14 Ott Dice Angelica
Dice Angelica
di Grazia Pulvirenti
Le parole di Angelica. Angelica chi? “La famosa Angelica”. Sì proprio quella che fece uscir di senno Orlando e che a sua volta si straziò d’amore per Rinaldo, ma anche, e soprattutto, l’illusione da cui prende corpo la narrazione, ogni narrazione che, attraversando il mito lo ridesta a nuova luce, ne esalta il dannatamente umano che lo ha creato e nel quale rimane inscritto. Angelica. “La famosa Angelica”.
“Eccomi. Ci sono. Che roba è la fama? Non sono sicura che sia quello che fai, forse è quello che dicono di te. Per me, perlomeno, è così. La mia avventura è solo un fallimento. […] Sono scappata e ancora non riesco a tornare a casa. L’amore sa di sale per me e per gli altri, per chi rincorro e per chi mi insegue. Sono una seminatrice seriale di zizzania, mi sono ritrovata cibo degli dèi e, per fortuna, un cavaliere che passava di lì per caso mi ha risparmiato questo onore. Per finire, mia madre non mi parla più. Sta zitta con tutti, vero, ma questo non mi fa stare meno male. Famosa per cosa, allora? Perché sono un desiderio, magari per tanti irraggiungibile? Eccola la mia vocazione. Il desiderio muove il mondo. Solo che questo mondo bisognerebbe guardarlo con i miei occhi. […] Io darò pure un senso alla vita degli altri, ma la mia vita che senso ha? Sono l’unica a non avere in questo stramaledetto posto un cencio di desiderio. Sono famosa, ma se guardo a domani non vedo nulla. Ogni tanto sospetto di essere morta.” (pp.141-142).
L’Angelica che prende la parola nelle straripanti pagine di Vittorio Macioce, un prestidigitatore di storie e riscritture fitte di intrecci e nuove prospettive di visione, è una giovane donna ferita, lacerata dalle tormente del proprio destino, dall’accavallarsi degli eventi del mito che ne fanno una anima raminga in cerca di senso e di amore:
“Non faccio altro che scappare avanti e indietro. Appaio e scompaio, una lucciola. È l’unica cosa che so fare. Cerco solo qualcuno che mi faccia sentire vera” (11).
E proprio questa sete di verità e vita non fa che scompaginare le pagine del racconto, mescolare le carte del mito, aprendo delle brecce da cui si effondono animi feriti e infelici, condannati all’identità ripetitiva dell’eroe, senza poter attingere alla propria vera natura, spesso vittime di sortilegi e incanti, come Ruggiero, o di compiti estremi, come Bradamante:
“Adesso vedo bene che, sotto le loro corazze, non è rimasta che carne putrida. Orlando e Rinaldo sono tutti e nessuno. Stanno ripetendo l’eterno duello di chi, in nome delle proprie sacre e inviolabili ragioni, sacrifica qualsiasi traccia di umanità. Pupi sono, pupi siamo. Ci mangeremo tutti come cani arrabbiati. Non mi interessa chi ha torto o ragione. Io davvero non voglio più litigare. Dormiamoci su stanotte. È tempo di lasciar perdere” (100).
La voce trasgressiva di Angelica non solo destruttura la narrazione stessa, ma ne fa emergere l’opacità, un orlo carico di lordura e sofferenza, immagini riflesse in uno specchio che distorce e fa apparire volti che sono smorfie e affanni, languori che rodono l’animo e affiorano come spettri da un inconscio che il racconto maschile ha tentato di addomesticare, privandolo del suo potere devastante e catarticamente liberatorio.
