […]. Tutti i miti insegnano che l’uomo deve cercare il contrario di ciò che vuole: morte, perché desidera vita immortale.

 

Il sottotitolo scelto per la raccolta di questi saggi è “Lo stato mistico e altre questioni di antropologia spirituale” ed è allo stato mistico come norma dell’uomo che è dedicata la prima parte del saggio. Zolla offre una approfondita indagine sui significati e le definizioni di “mistico”, sottolineando anche come oggi la psicoanalisi, che grande influenza ha assunto nella nostra cultura, abbia finito per leggere la condizione mistica come stato di malattia o regressione all’infanzia, alla fase oceanica o al piacere della lattazione:

Il fatto è che i mistici incarnano proprio ciò che la psicoanalisi addita a modo suo per esclusione, elencando aspetti di immaturità patologica come l’incapacità di adeguarsi alle norme, di adattarsi a ciò che si ritiene debba essere normativo.

 

Secondo lo scrittore questo procedere per esclusione, proprio di un presunto atteggiamento scientista, tuttavia impedisce di cogliere gli aspetti di affinità tra lo stato mistico e la terapia psicanalitica, entrambi intenti a scardinare la personalità corazzata, preoccupata della propria immagine, incapace nel suo produrre percezioni distorte e irreali di cogliere le cose come sono. La conoscenza della realtà attraverso segmenti e divisioni allontana dalla comprensione e dallo stupore per la realtà tutta, dove il senso della meraviglia si riferisce non soltanto a ciò che vediamo, ma al contempo all’atto del vedere e a noi stessi che vediamo e siamo stupiti di questa facoltà. Come sottolineato da Marchianò nell’introduzione, lo studioso fa proprio il monito del saggio ebreo: Guai a colui che senza possedere un cortile ne costruisce il cancello come se lo avesse.
Al contempo Zolla nel suo testo intreccia insieme sapientemente varie tradizioni religiose – la pluralità di fedi e di strade viene considerata effetto di strabismo – rifacendosi al significato letterale del verbo latino religare “unire”. Nelle parole di Grazia Marchianò, Elémire Zolla è, con una espressione capace di coniugare la saldezza della contemplazione e il movimento del viaggio, “intimo pellegrino del mondo”. Occorre un salto controcorrente, come quello che fa il salmone, simbolo della conoscenza esoterica nella mitologia norrena, per avvicinarsi al suo pensiero, ovvero un aggiramento delle apparenze sensibili, un passare dall’esperienza vissuta all’esperienza originaria. Mystes in greco è chi ha silenziato se stesso.
Uno dei paragrafi della prima parte viene dedicato da Zolla al misticismo come acusticitá, come conoscenza acustica del reale. L’autore induce a riflettere sia sul dominio che ha assunto la conoscenza discorsiva e sia sul valore che nella cultura occidentale è stato attribuito alla vista rispetto a tutti gli altri sensi già con Aristotele, che prende distanza dal pitagorismo che aveva professato la natura acustica della realtà. È noto come invece per gli Ebrei conoscere sia essenzialmente udire. Tuttavia poiché la conoscenza non risiede nelle separazioni è bene tenere a mente secondo Zolla quanto esplicita un detto cinese: Il vero saggio ode con gli occhi e vede con le orecchie.
Questa attenzione al suono e alla capacità di sacrificio come dono offre anche un collegamento con un verso di Hölderlin, annoverato tra le sensibilità mistiche insieme, tra gli altri, a Kierkegaard e Emily Dickinson, contenuto nell’Empedocle:

Il sacerdote […] vivente canto/

come sangue di vittima in letizia/

sparso […] offriva.

La seconda parte del testo è dedicata a “Esoterismo e Fede” e la terza a “Alchimia e meditazione taoiste e buddhiste”. Infine nel testo in appendice un breve scritto intitolato “Il cielo scritto” in cui l’autore argomenta su astrologia e sistemi zodiacali. Nelle pagine precedenti Zolla osserva come nel mondo zodiacale il negativo non venga occultato o represso, ma piuttosto non si concepisca alcuna cosa se non in relazione alla sua ombra o viceversa alla sua luce. Secondo lo studioso chi desidera comprendere una civiltà deve osservare come cadenza l’anno ovvero analizzarne lo zodiaco, che si rivela essere “il sésamo apriti dei cancelli che la storia sembra averci sbarrato”.

