24 Ott Apache
Apache
racconto inedito di Giacomo Cavaliere
immagine in evidenza di Cristiano Guitarrini
Quello che succede tra un padre e un figlio, rimane tra padre e figlio.
Il piccolo ha carenza di testosterone, diceva. Forse ne ha più la grande, Ludovica, anzi, senza forse. Ero sveglio, però, guizzo mentale e perspicacia in abbondanza – non era chiaro da quale genitore l’avessi mutuata –, ma mi mancava il mordente, questo sì. Avevo dodici anni e pochissimi peli; Papà misurava il progredire della pubertà utilizzando la mia pudicizia come parametro. Ci s’appresta a diventare grandi appena si comincia a provare vergogna a mostrarsi nudi davanti ai genitori. Sperava in un maschietto e c’era riuscito al secondo tentativo, ma aveva abbandonato subito le speranze di rimpinguare le fila dell’Arma con sua la progenie. Non avevo l’indole del carabiniere, non ero un uomo d’azione. All’andata, uscii dall’Autogrill di Casalecchio di Reno con una cassetta di Demis Roussos che finì scorticata sull’asfalto all’altezza dell’uscita di San Lazzaro. Ruotò appena la manovella, il fruscio del cambio di frequenza si dissolse nel dammi il tuo amore, non chiedermi niente, dimmi che, hai bisogno di me che le nostre corde vocali modularono senza l’accordo della volontà. Alan Sorrenti imperversava giorno e notte nei lidi di entrambe le coste, da Lignano Sabbiadoro fin giù nella Locride. Ogni volta che sentiva l’imbeccata del falsetto, si rivolgeva a mia madre con indosso una smorfia da serenata napoletana, e lei sempre si scioglieva. O comunque s’accontentava. Durante il viaggio la mandarono una dozzina di volte.
Bisogna stare attenti a quello che ascoltano i figli, a quello che guardano, se si vuole evitare che vengano su storti. E papà, attento lo era parecchio. Alimentazione, quotidiani, programmi radio, salute, tivù, scuola, amici. Attento a tutto. Andava sempre a correre per i sentieri della pineta. A casa prendeva la macchina anche per andare a comprare il giornale, ma l’estate amava passarla all’aria aperta. Soffriva le spiagge, ma le sopportava meglio della montagna. Si svegliava una o due ore prima dell’alba, spesso senza neanche essere andato a letto. Olympus, binocolo a quattro ingrandimenti e manuale di ornitologia. Papà adorava i western, specie quelli con gli indiani. A dieci anni avevo visto tutti i film di John Ford. Sarei stato diverso, se il cinema non mi avesse dato tutte le gratificazioni di una vita da eroe al prezzo di un minimo rischio per la salute.
Il mare era d’un paglierino verdognolo poco appetibile, una sorta di lago acquitrinoso. Occorrevano chilometri per immergersi al di sopra della vita, pareva di poter arrivare in Istria camminando. Quell’anno mamma s’ammalò quasi subito. Dopo una giornata a quaranta gradi si mise a grandinare, l’escursione termica la tenne stramazzata a letto per due settimane. Una brutta insolazione che lei era convinta fosse un’epatite da molluschi, che alla fine non era. Le prime tre diagnosi era sempre meglio cestinarle. Se non era la cervicale era l’asma, una volta anche una specie di botulismo, in Provenza, quand’ero ancora molto piccolo. Per questo non voleva mai andare in vacanza all’estero, troppe difficoltà di comunicazione con i medici che, quasi certamente, mamma avrebbe incontrato. M’ero addormentato presto, il mare mi toglieva ogni voglia di vivere, il sale e la sabbia mi rendevano insofferente alla vita. L’aria di Cervia non mi sembrava tanto più salubre dei vapori del Lambro. La puzza di casa propria si sopporta sempre più facilmente.
Mi svegliai di colpo e schizzai seduto. Sta’ tranquillo, disse. Ti va di venire con papà, stasera? Ma è buio pesto, non si vede niente! Abbiamo le torce, poi vedrai, il buio è pieno di cose. Allora, ti vesti?
