29 Lug Non siamo che alberi
Non siamo che alberi
Intervista a Filippo Ferrantini
Immagini fotografiche di Elisa Bresciani
a cura di Ivana Margarese
Non siamo che alberi. Storie della storia del bosco è un saggio edito da effequ e scritto da Filippo Ferrantini, biologo e guida ambientale, con fotografie di Elisa Bresciani. Il libro si interroga su quali caratteristiche abbiano in comune uomini e alberi: per ogni pianta, nota l’autore, è possibile riconoscere un carattere specifico, proprio come per ogni persona.
Osservare questi aspetti può aiutare a capire molto di noi umani. Le storie sono inoltre corredate da note e intrecciando insieme racconto e spiegazione scientifica danno modo a noi lettori di comprendere di più noi stessi e di ciò che ci circonda.
Comincio col chiederti da cosa nascono il titolo Non siamo che alberi e il progetto di questo libro.
Il titolo, in realtà, nasce da una felice idea della casa editrice, che ha pensato a una sua doppia valenza: se lo si legge dal punto di vista umano fa funzionare il gioco della somiglianza tra essere umano e albero; ma anche, se letto dal punto di vista degli alberi, sono loro che ci dicono di piantarla con le sovrastrutture e di non considerarli più di quel che sono. C’è poi una nota sul sottotitolo, che prima era ‘viaggio nel bosco degli uomini’ e ora è diventato ‘storie della storia del bosco’: proprio perché era necessario sottolineare, con la citazione del classico libro per giovani Storie della storia del mondo, il carattere mitologico degli alberi; e poi perché appunto era necessario marcare un’ulteriore distanza dall’antropocentrismo, cosa che il libro già fa ma il sottotitolo non faceva.
Il libro è una rapsodia di racconti nati, liberi, durante un progetto curato da me e la fotografa e guida ambientale Elisa Bresciani, di escursioni didattiche in Macchia Lucchese, dove l’idea era quella raccontare e far percepire come vivi quegli elementi del paesaggio onnipresenti ma spesso ignorati che sono gli alberi.
Non siamo che alberi porta in epigrafe questa frase “In tempi passati, alberi e uomini erano buoni amici”, tratta dal film Il mio vicino Totoro del regista giapponese Hayao Miyazaki. È anche in qualche misura un omaggio ai suoi film?
Anche in questo caso, dietro l’esergo c’è la manina della casa editrice, evidentemente un fan dello studio Ghibli… In ogni caso, la via shintoista che, a dir poco, permea profondamente tutta l’opera di Miyazaki non può che andare d’accordo con questo tentativo di dare una voce e un’immagine a questi kami fronzuti che popolano i nostri boschi. Naturale che anche a me sia piaciuta subito.
Vorrei parlare con te della farnia, grande e nobile quercia, che con i suoi tratti fieri somiglia a qualcuno di noi: “La farnia è il primo della classe, perché è giusto e perché ci crede, anche se gli costa le buggerate dei lecci, le infestazioni dei parassiti, le lodi vili e imbarazzanti dei professori. La farnia è la ragazzina riccia, la più carina di tutte, a cui toccano invidie e gelosie, ma che non farà una colpa dell’essere com’è. La farnia è l’atleta favorito, che non importa quanto abbia già vinto, correrà sempre per il podio, a rischio di perder tutto e deludere tutti. Le grandi querce, si diceva, a oggi sono rare. Ci vuole forza, ci vuole rigore, ci vuole lealtà. E ci vuole, soprattutto, di credere in ciò che si fa, nel perché lo si fa. E non arrendersi mai. Quanto possa essere difficile, solo una farnia lo sa. Potete provare a chiedere a lei, se l’incontrate. Ma prima, prego, giù il cappello”.
Queste parole mettono in luce la forza che occorre per essere ciò che si è e, nonostante amarezze e ostacoli, continuare a fare del proprio meglio per esserlo. Utilizzi inoltre, raccontando di quest’albero, il termine “lealtà” per cui ti chiedo di accompagnarci a comprendere meglio la lealtà attraverso gli alberi.
La natura dell’albero è di per sé leale. Un albero non si sposta, non può nascondersi, non può sottrarsi. Non ha sotterfugi, non può che combattere in prima linea tutte le sue battaglie. Ha radici profonde, non abbandona il suo posto. Se ti ci appoggi, non ti tradisce. Onestamente, non riesco a immaginare una rappresentazione più calzante della lealtà, per come la intendiamo noi.
Ti chiedo di parlarmi del farmaco che proviene da un albero particolare, per tutti riconoscibile: il salice.
Il farmaco non è che la banale aspirina, la cui storia è in realtà tutt’altro che banale, visto che ci accompagna dai tempi di Ippocrate, di Erodoto, su su fino ai sumeri cosmogonici, agli egizi indagatori di stelle, fino agli uomini di medicina dei Popoli delle pianure americane. Nella nostra epoca grossa, quei cristalli sottili color del diamante li abbiamo sigillati nei blister assieme a tutti gli altri antinfiammatori – per inciso, quel prefisso anti- così comune nella nostra farmacopea e che ha rimpiazzato il più gentile pro-, è anch’esso indizio dei tempi, dove un farmaco lo vogliamo immaginare combattere anziché portare aiuto. Eppure, neanche la salicina è la vera ricchezza del salice. Non è che un suo sottoprodotto, un mero materiale di scarto che, per l’appunto, è riuscito molto utile alla nostra specie, così come l’ossigeno molecolare che le piante sfiatano ogni giorno non è che l’accettore finale della catena di trasporto elettronica del loro metabolismo, che soltanto per una felice combinazione di enzimi si rivela tanto utile al nostro (ebbene sì, le piante non producono ossigeno per noi animali, si sappia). La vera ricchezza del salice è il salice stesso. E il salice serve per fare altri salici. È tutto qui.
