Qabbalah e traduzione. Un saggio su Paul Celan

Qabbalah e traduzione. Un saggio su Paul Celan

Dialogo con Federico Dal Bo

a cura di Ivana Margarese

 

Qabbalah e traduzione. Un saggio su Paul Celan traduttore è il titolo del tuo saggio. Potresti raccontarci la genesi di quest’opera?

Il mio primo interesse per Paul Celan si intreccia strettamente col mio percorso universitario, quindi debbo confidare nella pazienza di chi ci segue se divago un po’ nel personale.
Ho iniziato il mio percorso universitario all’Università di Bologna, studiando filosofia continentale, in particolare Martin Heidegger e Jacques Derrida, filosofia del linguaggio ed ermeneutica filosofica. Ho anche lavorato per tre anni come assistente in Filosofia Teoretica alla cattedra del compianto prof. Maurizio Malaguti all’Università di Bologna, mentre approfondivo anche i miei studi di ebraistica all’Università di Firenze. A quell’epoca, Paul Celan rappresentava il punto di intersezione di molti dei miei interessi ed era quasi un passaggio obbligato per chiunque volesse studiare anche letteratura—o letteratura comparata—partendo dalla poetica heideggeriana. Si trattava insomma di una scelta quasi obbligata per chiunque partisse da determinati presupposti speculativi, oserei dire. Quando mi venne offerta la possibilità di seguire il dottorato di ricerca in Scienza della traduzione che era affiliato alla Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori, allora diretta dal mio primo Doktorvater Prof. Marcello Soffritti, la mia prima scelta di dedicarmi a Paul Celan subì necessariamente un orientamento più scientifico, insomma più sprachwissenschaftlich, pertinente alla “studio scientifico della lingua,” meno ermeneutico e più traduttivo. Si trattò in effetti di un cambiamento molto positivo perché non mi venne impedito di approfondirne l’ermeneutica, come poi feci con l’impeccabile guida della mia seconda Doktormutter, Prof.ssa Paola Maria Filippi presso il Dipartimento di Lingue dell’Università di Bologna. Al contrario, mi dovetti confrontare in modo rigoroso con un aspetto spesso trascurato degli studi su Paul Celan—la sua opera quale traduttore. Come tutti, ero rimasto affascinato dalle sue poesie (in particolare, per quanto mi riguarda, dalle sue prime elegie amorose) ma anche intimorito dal fatto che si dicesse avesse tradotto poesia da sei lingue in tedesco: inglese, francese, russo, italiano, ebraico e portoghese. (Col tempo, poi scoprirò che tradusse un po’ anche dall’yiddish, dal rumeno e occasionalmente anche dallo spagnolo). Infine, l’ultimo tassello in questo mosaico di spiegazioni: Paul Celan aveva deciso di scrivere e tradurre esclusivamente in tedesco—nella lingua degli stessi assassini del popolo ebraico e dei principali perpetuatori della Shoah. Insomma, già dai miei primi passi quale dottorando in Scienza della traduzione mi trovavo di fronte ad un compito immane e sinceramente quasi intimidatorio se non opprimente. Che fare?
Mi venne in soccorso, come già accennato, l’impostazione linguistica e traduttiva della Scuola Superiore di Lingue Moderne per Interpreti e Traduttori che si lasciava impressionare meno dall’esibizione muscolare della cultura ma badava al sodo, ovvero alla effettiva pratica della traduzione. Quindi, fui costretto a pormi fin da subito una domanda semplicissima: come traduce Paul Celan? Traduce bene o traduce male? Fu solo a questo punto che cominciò veramente il mio studio e vennero messe le prime basi per questo lavoro che ho potuto pubblicare solo molti anni più tardi, con maggior maturità e consapevolezza, per cortesia e interessamento dell’editore Orthotes e un contributo del Prof. Alexander Fidora dalla Universitat Autònoma de Barcelona, dove al tempo ero post-dotttorando Marie Curie.
Insomma, sin dall’inizio fui costretto ad esaminare con disincanto la immensa opera traduttiva di Paul Celan. Anzi, oserei dire, per scomodare una metafora fenomenologica, che mi fu imposto di “mettere tra parentesi” l’aspetto ermeneutico e chiedermi appunto se ci fosse un metodo in questo modo di tradurre che spesso stravolgeva il testo di partenza. Era un modo tipico di tradurre, una Celanisierung, una “celanizzazione,” come disse un suo detrattore, un tratto che era così tipico in Paul Celan e che eppure gli costò non pochi patimenti e dolori. La risposta, forse quasi inaspettata, fu che c’era un metodo in effetti, formalizzabile in una serie di “tecniche” di base che Paul Celan usava—più o meno inconsapevolmente—quando traduceva, a prescindere se di fronte a sé avesse un testo in inglese, francese, russo, italiano, ebraico o portoghese. Anzi, mi resi conto che si poteva addirittura prescindere dalla sua effettiva conoscenza pratica della lingua, dal momento che, anche se è ancora poco chiaro quanto buono fosse il suo russo parlato, si sa per certo che avesse una conoscenza solo passiva dell’italiano e particolarmente limitata dell’ebraico o del portoghese. Eppure ciascuna di queste traduzioni è una straordinaria opera poetica in sé, un dialogo raffinatissimo con autori e lingue distanti tra loro, appunto perseguendo sempre la medesima poetica traduttiva che, appunto ho chiamato, “poetica della trasformazione,” riprendendo un famoso lavoro dei germanisti Alfred Bodenheimer e Shimon Sandbank.

