06 Ago Luigi Ghirri: note sul paesaggio
Luigi Ghirri: note sul paesaggio
di Santo Eduardo Di Miceli e Ivana Margarese
Nato a Scandiano nel 1943, trascorre l’infanzia e la giovinezza fra Sassuolo e Modena. Qui tiene la sua prima mostra nella saletta di un albergo cittadino nel dicembre del 1972, circa due anni dopo avere iniziato a fotografare come dilettante per alcuni amici artisti che operavano all’interno del Concettualismo e dell’Arte Povera.
L’esperienza fu importante, perché lo indirizza verso una lettura della realtà completamente differente da quella usuale alla fotografia italiana di quegli anni e lo conduce a lavorare intorno al tema del valore ambiguo assunto dalla figurazione fotografica indagando il ruolo che l’immagine va progressivamente assumendo nelle abitudini visive dell’uomo contemporaneo. A questo proposito, uno dei concetti che amava spesso ripetere a quel tempo, era che ormai il mondo non era più conosciuto attraverso l’esperienza visiva diretta, ma mediante la sua riproduzione fotografica. Una mostra alla galleria “Il Diaframma” di Milano lo fa conoscere a livello nazionale nel febbraio del 1974 e, da quel momento, le sue immagini iniziano a circolare per il mondo. Viene scelto da Time-Life come discovery del 1975 e un suo portfolio viene pubblicato dalla rivista statunitense Photography Year. [Aa.Vv. Photography Year 1975, Time-Life Books, New York]
Nel 1979 l’Università di Parma gli dedica una mostra antologica che segna il giro di boa della sua attività fotografica. Nel catalogo, infatti, accompagna le sue ricerche con una serie di riflessioni che lo conducono a riepilogare le sue esperienze precedenti e ad avviare un nuovo percorso, indirizzato questa volta soprattutto alla lettura del paesaggio, un genere che caratterizza la sua produzione degli anni Ottanta.
Durante quel decennio Ghirri organizza anche un’attività intensa di promozione culturale, organizzando alcune mostre collettive a tema, da “Penisola e Viaggio in Italia”, a “Esplorazioni sulla Via Emilia” a “Giardini in Europa”, che contribuiscono decisamente a modificare la lettura fotografica del paesaggio.
Album di famiglia e Atlante, i due libri che, bambino, aveva in casa e sfogliava con incanto, incontrando così per la prima volta la fotografia, sono i due oggetti e i due generi cardine della fotografia di sempre, quello della memoria e quello della documentazione, quello della narrazione e quello della descrizione, quello della figura e quello del paesaggio; l’interno e l’esterno, la storia e il luogo, il privato e il pubblico, le due categorie del mondo, sintetizza Ghirri.
Categorie che devono sempre compenetrarsi secondo la sintesi della sua ricerca: attraverso i segni visivi si scopre il mondo (il mappa-mondo), attraverso l’attenzione acuita (il cannocchiale, sostituto dalla macchina fotografica) per il mondo si impara a pensare per immagini e si dà ad esse la stessa realtà del mondo.
Una lezione italiana – come suggerirà con il titolo del suo progetto per gli anni ottanta, Paesaggio italiano – ancora tutta da verificare e senza dubbio da ribadire. “[Luigi Ghirri, Paesaggio italiano, Quaderno di Lotus, Electa, Milano, 1989]”
La sua opera fotografica si snoda nell’arco di venti anni. Un tempo breve, ma sufficiente a farlo diventare uno dei venti fotografi più significativi del XX secolo.
Comunque lo si voglia riconoscere, il ruolo da lui rivestito nella fotografia contemporanea è certamente rilevante e lo attesta il cambiamento che imprime al modo di rappresentare il paesaggio nel corso degli anni Ottanta e in genere alla fotografia italiana dell’ultimo quarto di secolo. La sua produzione può agevolmente essere divisa in due parti: una fase più razionale, tipica degli anni Settanta, in cui l’immagine richiede un impegno mentale per essere compresa, ed una successiva, che si sviluppa negli anni Ottanta, in cui la fotografia esige una lettura emotivamente partecipe.
Le sue fotografie sono caratterizzate dalla scelta di inquadrature rigorose, geometricamente impaginate, che tentano di celare la personalità del fotografo dietro l’apparente neutralità dell’immagine.
Si tratta in realtà di fotografie dalla innegabile valenza estetica, ma lieve, non cercata e generata soltanto dalla straordinaria capacità di selezione visiva del fotografo e dal suo continuo confronto con la cultura del suo tempo. Le ricerche di quegli anni nascono da precisi progetti, ma poi si sviluppano come per gemmazione una dall’altra, seguendo talvolta le suggestioni associative suggerite da immagini già scattate, e così molte fotografie vengono riutilizzate in raggruppamenti nuovi, acquisendo quasi il valore simbolico che assumono le carte da gioco a seconda delle diverse combinazioni.
