16 Ago Non praticare il cannibalismo: il paesaggio in Ron Padgett
Non praticare il cannibalismo: il paesaggio in Ron Padgett
di Emanuela Mannino
Immagini di George Schneeman
Il paesaggio è una finestra attraverso cui vedi cosa hai pensato.
Ron Padgett
Non praticare il cannibalismo è un’opera letteraria preziosa, edita da Del Vecchio Editore,che racchiude una selezione accurata di cento poesie scritte da Ron Padgett nell’arco degli ultimi vent’anni della sua produzione letteraria insieme a quattro interessanti contributi all’opera: una testimonianza diretta dell’autore sul perché scrivere poesia, un’intervista all’autore a cura di Eric Lorberer, un’introduzione ragionata ai leit motiv dell’opera poetica insieme a una metariflessione alla traduzione editoriale anglofona a cura di Paola Del Zoppo che ha tradotto alcune poesie. Tra i contributi a conclusione della raccolta poetica, il traduttore Riccardo Frolloni scrive della poesia di Padgett come di una poesia rivoluzionaria nel panorama letterario poetico: “In Italia da anni manca il coraggio di una chiarezza verbale incisiva come quella dei versi di Ron Padgett” che non ha paura di dire, di consigliare e di asserire. La poesia di Padgett diventa poesia che consente di liberare l’Io, di connettere gli uomini concretamente, e non soltanto, in modo virtuale. Infine, Cristina Consiglio, co-curatrice e traduttrice, analizza la biografia dell’autore e ne rileva i tratti esistenziali e le esperienze culturali che hanno influenzato la sua poetica.
Nella corrente riflessione alla poesia di Ron Padgett si vogliono analizzare degli aspetti precipui connessi al concetto di paesaggio nella doppia veste trascendentale e pragmatica. E’ lo stesso Padgett a dare una propria definizione di paesaggio in Lezioni di arte come “Una finestra attraverso cui vedi cosa hai pensato”. Il paesaggio come compendio percettivo dei pensieri latenti è linguaggio vivo che può chiarire l’Io a se stesso, relazione di sé con il sé. In Strutture sintattiche lo sguardo sul paesaggio è ricerca consolatoria di un interlocutore esistenziale laddove il poeta dice:
“Era come se/mentre stessi guidando giù per una strada bianca ad una corsia/con pini alti su entrambi i lati/e il paesaggio avesse una sintassi/simile a quella del nostro linguaggio/e mentre mi spostavo/una lunga frase venisse pronunciata/sulla destra ed un’altra sulla sinistra/e pensai/Forse il paesaggio/può capire anche quello che dico”.
Il poeta non scade nel facile vittimismo e prosegue con lucidità e naturalezza, quasi lungo un continuum vitale, a cercare un contatto con la realtà parallela che gli si presenta davanti:
“Di fronte c’era una fattoria/con bambini che giocavano vicino alla strada/così rallentai/e feci un cenno/Erano giovani abbastanza/da sorridere e ricambiare il cenno.
Peculiarità del paesaggio in Padgett sembra essere la dimensione connaturata dello spazio psicologico e dello spazio metafisico. In Omaggio a Meister Eckhart vuoto è il posto occupato “Mi sono ripromesso/che avrei esplorato il mio vuoto/lo spazio che occupo/e non lo farò/ma ancora aspetto”. In Padgett il Vuoto sembra essere attesa di un pieno già dato eppure trasceso “aspetto/aspetto in una stanza/che la stanza si trasformi in un’idea che un fiore potrebbe avere/Il sole brilla già sul fiore/nell’idea che il fiore ha sempre” (…) Allo stesso tempo le percezioni sensoriali sembrano essere passaggi, attraversamenti “ma gli occhi si separano sempre di più/da ciò che vedono/come le orecchie si chiudono sempre di più/a ciò che sentono/come il punto terribilmente lontano/e grande di fronte al tuo viso/allo stesso tempo e forte/Quindi via/lo specchio/il Vuoto/dentro un altro specchio/o Vuoto/e lascia stare/.
Alla fine si resta vivi in vuoti di passaggio, sono questi l’unica certezza ma cosa essi siano non è dato sapere “La nullità di Dio riempie ogni cosa/mentre la sua cosalità è da nessuna parte” e, poi, dice Padgett “La cosa migliore che puoi fare è rimanere fermo il più a lungo possibile” aspettando la nullità di Dio.
Le prime poesie del quattordicenne Padgett, a detta dello stesso autore, erano “delle descrizioni atmosferiche abbastanza fiorettate, che ricavavo guardando fuori dalla finestra della mia camera. Se si alzava un forte vento, cosa che accadeva soprattutto nella tarda primavera, i tre grandi olmi del nostro giardino sembravano agitare violentemente le braccia, e se una tempesta era accompagnata da tuoni e lampi, ciò che vedevo fuori dalla finestra era un riflesso di ciò che talvolta sentivo nel petto- un’angoscia pungente che una compagna di classe non ricambiasse il mio immenso affetto per lei”.