Nel saggio stabilisci un collegamento tra l’opera traduttrice di Celan e la metafisica della lingua di Walter Benjamin. Non soltanto in Celan vi è continuità tra poesia e traduzione ma la teoria della traduzione di Benjamin svolge per lui un ruolo cruciale.

Posso rispondere di sì ma debbo subito contraddirmi e dire di no. In effetti, quasi niente è semplice nella vita, nella poesia, nelle traduzioni e nel pensiero di Paul Celan. Il suo rapporto con una molteplicità di fonti, studi, tradizioni, lingue, letterature e filosofie è spesso sempre e solo mediato da figure terze, intermediari appunto che sono spesso femminili, che gli permettono di interfacciarsi, per usare una metafora informatica, col complesso di informazioni che riceve dal mondo esterno. In questo senso, il suo metodo traduttivo che sono certo di aver formalizzato correttamente in una serie di tecniche tipiche non significa necessariamente che sia la messa in pratica della teoria della traduzione che si può trovare, ad esempio, in Walter Benjamin. Eppure Paul Celan studiò intensamente Walter Benjamin, specialmente il suo temibile Dramma baraocco tedesco. Che cosa significa questo?
Da un lato possiamo attenerci all’evidenza filologica, come ci è fortunatamente offerta dalla Prof. Christiane Ivanovich, che ha scritto studi di gran pregio su Paul Celan. Dall’esame accurato della sua biblioteca personale, è chiaro che Paul Celan sfogliò appena il famoso saggio di Benjamin sul Compito del traduttore mentre studiò intensamente, come ho già anticipato, il Dramma barocco tedesco. Ovvero tralasciò la “teoria” della traduzione di Benjamin ma lesse profondamente la sua quasi incomprensibile teoria della metafora. Si trattava di presa di posizione poetica, quasi dicesse a sé stesso e gli altri che non aveva bisogno di sentirsi dire quale dovesse essere la teoria della traduzione che lui personalmente seguiva ma che certamente non poteva fare a meno di indagare la storia tragica della lingua tedesca che perdeva la propria significatività, la sua capacità quasi kabbalistica di dire la verità e il mondo. Del resto, il Dramma barocco tedesco era un passe-partout per infiltrare la germanistica tedesca con principi della mistica del linguaggio che Benjamin aveva raccolto a piene mani dall’amico Gershom Scholem. C’è da chiedersi se molti dei motivi per cui Benjamin non ottenne la abilitazione all’insegnamento con quest’opera mirabile non dipendessero anche da un antisemitismo culturale implicito che determinò, come una reazione quasi riflessa, un rifiuto di quest’opera difficilissima eppure inaggirabile.
Quindi si può dire che la teoria della traduzione di Benjamin fu cruciale soprattutto perché indicava la questione più profonda dello sviluppo del segno, della metafora e del simbolico nella lingua poetica tedesca. La questione della lingua pura, in altre parole, così importante per Benjamin, in Paul Celan emergeva in modo solo sfumato, soprattutto nella consapevolezza che tutte le lingue girano intorno al mistero della inesprimibilità reciproca e quindi mettono in circolo periodicamente e incessantemente la differenza fondamentale tra ogni lingua. Anzi, per molti aspetti, la funzione della traduzione per come l’intende Paul Celan non è comunicare qualcosa attraverso di essa bensì trasporre la differenza linguistica da una lingua all’altra, come suggerito dal noto gioco di parole heideggeriano tra übersetzen come “tradurre” e über-setzen come “tras-porre.” In altre parole, la traduzione trapassa le lingue e le espone alla loro reciproca differenza perpetuandola attraverso la produzione di un ulteriore testo—quello tradotto—che non è mai uguale all’originale e nemmeno “risolve” il mistero della sua comunicazione. Anzi, lo complica oltremodo in modo consapevole, ricercato e voluto. C’è un po’ da capire quegli ottusi direttori di collana che non si sentirono di pubblicare le “traduzioni” di Paul Celan che non erano certo traduzioni in senso ordinario bensì una vera opera poetica scritta con parole d’altri.