Negli anni Ottanta le immagini di Ghirri hanno progressivamente virato nel tentativo di raffigurare non tanto degli oggetti, quanto il sentimento che la visione di spazi carichi di memorie storiche sapeva suscitare nel suo animo. Non si è trattato di un’involuzione verso un romanticismo ritardatario, ma ancora una volta del desiderio di consegnare all’immagine fotografica il compito di guidare l’individuo ormai completamente condizionato dagli stereotipi visivi, fotografici o televisivi, verso il recupero della facoltà immaginativa.
Tornano alla mente le parole di uno degli interpreti più significativi della letteratura italiana del Novecento, Italo Calvino, che in una delle sue celebri Lezioni americane (1988,) dedicata alla “visibilità”, scrive:
Se ho incluso la Visibilità nel mio elenco di valori da salvare è per avvertire del pericolo che stiamo correndo di perdere una facoltà umana fondamentale: il potere di mettere a fuoco visioni a occhi chiusi, di far scaturire colori e forme dall’allineamento di caratteri alfabetici neri su una pagina bianca, di pensare per immagini. Penso a una possibile pedagogia dell’immaginazione che abitui a controllare la propria visione interiore senza soffocarla e senza d’altra parte lasciarla cadere in un confuso, labile fantasticare, ma permettendo che le immagini si cristallizzino in una forma ben definita, memorabile, autosufficiente, “icastica”.
L’immaginazione è per Ghirri, oltre che il segno della presenza del sentimento, cioè della facoltà che rende l’uomo aperto, generoso e disponibile verso i suoi simili, la capacità di restituire la spontaneità della visione, la capacità di gioire delle piccole cose entro le quali si cela la bellezza. Una bellezza che Ghirri ha saputo cogliere nell’immobilità ordinata e silenziosa dei suoi paesaggi, nelle tonalità tenui, nell’armonia cromatica che rendono le sue immagini inconfondibili.
Alle forme del paesaggio si collega pertanto una geografia interiore, un ingresso della immagine nella nostra memoria quasi l’universo non fosse altro che lo specchio o l’eco di ciò che abbiamo appreso a riconoscere. Ghirri scrive nel testo che accompagna il volume Le città immaginate. Un viaggio in Italia (1987), il problema che si pone dinanzi ai luoghi è di riuscire a cogliere ciò che continuava a nascondersi. Ogni luogo interpreta una oscillazione, non riesce a prendere un’identità precisa, “restando in equilibrio tra passato e presente, ancora invisibile e inconoscibile, e ciò che ci è dato di sapere, raccontare, rappresentare, non è che una piccola smagliatura sulla superficie delle cose e del paesaggio”. Come scrive Theodor W. Adorno in Teoria estetica (1970) in ogni opera d’arte genuina appare ciò che non c’è, si configura un anelito all’adempimento di una promessa, ci si pone all’interno di un movimento verso qualcosa che ha da venire.
Potrebbe aggiungersi a questa breve riflessione su visibilità e immaginazione anche la presentazione che nel 1984 Italo Calvino fece della raccolta di racconti Narratori delle pianure di Gianni Celati, grande amico di Ghirri, come un «libro che ha al suo centro la rappresentazione del mondo visibile, e più ancora un’accettazione interiore del paesaggio quotidiano in ciò che meno sembrerebbe stimolare l’immaginazione». In questa direzione, in un campo e una disciplina diversa quale l’architettura, si trova l’architetto Aldo Rossi che Luigi Ghirri incontra per un lavoro per conto della rivista Lotus International. I due s’intendono subito in quanto esistevano innegabili affinità nella percezione del paesaggio che li porta a collaborare nel tempo. Le forme pure dell’architettura di Aldo Rossi sono per Ghirri una sollecitazione visiva che stimola il suo interesse. Da lì a pochi anni Luigi Ghirri diventa il fotografo delle opere di architettura di Aldo Rossi, uno dei più grandi architetti del ‘900 italiano. Esiste una celebre fotografia del cimitero di Modena, che ritrae il grande cubo rosso in prospettiva angolare, in secondo piano, immerso in un paesaggio innevato, ritagliato sul fondo di un cielo grigio-nebbia. Uscì su Lotus International e in seguito nella monografia che Alberto Ferlenga dedicherà a Rossi nel 1987. La fotografia era stata scattata da Ghirri:
“[…] nella sottile differenza fra riproduzione e interpretazione si situa la magia dell’architettura rossiana, metafisica, astratta, simbolicamente potente. Ghirri è, per molti architetti, il fotografo amico di Rossi: per lui realizzò una serie di scatti dello studio milanese, volti a tratteggiare, per accumulo di informazioni un ritratto oggettuale dell’architetto.: il minimalismo delle forme architettoniche “organizzate secondo griglie geometriche, in cui molte caselle si presentano come una cornice naturale, che assicura continuità fra la forma architettata e il mondo circostante”.
Considerato ormai uno dei maestri della fotografia del XX secolo, si spegne improvvisamente nella notte nella sua casa di Roncocesi il 14 febbraio 1992. Sviluppato l’ultimo negativo della sua fedele macchina fotografica trovano l’autoscatto qui pubblicato che lo ritrae mentre si incammina nella nebbia.
Ci piace pensare che si stia incamminando verso un nuovo orizzonte sconosciuto.
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