23 Ago “Ciò che andato via non può essere migliore di ciò che è rimasto”: Nina Berberova e Venezia
“Ciò che andato via non può essere migliore di ciò che è rimasto”: Nina Berberova e Venezia
di Ivana Margarese
Dopo quel viaggio ritornai a Venezia ancora tre volte. Provo un amore sconfinato per quella città che, secondo me, non è paragonabile a nessun altra. Ogni volta che vi soggiornavo, Venezia rappresentava il mio momento presente, proprio come se la vedessi per la prima volta. Non esistevano né il fardello dei ricordi, né le melanconie risorgenti del passato, né i rimpianti, né le tracce di morte. Ero felice ogni volta di una pienezza particolare ed unica.
Nina Berberova descrive così il rapporto unico con Venezia, città dove è più volte ritornata, nel suo libro autobiografico pubblicato nel 1969 con il titolo Kursiv Moj (Il corsivo è mio, a cura di Julija Dobrovol’skaja, edito da Adelphi nel 1989).
L’autrice sottolinea sia come la città lagunare non possa essere paragonata a nessun’altra sia come susciti in lei una felicità piena, un sentimento particolare che tuttavia, a differenza delle narrazioni più frequenti su Venezia, non si associa ai ricordi, alla melanconia, alla tracce del passato o all’attesa, ma piuttosto alla gioia piena del presente e della vita qui e ora. L’elogio del presente è tratto peculiare del pensiero della scrittrice che più volte si mostra critica verso chi non aderisce al mondo o che resta ancorato a un altro tempo.
“Ciò che andato via non può essere migliore di ciò che è rimasto”, afferma. Sentenza che diviene anche conquista personale nel racconto Il giunco mormorante, in cui la protagonista si libera a poco a poco da una illusione amorosa coltivata per anni, divenendo cosciente del fatto che la sua libertà coincide con la visione e la scelta di ciò che realmente esiste e non di ciò che viene inseguito a dispetto dei segnali che si ricevono. Scrive a questo proposito in Il corsivo è mio:
Si trattava cioè, una volta conosciuta a me stessa, di liberarmi, di raggiungere l’equilibrio interiore, di trovare le risposte alle domande, di sciogliere i nodi, di ridurre un disegno confuso e frammentario ad alcune semplici linee, perché restasse ciò che non può essere mai tolto, né distrutto: la consapevolezza che l’anarchia emotiva della gioventù, i giochi intellettuali, il Weltschmertz trascinato troppo lungo e le angosce della creatura tremante del Novecento fanno parte del passato, che non ci sono più paure, superstizioni , esitazioni, che avrei fatto la mia strada senza voltarmi a considerare le opinioni degli altri e i miraggi della moda.
Anche nel racconto Felicità (1936) la protagonista Vera soltanto attraverso il distacco definitivo e forzato dai suoi amori può raggiungere la felicità senza aspettarsi più che ci sia qualcosa dall’esterno che giunga a salvarla. La felicità è dunque un cammino solitario, secondo Berberova, e risiede in un senso di adattamento nei confronti del mondo circostante, senza farsi sopraffare dal passato o dall’attesa, ma piuttosto vivendo e attingendo ai “beni che la vita offre” insieme “al sole, agli uccelli, all’universo”. Essere non una spaccatura, ma una cucitura per se stessi.
Nel racconto Il male nero (1989, trad it. per Guanda Editore, Parma 2003) il protagonista Evgenij Petrovič dichiara:
Certo bisogna darsi da fare, prendere decisioni, muoversi, mostrare spirito di adattamento, inventarsi città, persone, storie e una vita propria, in modo da sentirsi parte in causa e camminare con una persona a fianco, tentando a ogni costo di trovare la giusta sintonia, comportandosi come se tutto andasse per il meglio. E bisogna fare in fretta, altrimenti, ci si trasforma in un minerale.
Questa esortazione a vivere nel presente aderendo alla realtà che ci circonda è una testimonianza preziosa anche perché proviene da una scrittrice costretta all’esilio e alla fuga ma capace di reinventarsi nei diversi luoghi che abita.
Roberto Calasso, che più di tutti ha contribuito a farla conoscere in Italia con Adelphi, sottolinea la particolare cifra stilistica della Berberova, la maniera asciutta di raccontare storie di passione, una lucidità intessuta di pathos, la totale mancanza di illusioni di chi ha conosciuto profondamente le asprezze della vita.
Berberova ha uno sguardo critico nei confronti di coloro che si sentono incompresi dal mondo; lei ha invece scelto “la crudelissima immanenza”. Nell’autobiografia annota di essersi convinta che le persone normali siano di gran lunga più interessanti dei cosiddetti anormali, i quali sono spesso stereotipati nei loro conflitti con il mondo circostante e lontani dall’essere liberi e responsabili.
Ne Il quaderno nero ( 1989, trad. it. di Julija Dobrovol’skaja, Adelphi 2000) scrive anche:
Nella mia vita ho visto persone di talento. Quasi geniali. Erano persone infelici, malaticci, difficili che rovinavano l’esistenza a se stesse e a chi era loro vicino. Non hanno mai saputo che cosa fosse la felicità, non capivano l’amicizia. Ripetevano sempre non ci leggono non c’ascoltano non ci capiscono mancano i soldi non ci sono lettori; su di loro incombeva costante la minaccia della galera, del confino, la censura imperversava. Non si può immaginare nulla di più tragico, di più angosciante, di più triste.