È noto che Celan e la poetessa Ingeborg Bachmann ebbero per tutta la vita un profondo legame e che intrecciarono una relazione d’amore discontinua. Sarei interessata a conoscere la tua prospettiva sul loro tormentato rapporto.

Forse tra le molte cose di cui mi sono occupato in questi anni, come gli studi di genere e la letteratura rabbinica, mi hanno ormai decisamente influenzato troppo per potermi permettere di valutare con serenità—unbiased come si direbbe in inglese—i vari rapporti discontinui che Paul Celan ebbe con molte donne. La mia valutazione è tendenzialmente negativa perché mi sembra che questo modo di vivere i rapporti d’amore intrecciando poesia e vita in fondo finisse permettere in attouna dinamica fin troppo conosciuta dalle donne per secoli, perché in fondo era alimentata da una certa misoginia di fondo, un sentimento spesso inespresso che però si manifestava speculativamente in una sorta di ritrosia ad accogliere il femminile non solo quale elemento seduttivo nei termini dell’eros di cui parla soprattutto nelle prime raccolte poetiche di Paul Celan o quale elemento mistico, già presente nell’amor cortese e nella Kabbalah, bensì come un elemento vitale nel senso più profondo del termine che potesse tradursi, ad esempio, in una complicità poetica vera e propria se non addirittura in una scrittura poetica (in) comune.
Si prenda ad esempio, la struggente corrispondenza tra Celane la Bachmann che tra l’altro è stata tradotta splendidamente di recente in italiano ovviando al problema come rendere il termine Herzzeit, alla lettera “il tempo del cuore,” senza scadere nel patetico. Il curatore Francesco Maione ha fatto una scelta molto azzeccata che ha addirittura innovato il senso dell’originale e ha trovato il bellissimo titolo: Troviamo le parole—quasi la cifra dell’invito che i due si lanciavano reciprocamente. Eppure, non si può che restare sgomenti da un rapporto d’amore e di poesia che è chiaramente sbilanciato, mi sembra, sulla figura di lui. Il femminile, in questo caso una poetessa formidabile come la Bachmann, resta pur sempre solo una spettatrice o magari una lettrice ma non una possibile coautrice. È un tratto tipico di molti uomini di quella generazione e anche di quella precedente, se non addirittura la goffa mimesi di un altro rapporto intellettuale sbilanciato che non si sviluppò mai sul piano della parità: quello tra Martin Heidegger e Hannah Arendt — che mai si sollevò dal mito del Pigmalione, del maestro e della discente.
Ecco, pur senza toccare questi eccessi, mi sembra che però molto di questo si possa trovare anche nella corrispondenza tra Celan e la Bachmann e non posso fare a meno di chiedermi o immaginarmi che cosa avrebbero potuto scrivere insieme soprattutto se lui avesse abbandonato almeno in parte la sua visione romanticamente stereotipata del femminile, al di fuori di una visione esaltata, celebrata, mitizzata, addirittura misticheggiata ma mai accolta al di fuori di un preciso schema intellettuale, tipicamente verbalizzato da intellettuali maschi. È un discorso complesso che in effetti coinvolge altre figure femminili nella vita di Celan…

C’è un’altra figura femminile che riveste un ruolo importante nella biografia di Celan: la poetessa Nelly Sachs.