È interessante come questo tuo libro conduca a riconoscere le singolarità che si celano dietro il volto generico di “albero” e come al contempo dietro questa specificità emerga chiaramente il dialogo imprescindibile con altri alberi e con altri elementi del paesaggio a sottolineare come ogni storia individuale non possa che far parte della tessitura di una trama comune, “una storia di storie di alberi”. Da insegnante ho immaginato di poter far leggere questo testo ai miei studenti e vorrei domandarti pensando al contesto dello stare insieme in classe quale forma politica possiamo, a tuo parere, imparare dalla vita degli alberi?
Non penso che ci sia una risposta univoca. La politica è qualcosa di necessario alla sopravvivenza della nostra specie, non delle loro. Fare paralleli introduce necessariamente delle storture. Un conservatore può trovare conferme nella rigidezza incrollabile di un tronco di quercia, un suprematista ispirazione dalle strategie di controllo di piante bellicose come il leccio o il noce – per non parlare del problema delle specie invasive arrivate da altri paesi, come la robinia, che fanno la gioia di qualsiasi difensore della razza. Forse, sarebbe meglio smetterla di cercare di ammantare le nostre decisioni politiche dietro l’egida della Natura, e iniziare a prenderci le responsabilità delle nostre scelte. Abbiamo giustificato il colonialismo e lo sfruttamento sociale con le meccaniche dell’evoluzione darwiniana, la distruzione delle risorse naturali con la fitness della nostra specie, perfino lo sterminio di altre persone con le leggi mendeliane della genetica. Le Scienze Naturali non hanno mai detto niente di tutto questo. Se i tuoi studenti, o chi per essi, leggeranno il libro, vorrei solo che imparassero come vivono gli alberi, non come dovremmo vivere noi ispirandoci a loro. La sola forma politica che un albero conosce è quella di esistere e fare altri alberi. Nulla di più.
“Il bosco è uno dei pochissimi posti dove il paesaggio e i suoi abitanti sono un tutt’uno. Un albero è il bosco e lo abita, definisce l’architettura e al contempo la fa viva, la vive egli stesso, nelle pazienti ripetizioni dei suoi infiniti moduli. Di nuovo, la nostra mente mammaliana sente vacillare quel distinguo troppo animale fra io e non io, fra opera e artefice, fra l’uccello che fa il nido, o il tasso che scava la tana: nel bosco ogni albero è uccello e nido, tasso e tana, abitante e luogo abitato, moltiplicato nello spazio così come i suoi elementi vegetali si moltiplicano nel suo essere frattale”.
Potresti spiegarmi meglio l’“essere frattale”?
Un frattale è un qualcosa che può essere visto a diverse scale spaziali senza che cambi forma. L’esempio di un fiordo norvegese è calzante. Dall’alto si osserva un’insenatura, e via via che ci si avvicina si scoprono, lungo la costa, altre piccole insenature che ripropongono la forma dell’originale, e avvicinandosi a queste se ne scoprono altre, ancora più piccole, della stessa forma della precedente, fino a osservare una miriade di fiordi in miniatura, di pochi centimetri, che riproducono la stessa forma di quello grande dell’inizio. Un celebre esempio vegetale è l’infiorescenza del cavolo romano – ma un qualsiasi albero possiede una sorta di omotetia interna. Un ramo riproduce la forma del tronco, con i rametti che fanno da fronde, e ciascuno di essi, a propria volta, può essere visto come un piccolo tronco con i suoi piccoli rami, e così via fino al rametto più piccolo, microscopico tronco anche lui, che per chioma ha le foglie. Immaginarselo dalla prospettiva di un abitante dell’albero (una formica, o un lichene) aiuta a comprendere. La cosa che ci destabilizza è la sostanziale differenza fra quel tipo di piano corporeo e il nostro – così deterministico, così fissato nelle sue strutture principali, assolutamente uniche, rigidamente ordinate su un piano spaziale prestabilito, leggibile e funzionale ad una sola scala. Forse è per quello che abbiamo tante difficoltà a capire l’essere albero, o a rapportarci con la vita a scale diverse dalla nostra – alla fine, ad accettare il diverso. Chissà. Per fortuna, la nostra mente può lavorare anche in maniera frattale. Forse basta solo sforzarsi un po’ di più.
Ribadisci che un albero è un albero, non un uomo, e che pensarlo attraverso le nostre categorie rischia di snaturarlo. Al contempo immagini che il bosco racconti delle storie, che sia possibile ascoltare e persino leggere. Potresti spiegare meglio come sciogliere questa apparente contraddizione?
Non si può, non è apparente. Osserviamo la luce di stelle morte da secoli. È il paradosso di una natura finita che si sforza di rapportarsi con l’inconcepibile indefinito dei sistemi naturali.
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