Appare severa anche verso Marina Cvetaeva che descrive come persona ricca di invenzioni creative ma immatura, incapace di vedere se stessa e conoscere le sue possibilità esistenziali, immatura. Ecco che scrive in Il corsivo è mio a proposito della poetessa russa:
Maturò lentamente, come la maggior parte dei poeti russi del nostro secolo, tuttavia non riuscì a raggiungere la piena maturità; forse ci riuscì solo negli ultimi tempi, dopo aver capito che è un essere umano non può restare emarginato per anni, e se questo avviene è colpa sua e non dell’ambiente.
L’evasione dalla realtà è per Berberova uno degli elementi più insidiosi della poesia, forse abbellisce il poema ma distrugge il poeta.
È meglio vivere in armonia senza correre dietro a un treno che sta per andare altrove, condizione di consapevolezza e attenzione al presente che la scrittrice lega a Venezia, di cui fa una descrizione esemplare a conclusione de Il giunco mormorante, testo che trova ispirazione per il titolo da una poesia di Tjutčev in cui si parla di un giunco che mormora e protesta e non ha alcuna risposta dal paesaggio che abita, dalla terra alle estreme stelle:
“Tratto peculiare di Venezia: scomparire in un attimo, non correre dietro al treno, non agitare a destra e a sinistra il capo in cenno di saluto come fanno le altre città quando le lasci – svanire in un solo istante, come se non esistesse, come se non fosse mai esistita”.
Venezia non è un luogo che le lascia pesi, piuttosto la alleggerisce tanto da dissolversi come alcuni sogni al risveglio, come se non esistesse, come se non fosse mai esistita, permettendole così di rimanere ancorata al presente.
Anche il poeta russo Iosif Brodskij, premio Nobel per la Letteratura nel 1987, ha dedicato un libro a Venezia, intitolato Fondamenta degli incurabili( Adelphi), in cui sottolinea tra le altre cose l’essere anarchico di questa città:
“Esiste indubbiamente una corrispondenza – se non un nesso esplicito – tra la natura rettangolare delle forme di quel pizzo – ossia degli edifici veneziani – e l’anarchia dell’acqua, che disdegna la nozione di forma. È come se lo spazio, consapevole – qui più che in qualsiasi altro luogo – della propria inferiorità rispetto al tempo, gli rispondesse con l’unica proprietà che il tempo non possiede: con la bellezza.”
La bellezza per il poeta russo obbedisce alla legge di un eterno presente e Venezia era “nel trascorrere del suo agile corpo sull’acqua, senza rumore, senza traccia – qualcosa che somigliava molto allo scorrere della tua mano sulla pelle levigata di una donna”.
Ne Il corsivo è mio l’autrice afferma che l’esperienza le ha insegnato che persino quando sembra che non accada nulla, la vita procede e noi non siamo più quelli di una volta. Non è possibile fissare qualcosa, nemmeno se si tratta di se stessi. La mutevolezza appartiene agli esseri viventi.
Questa consapevolezza contribuisce a scegliere con maggiore libertà e con meno illusioni. A questo si il concetto di no man’s land, di cui Berberova scrive ampiamente ne Il giunco mormorante:
«Fin dai primi anni della mia giovinezza pensavo che ognuno di noi ha la propria no man’s land, in cui è totale padrone di se stesso. C’è una vita a tutti visibile, e ce n’è un’altra che appartiene solo a noi, di cui nessuno sa nulla. Ciò non significa affatto che, dal punto di vista dell’etica, una sia morale e l’altra sia immorale, o, dal punto di vista della polizia, l’una sia lecita e l’altra illecita. Semplicemente, l’uomo di tanto in tanto sfugge a qualsiasi controllo, vive nella libertà e nel mistero, da solo o in compagnia di qualcuno, anche solo un’ora al giorno […] Queste ore possono aggiungere qualcosa alla vita visibile dell’uomo oppure avere un loro significato del tutto autonomo; possono essere felicità, necessità, abitudine, ma sono comunque sempre indispensabili per raddrizzare la “linea generale” dell’esistenza. Se un uomo non usufruisce di questo suo diritto o ne viene privato da circostanze esterne, un bel giorno scoprirà con stupore che nella vita non s’è mai incontrato con se stesso, e c’è qualcosa di malinconico in questo pensiero. Mi fanno pena le persone che sono sole unicamente nella stanza da bagno, e in nessun altro luogo. »
Quando si apre uno spioncino o si schiude una porta, che avevamo considerato chiusa, dice la scrittrice, non siamo tenuti a provare un sentimento di gratitudine. Non occorre inchinarsi riconoscenti a ogni permesso o concessione dal momento che questo comportamento non ha la grazia di ciò che semplicemente è per se stesso: “dopo quello che ho visto non voglio essere, neanche per un po’ l’insignificante bestiola che viene mobilitata, addestrata, spedita da qualche parte, nutrita di gelati o affamata, punita o premiata perché ha rigato dritto”.
Venezia è per Nina Berberova un luogo di libertà e probabilmente di gioco, un gioco acquatico che segue la mutevolezza della vita stessa e la asseconda senza strappi.
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