Esattamente. È un altro caso in cui il rapporto personale è chiaramente sbilanciato nei confronti di Celan. In questo caso c’erano diverse difficoltà supplementari come l’estrema fragilità emotiva di Nelly Sachs e la sua stessa grave depressione nonché la differenza di età — tutte cose che certamente pregiudicarono la possibilità che il rapporto potesse svolgersi in modo più uniforme e paritario. Eppure avevano in comune la medesima origine ebraica, l’infatuazione per la mistica ebraica e il dilemma di scrivere in tedesco all’indomani della Shoah. Ma nemmeno in questo caso, mi sembra, si assiste ad vero dialogo poetico. Se si legge la loro corrispondenza, si vede come Nelly Sachs fosse profondamente ricca di elogi e affettività per Celan, ne lodava le poesie e addirittura le paragonava esplicitamente a nientemeno che allo Zohar. Celan invece è sempre molto cortese e lirico nelle sue risposte ma nemmeno in quel caso, nemmeno di fronte ad una simile comunanza di dolori, motivi poetici, appartenenza e letture—mai ci fu mai l’idea, lo spunto o persino l’audacia di suggerire di costruire una vera e propria alleanza poetica che fosse fatta sia di parole che di intenti.
Questo è il secondo caso insieme a quello già citato con la Bachmann. Temo non possa essere un caso bensì l’indirizzo di un preciso intento—tenere a distanza il femminile anche nella sua manifestazione poetica, farne se si vuole l’oggetto di una poesia ma mai veramente un soggetto partecipe alla scrittura poetica. È forse quasi emblematico, se non addirittura psicoanaliticamente sintomatico, che Paul Celan si sposò, per esserle poi infedele, la cattolica francese Gisèle Lestrange—un nomen omen: Gisèle, “la straniera”—che non faceva poesie ma piuttosto era una raffinata artista che più di una volta decorò le raccolte di poetiche del marito con delle incisioni astratte molto interessanti. Insomma, un’altra donna che non avrebbe mai scritto poesia né al posto suo né insieme a lui. Anzi, una donna che ne “adornava” le parole. Se mi si perdona una facile analisi psicoanalitica di terza mano, tuttavia non si può non rimanere colpiti da queste circostanze ricorrenti, sintomatiche. C’è un problema del femminile che si tramuta anche in un problema della scrittura poetica stessa.

Nel libro scrivi: “Il senso della poesia o dell’essere che viene appunto detto in poesia sembra germinare da un fondo inconoscibile, forse addirittura qualcosa di materno o femminile – dalla chora, come avrebbe potuto dire Kristeva. C’è in Celan un sentimento ambiguo rispetto al femminile, almeno rispetto al quale la nascita appunto appare una sorta di “liberazione”.
Mi ha colpita questo tuo fare riferimento a un sentimento di ambiguità rispetto al femminile.

In quel passo mi richiamo alla famosa studiosa di semiotica  Julia Kristeva ma in verità sto pensando a Jacques Derrida la cui apertura al femminile e alla teoria del genere—i Gender Studies—non gli risparmiò critiche acerrime da parte delle studiose e filosofe francesi che gli contestarono appunto l’idea di descrivere la chora, questa dimensione anteriore all’ideale platonico dell’idea, pur sempre in termini “irrazionali” e perciò sempre funzionali alla logica del patriarcato, dell’“eteronormatività,” del “fallologocentrismo” e così dicendo.
In altre parole, l’ambiguità qui è soprattutto rispetto a quelli che si ritengono i detentori primi del “logos,” ovvero del discorso filosofico o poetico che “mette ordine” all’origine primordiale, che è caotica e perciò femminea. Sono presupposti che emergono sottilmente anche nel decostruzionismo e nel post-strutturalismo, dal momento che lo stesso Jacques Derrida disse una volta che la differenza sessuale (tra uomo e donna) può essere sì radicale ma che la differenza ontologica (tra essere ed ente) lo era ancora di più e quindi ciò implicava che solo quest’ultima dovesse venire indagata adeguatamente. Era una frase un po’ sorprendente, soprattutto considerando che veniva da chi non era solo uno dei più significativi filosofi del Novecento ma era anche sposato con una psicoanalista di grande valore.
Voglio dire che l’asserzione di ambiguità del femminile citata nel passo è profondamente sarcastica rispetto ad un pensiero e una poetica—quella di Paul Celan—che in fondo non riescono a staccarsi veramente dalla tradizionale visione del “logo” poetico e filosofico ordinatore della realtà di fronte al “caos” femminile. È forse questa la spiegazione più profonda—Derrida potrebbe dire “più ontologica”—del motivo per cui Paul Celan in fondo era alieno da ricercare effettivamente un dialogo poetico col femminile senza necessariamente inquadrarlo in prospettive erotiche, romantiche oppuremistiche. Del resto, ci fu anche una terza figura femminile, quella tenebrosa e quasi tragica di Claire Goll che certamente non favorì un’elaborazione diversa del femminile da quello che troviamo implicitamente ed esplicitamente nell’opera di Paul Celan.

Celan fu accusato di plagio da Claire Goll, moglie del poeta alsaziano Yvan Goll. La vicenda si protrasse a lungo e dolorosamente per il poeta. Nella tua ricerca ti soffermi su questa questione ampiamente. Perché a tuo parere è un nodo centrale?