Giusto de’ Menabuoi sec. XIV, Creazione della terra

 

Lo zodiaco può essere letto come un grande paesaggio visionario in cui gli elementi si compenetrano:

Nel Paesaggio visionario si compenetrano le tre sfere concentriche: dell’anno, del mese, del giorno, ed ugualmente le tre parti in cui ognuna delle sfere si divide: nell’anno – il tempo equinoziale e i solstizi d’estate e d’inverno; nel mese – la falce di luna, luna nuova e luna piena; nel giorno – l’arco diurno, il crepuscolo e la notte.

 

Zolla usa il ragionamento come un grimaldello per scardinare le facili credenze che racchiudiamo in definizioni e rigide categorie. In queste pagine l’autore cita più volte Simone Weil e il suo richiamo alla sofferenza come enigma insolubile che sollecita gli uomini all’abbandono e alla trasformazione. Attraverso la pratica della compassione che alimenta la sua lucidità di pensiero, Zolla appare affine anche a un altro pensatore nomade: Walter Benjamin. L’opera del filosofo ebreo-tedesco, affascinato dalle corrispondenze, nello specifico dalle connessioni tra l’elemento spirituale e la sua manifestazione materiale, dal filo nascosto che tiene uniti gli elementi della realtà, ci mostra, in maniera quasi alchemica scrivendo di storia, aura e costellazioni,  le vicinanze tra ciò che presumiamo lontano. In una lettera del 29 maggio 1926 indirizzata a Gershom Scholem, Walter Benjamin scrive: “Il mio atteggiamento mentale attuale si dà a riconoscere piuttosto come un tentativo di abbandonare la sfera puramente teoretica. Ciò è possibile, a livello umano, solo in due forme, nell’osservanza religiosa o politica. Non posso ammettere una differenza fra queste due osservanze, nella loro quintessenza. Ma neanche una mediazione. Parlo qui di un’identità che si rivela solo nel paradossale rovesciarsi dell’una nell’altra”.
Anche lo sguardo di Zolla, seppure in ambiti differenti di indagine, è rivolto ai rovesciamenti e alla trama archetipica del reale:

Le singole, svariate realtà, che altro sono se non il loro ritmo? Invece di scrutare d’attorno con l’occhio penetrante dell’odio, con la lucidità della volontà di potenza, si affini la discriminazione dei ritmi, si senta il polso delle cose, ravvisando la forza invisibile che le regge, il loro archetipo.

 

Il labirinto, figura archetipica del mito, corrisponde all’interno dell’orecchio, dove circola il suono per far risuonare il tamburo auricolare, tanto che se l’uomo vuole risalire al ritmo e alle origini sonore del mondo deve attraversare il labirinto e rischiare di perdersi.
Il poeta greco Archiloco in celebri versi scrive: λλ χαρτοσίν τε χαρε κα κακοσιν σχάλα / μ λίην, γίνωσκε δ’ οος υσμός νθρώπους χει (ma gioisci di quanto rallegra e rattristati per le sventure/senza eccesso; riconosci il ritmo che regola l’uomo). La lettura dell’opera di Zolla invita alla pazienza e al ritorno. Il paesaggio delineato dalla sua scrittura è più chiaramente intellegibile man mano che torniamo a rileggere, sostiamo sui pensieri, ci diamo il tempo di interrogarli e immaginare contatti possibili. Zolla insegna l’arte pontificale, la visione di chi stabilisce un ponte tra due sponde, tra implicito e esplicito, esoterico e essoterico. È nel visibile, e non altrove, che si deve cercare l’invisibile: “per attingere al soprannaturale è necessario ci si rappresenti il naturale”.

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