E’ lo stesso Padgett, a dissertare sulle origini connesse al significato delle sue poesie in una disamina approfondita posta a inizio del libro. La poesia delle origini era poesia di transizione, poesia con probabili influssi genetici paterni, di un padre ribelle e anticonformista. Al contempo, poesia di un giovane scosso dalla propria pubertà con dei cambiamenti fisici e psicologici che lo portarono da un lato a sentirsi attratto dalla propria introspezione spirituale sulle cose del mondo osservato, e a riconoscersi “superiore o quantomeno diverso” dai suoi coetanei e fiero di esserlo, dall’altro a rimanere basito dall’intuizione della consapevolezza della fugacità del tempo e dall’immensità definita sconcertante dello spazio. Il giovane Padgett è un piccolo filosofo pieno di domande sul senso dello stare nel mondo, il Padgett maturo di “Non praticare il cannibalismo” è un uomo che non smette mai di vivere la scoperta della poesia come euristica dello spirito che guarda al giovane poeta come di un altro individuo delle cui poesie non si sente più responsabile. Ciò che, ora, interessa è “cosa sto per scrivere. Scrivo per scoprire cosa sarà perché anche se ho vissuto abbastanza a lungo da imparare un sacco di cose sulla poesia, fondamentalmente lei riesce sempre a sconcertarmi” e al poeta piace dichiaratamente sentirsi sorpreso come un bambino che vede colombe materializzarsi dal nulla per mano di un mago.
La disamina dell’autore termina con una sua poesia, intitolata Qualunque cosa sia, in cui il paesaggio diviene metafora di viaggio, dove la poesia non muore nel già detto ma continua a scorrere,segretamente, nella mente del lettore. E’ come un passaggio di testimone, infinito:
“Molta poesia è deprimente/perché parla di cose/successe e poi/portate in poesia/per morire lì/mentre/una poesia vera abita nella sua/casetta che si sposta lungo/il paesaggio che scorre/lungo il pensiero del lettore/e nessuno l’ha mai vista.”
E d’altra parte, lo stesso Padgett, in risposta a Eric Lorberer che lo ha intervistato, sostiene di non volersi cristallizzare in un modello di poeta, “in una modalità o in un livello di dizione o in una vena stilistica- quel che si chiama una voce poetica”. Padgett lo sa bene che la perfezione non esiste, che la poesia muta al di là del già detto, potremmo dire, come un paesaggio che cambia agli occhi di chi lo osserva. Ciò che conta è continuare a osservare spostando l’asse percettivo-esistenziale dal reale all’ideale e viceversa ed in tale movimento produrre una sorta di realtà aumentata, lucida consapevolezza dell’effimero e del valore prezioso dello stesso assieme al valore del presente.
Gli elementi del paesaggio e la Natura, come i boschi, le nuvole, gli alberi, i fiori, le colline, le pecore sono metafore della condizione dell’Uomo, del suo stare nel mondo naturale fondendosi, talvolta, in esso prima di nascere; talvolta, del suo uscirne fuori per prendere in mano il presente e viverlo nel qui ed ora. Come in Mattina:
“L’uomo indiano non è un uomo/ma una statua di legno appena sul/ limitare dei boschi. Mia madre/è fatta di madre. Tocca il legno/con i suoi occhi e gli occhi/della statua si rivolgono a lei, cioè/diventano i suoi/ (Non sto sognando/Non sono nemmeno ancora nato).”
Ancora:
“C’è una nuvola nel cielo/Mio padre è nella nuvola/ e dorme. Quando si sveglia/ caffè e sigaretta.”
L’osservazione del paesaggio diventa meditazione dell’esistenza, attraversamento di flussi di pensieri e pragmatica, sovente con linguaggio ironico, della quotidianità, delle cose più vicine: attimi, movimenti, scene, volti, città, oggetti. In Fissazione: “Le colline di uliveti si piegano su/altre colline con strade e capanne/nuvole di pecore che salgono lontano”. Ma nei versi di Pagdett ricorrono, anche, immagini relative al paesaggio urbano che si intrecciano con immagini naturali come nella poesia Amsterdam che fanno da sfondo a scene umane e a dialoghi:
“Il cielo è stato strofinato/dalle vele nel porto/ Nelle grondaie di de Hooch/i rivoli scintillano/perché sono olandesi e/ molto puliti. Anche i mattoni/sono felici di stare lì, con/ spruzzi di acqua e sapone/in faccia ogni mattina/e Benedict Spinoza dentro/casa compone il suo libro/teorema dopo teorema/Fuori/alla finestra un uomo dice qualcosa/e una ragazza ride e dice: “No, Willem/non è questa la vera ragione/Tutto congela”.