Il cosiddetto “caso Goll” è probabilmente uno degli eventi culturali più ripugnanti del secondo Novecento per viltà, bassezza e miseria morale. Claire Goll era una poetessa ebrea di origine franco-tedesca sposata a Yvan Goll, anch’egli ebreo,che conobbe Paul Celan e vi si affezionò, affidandogli il compito di tradurre diverse sue poesie dal francese al tedesco già nel 1949. Tre anni dopo la morte del marito, nel 1953, Claire Goll iniziò in una vergognosa campagna diffamatoria accusandolo ingiustamente di plagio, spesso cercando sostegno da quelle frange della germanistica tedesca che erano ancora compiacenti se non addirittura continuatrici del recente passato nazista. Ciò provocò una rottura nella classe letteraria tedesca e un’eco di stampa che durò per molti anni minando profondamente la salute mentale di Paul Celan che era già abbastanza precaria. Nel suo studio Barbara Wiedemann ha raccolto una quantità impressionante di testi, spesso di spiacevolissima lettura, che mostrano l’estrema fragilità di Paul Celan e l’inarrestabile crudeltà di questa donna che non si fece scrupolo di sobillare sentimenti antisemiti contro Celan pur essendo lei stessa ebrea. Le ragioni sono difficili da determinare esattamente soprattutto per il torbido intreccio di accuse, maldicenze e vera e propria diffamazione. In una delle lettere che Bachmann scrisse a Celan (che, se ricordo bene, non inviò mai), gli rimproverava di voler essere una vittima di questo scandalo letterario montato ad arte per perpetuare un’immagine poetica di cui si serviva per scrivere poesie.
L’importanza di questo orribile caso letterario, al di là del tragico fatto biografico di aver minato per sempre la stabilità mentale di Celan, fu il fatto che non si trattava semplicemente di un falso. Ci sono oggettivamente continuità tra l’opera di Yvan Goll e quelle di Paul Celan, come mostro brevemene nel mio libretto ma è quantomeno assurdo ritenerle forme di plagio. Sono cose che fanno parte del consueto scambio intellettuale che richiede di principio generosità verso l’altro che ti legge e ti ascolta. Si tratta di dinamiche proprie delle cosiddette scienze umane ma probabilmente dell’intero spettro del sapere umano. Per confondere lo scambio intellettuale con un furto è necessaria una diabolica misura di cattiveria e di egoismo.
Si trattava quindi, detto altrimenti, di un’operazione ancora più subdola e maliziosa—un caso di disinformazione che, come diceva bene il situazionista Guy Debord, non è falsità bensì il cattivo uso della verità. Che cosa c’era di vero in questa “infamia,” come giustamente l’ha chiamata Barbara Wiedemann? Non certo che Celan “copiasse” o “plagiasse” versi altrui! C’era di vero qualcosa di infinitamente più profondo e intimo nell’opera di Celan: la persuasione che fare poesia significasse partecipare delle parole altrui intessendo un rapporto complesso e raffinato di intertestualità, attraverso una serie di richiami percettibili e impercettibili, espliciti ed impliciti, se non addirittura essoterici ed esoterici. In altre parole, Celan faceva poesia nel modo stesso in cui traduceva, penetrando i testi altri ed elevandoli con le proprie parole e alle sue stesse parole.

Nel testo ricorre più volte la parola “ trasformazione” tanto da definire l’opera di Celan una poetica della trasformazione. Certamente ogni poesia è generativa. Friedrich Hölderlin scrive che ciò che resta sono i poeti a crearlo: Was bleibet aber, stiften die Dichter.

Come anticipato prima, ho tratto il concetto di “poetica della trasformazione” da uno studio su Paul Celan curato da due eccellenti germanisti come Alfred Bodenheimer e Shimon Sandbank. L’ho applicato costantemente perché mi sembra davvero l’unico termine che potesse descrivere compiutamente ed interamente l’opera traduttiva di Paul Celan che pur si dipana per quasi un trentennio e affronta lingue e letterature profondamente diverse tra loro.
Non posso che ringraziarti per questa bellissima citazione che, credo Celan amasse molto, anche in forza delle sue letture di Heidegger. Probabilmente avrebbe amato anche la scelta di rendere la prima parte del verso, Was bleibt aber, “ma ciò che perdura,” come suggerisci tu “ciò che resta.”
Se mi è permesso divagare, visto che parliamo di traduzione, si tratta di una scelta forse meno precisa ma tuttavia più suggestiva e per molti versi migliore proprio perché evocativa di un’atmosfera biblica che Paul Celan avrebbe amato molto. “Ciò che resta”—è biblicamente ciò che sopravvive ad una catastrofe apocalittica, proprio quale fu la Shoah e senz’altro Celan avrebbe amato l’implicazione per cui sono proprio i poeti a formare ciò che resta dopo l’apocalisse. Non c’è dubbio che Celan avrebbe amato questa poetica profonda e dolorosa.

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