Nella riscrittura di Macioce le storie dei paladini risalgono alla loro scaturigine e, narrate attraverso lo sguardo della raminga e moderna Angelica, assumono nuovi inediti significati, squadernano l’implicito e il sottinteso, l’umano che la narrazione maschile ha taciuto. La narrazione di Angelica è eccentrica, come la sua natura e quella della madre, una cantastorie:
“Non lo direi di ogni qiyàn, perché poche vengono scelte per il canto o l’arte di raccontare. Tua madre ne incarnava l’essenza. L’emiro di Baghdad aveva sentito parlare di questa ragazza che incantava le notti con i suoi racconti e portava chiunque l’ascoltasse a spostare il sonno un po’ più in là, fino a quando all’orizzonte la Luna non lasciava il posto alla luce dell’alba.” (40)
E raccontando la sua visione degli eventi e delle vicissitudini incorse, forse Angelica tenta di riscattare il suo senso d’inferiorità nei confronti della madre: “C’è una differenza. Mia madre donava le sue storie, io vendo la mia immagine” (43). O forse no, perché nel racconto di Angelica è tutto vero, ma è vero anche il suo contrario, e dal momento che in fondo Angelica è la scaturigine della narrazione, è in primo luogo proprio questo: un vortice di illusioni che innerva la parola, le dà vita, e carne e sofferenza, fa turbinare il racconto verso le sue zone d’ombra, fino a quell’ombelico da cui si irradia, quel centro in cui tutto esiste e scompare, in cui tutto è vero solo nella misura in cui è invenzione, è trama di destini che si sfasciano facendo esplodere la fragilità e la vulnerabilità dell’essere umano, foss’anche un eroe, che eternamente ripete le proprie azioni nelle pagine di chi le legge o le reinventa:
“Le parole – mi hai detto – si tendono, si lacerano e talvolta si spezzano, incespicano, imputridiscono, non stanno al loro posto, non restano ferme. Io parto per dare una cura alla trama sbiadita. Dov’è la vita che abbiamo perduto vivendo? Dov’è il giardino dove ogni amore sfiorisce? Dov’è la terra dove gli sfiniti trovano pace? Parto senza bagagli, nuda, per attirare su di me le storie di chi mi insegue e riannodarle. Io sono la Luna che si tuffa nel nulla, la figlia maledetta della seta che si avvolge e sparisce. Non fuggo più. Aspetto e conto le parole sussurrate alle mie spalle e accarezzo le mie gambe, seguendo il corso delle vene, e mi domando quali siano troppo vecchie e quali avvelenate. Non ho nulla da perdere se non questo corpo che mi va largo come un vestito sformato dall’uso. Ne distinguo i segni, ma riconosco solo i miei, solo quelli che mi assomigliano. Il resto sono cicatrici, e non le ho cercate. La parte più reale di me è l’odore. Mi segue, mi suda, si riflette nei miei umori, ride, sospira, s’intristisce all’improvviso e urla, maledice, mi fa fertile o impura. Seduce e lascia traccia della mia paura. Sono fata e selvaggina. L’odore non mente, la pelle sì, perché è stoffa con infinite trame: la tua, la mia, come sei, come ti sogni, come ti vedi, come ti immaginano gli altri” (11-12).
Angelica è la cura della parola, è la donna che catalizza in sé le passioni e i desideri, ma per dare loro trama di racconto, e da oggetto di brama, da corpo del desiderio maschile, da vittima di una bellezza ingombrante da gestire e difendere, assurge a corpo narrante che, tramite la sofferenza del proprio vissuto, riscatta le follie e le idiosincrasie di un mondo di uomini condannati a una visione deformata del reale:
“Cosa fanno gli eroi senza più storie? Vagano, sradicati e disorientati, senza trama e destino, senza riconoscersi. Perdono il senno. La sciagura colpisce gli eroi e chi le storie le racconta, per mestiere o vocazione. Quelli che cantano e narrano e la tristezza te la fanno passare” (39).
E il racconto di queste storie è l’epopea dell’Occidente, che, con Durlindana e altri intrecci magici, affonda nella grecità da cui tutto origina, è il dramma medievale e rinascimentale, che da Boiardo e Ariosto rivive nei giochi di Calvino, e che oggi potrebbe assumere i tratti di un film epico, come questo romanzo, con effetti speciali che trasportano lo spettatore dalla location di Albracca nel Catai, a quella di Roncisvalle, celebrando la fine della storia, che ne è anche l’inizio.
E con questo romanzo dalle mille storie, dai mille inizi e dagli inesauribili intrecci, Macioce, giornalista e, quel che conta di più, uomo dalla rara finezza non credo solo di penna, ma certamente anche d’animo, riesce a inventare una visione femminile della vita e del destino, della narrazione e della scrittura, che, come per magia, è in grado di condensare l’origine di ogni mito del mondo occidentale e dei suoi conflitti con l’alterità, e a squadernarne le sue irradiazioni nelle epoche che si sono susseguite, proiettandolo in uno spazio-tempo futuro, che sa ad un tempo di vero e fantastico, di assurdo e verosimile, attingendo a quel vero, che come sosteneva Gorgia, solo nella finzione possiamo conoscere. E comprendere. E riprendere a narrare.
In fondo Angelica, fra le rutilanti pagine di Macioce, non è solo l’incarnazione della sua sciagurata bellezza, ma l’allegoria dell’immaginazione, dell’inesauribile creatività del femminile che non cesserà mai di far scaturire storie da storie. È la nostalgia che, dalla magia del fantastico medievale di donne, cavalieri, armi ed amori, si proietta in un una galassia che non vorremmo mai finire di esplorare, accompagnate da Abū l-’Abbās, l’elefante albino.
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