La chiusa della poesia, in due sole parole, ha il potere di fermare tutto, persino i paesaggi come se i sentimenti dell’uomo potessero improvvisamente “divorziare” dall’idillio del quadro paesaggistico. Un divorzio che nel distacco dell’addio diventa Piccola Elegia:
“Blaise Cendrars nei suoi ultimi giorni, vecchio/ e malato, scrisse le sue ultime parole:/Questa mattina sul davanzale della finestra un uccello (…) così vedo il poeta invecchiato, testa/rivolta alla finestra e un uccellino (…) Ma ora solleverò le ali e loro batteranno (…) Addio/Mattina, davanzale e uccello/tutto volò via. Addio. Addio.”.
Nelle poesie di Padgett vengono citate città, tratteggiati luoghi urbani, ricordi che esprimono il piacere degli uomini di fronte al vuoto degli affetti e il rifiuto di tale piacere da parte dell’autore. Ne Il giorno della Bastiglia:
“La prima volta che vidi Parigi/andai a vedere dov’era/la Bastiglia e anche se/lì vidi la colonna/ero anche consapevole/che la Bastiglia non era lì:/ non sapevo come/vedere il vuoto/Le persone vanno a vedere/le Torri Gemelle mancanti/e sembra che amino sentire/la mancanza di qualcosa/A me non piace sapere/che mia madre non c’è/più, o sentire di saperlo.
In questa poesia sembra di intravedere un Padgett ancorato al suo vuoto materno. Così, mentre le persone da lui citate contemplano l’assenza, attraverso la materialità dei luoghi fantasma, in una nostalgia collettiva quasi edulcorata, l’uomo poeta, mostra con assertività la propria umana fragilità, nel non ammettere che sua madre non ci sia più. Salvo poi, scusarsi per il paragone tra la grandiosità materna e la grandezza della Bastiglia e delle Torri Gemelle, come se sua madre e la stessa assenza potessero non essere importanti quanto i vuoti degli altri. Ed in fondo, tutto continua a scorrere, la vita prosegue con i suoi paesaggi del cielo, e le ombre sui tetti e si ritorna a casa. Sperando di rivedere gli altri. Ecco che i paesaggi e i vuoti altrui paragonati ai propri sembrano ricondurre il poeta verso il desiderio di mantenere un contatto con gli altri, per non sentire altri vuoti:
” Scusate/il paragone tra mia madre/e i grandi edifici. E anche/se parlo dell’assenza/Il cielo rosso e grigio/sopra i tetti/ si scurisce e gli abitanti/corrono a casa per la cena/A rivedervi. Spero.”
La duplice veste di paesaggio naturale/artificiale e la funzione simbolica della permanenza delle cose mentre “tutto scorre” e muta, è riportata in Il Giardino giapponese: “(…) La casa è rimasta la stessa, l’erba è cresciuta/ed è stata falciata, sono andato al college/i miei genitori hanno divorziato/Ora qualcun altro vive lì/felice tra i fiori di ciliegio che non cadono mai.” In alcuni versi ricorrono scene di vita quotidiana, movimenti, volti, oggetti, veicoli di sensazioni, pensieri, paure, domande e soluzioni, anche, ironiche, talvolta, ciniche. Elementi del paesaggio “domestico” ed elementi naturali, anche sensoriali, fisiologici che ricordano al poeta la sua mortalità in un viaggio di coscienza lucida, dal suo cielo di dubbi, al presente, ancora, intatto e rassicurante. In Tenda:
“In piedi nel bagno a fare pipì/alzo lo sguardo e vedo la tenda davanti a me/cotone rosso con fiorellini gialli (…) e ho la sensazione di volare su nel cielo/finché ricordo che presto/avrò 70 anni e in qualunque momento/potrei avvertire un improvviso dolore parossistico/ alla testa e con la tenda/che precipita cadere e morire-/potrebbe succedere proprio adesso! /Ma non lo fa, la tenda resta al suo posto/e io sto lì/e la tenda ha ancora un bell’aspetto.”
In una delle tre poesie in onore di Willem De Kooning, intitolata La porta verso il fiume il paesaggio diventa metafora di massima evoluzione personale:
“L’hai attraversata persino prima/di sapere che esistesse/Il fiume giunse alla porta/e chiese di entrare/Poi il fiume attraversò la porta/e la porta scivolò via/Una volta ho gettato via un fiume/ perché mi sembrava vecchio abbastanza/E ne ho comprato uno nuovo/Insieme a una porta/Ma non è stata mai una porta/era un’entrata/Come la Norvegia/ma con le finestre.” Un’evoluzione che apre ulteriori finestre sul mondo.
A conclusione di tale disamina delle poesie di Ron Padgett, attraverso l’analisi di ciò che è sembrato di scorgere circa il valore psicologico, esistenziale, materiale, quotidiano, di luoghi, ricordi, paesaggi naturali e urbani e scene di vita domestica, si ritiene che le poesie dell’autore possano essere considerate come veri e propri paesaggi in divenire dell’anima; opera di pregio per la capacità di connettere più dimensioni spaziali in movimenti dell’anima attraverso metafore, personificazioni, simbolismi che creano relazioni con il mondo di ciascuno di noi.
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