Salimmo sulla nostra Lancia Duemila rossa e percorremmo il litorale verso Ravenna. Dopo una mezz’ora buona accostammo dietro un’altra auto. La conoscevo, era quella di zio Marcello, che non era davvero mio zio ma era come fosse il fratello vacanziero di papà. Cenavamo spesso insieme al lido, non aveva figli e per questo mi era simpatico. Era un docente universitario di San Marino, e anche lui odiava le vacanze lontano da casa. Parcheggiammo la Lancia e ci trasferimmo su quella di Marcello. Papà mi disse di aiutare lo zio a portare le macchine fotografiche e di sedermi dietro. Erano passate le tre quando c’immettemmo sullo sterrato della pineta di Classe. Marcello aprì il cruscotto e fece per posarci due rullini, ma papà lo fermò. No, non lì. Daglieli a Gioacchino, li tiene lui; mi raccomando, giannizzero, ricordati cosa ti ho detto, disse rivolto allo specchietto. Gero’, hai letto l’articolo del Carlino sugli indiani? Esilarante. Ma tu lo conoscevi quel Piede Nero? Mai sentito, non deve essere di qui. C’è stato un altro fatto simile a quello successo in Toscana, questa primavera, qui alla Calabrina. Ero via per lavoro, tenne a giustificarsi; quelli del Carlino avranno raccattato qualche disperato con buona immaginazione per imbastire l’articolo. Neanche tanta, d’immaginazione, replicò papà; succederà ancora, ne sono certo.
Quando il sole del mattino ci sveglia, tu non vuoi lasciarmi andare via… Il tempo passa in fretta, quando siamo insieme noi… È triste aprire quella porta, io resterò se vuoi, io resterò se vuoi…
Tu lo sai qual è il mio nome di battaglia?, Marcello si voltò verso di me. La Civetta, perché ci vedo meglio che di notte che di giorno. Stirai una risata condiscendente. Le loro conversazioni erano un diluvio di epiteti e nomignoli, fradice d’allusioni che credevano inaccessibili a chiunque. Ed era vero, io capivo poco o niente e mamma ancora meno. Forse non le interessava. A pochi interessa davvero capire qualcosa. Io stesso non avevo idea di aver qualcosa da capire, di dover distillare un qualche senso recondito da una scampagnata notturna. Col senno di poi siamo tutti bravi a individuare le tagliole per caprioli disseminate lungo il sentiero. All’interno, la macchia si faceva più fitta, degradava verso il basso, in una depressione allagata. La confluenza dei torrenti e canali trasformavano la pineta in un acquitrino putrescente.
Dopo una decina di minuti di sentieri dell’esatta larghezza necessaria a una macchina, accostammo davanti a un bivio. Oscurammo i fanali col nastro, facendo attenzione a lasciare una fessura tra le due coperture. Non saprei dire per quale ragione, nemmeno me lo chiesi. Mi sembrò strano solo all’inizio, ma l’euforia della novità scalzò subito qualunque razionale preoccupazione. La Civetta si mise alla guida. Ci fermammo dopo poco, prendemmo torce e macchine fotografiche e c’incamminammo lungo l’argine di uno stagno. Erano cacciatori, bracconieri della notte. Pellerossa. Immaginai che fosse per quello che si chiamavano indiani.
Non c’ero neanche vicino.
Papà aveva infilato una piccola torcia in un passante della cintura, il vetro della lampada dipinto di rosso. Non ci volle molto prima che i cacciatori notassero qualcosa. Non riuscivo a fendere la coltre di una notte senza stelle se non con la fantasia. Immaginavo un cervo, un nido di albanelle, niente che avessi già visto. Non distinsi i contorni finché la freccia di destra non prese a lampeggiare, come se qualcuno avesse urtato la leva per sbaglio. Avevano i finestrini abbassati, qualcosa si sporgeva fuori con le spalle.
Eravamo abbastanza vicini per sentire. Non ne avevo mai sentiti di così chiari, limpidi, perfettamente nuovi eppure così familiari. Certi codici sono naturalmente iscritti all’interno del nostro patrimonio genetico. Le note del dolore, quelle del piacere, s’impara a riconoscerle prima che le orecchie imparino a registrarle. Mugolii a mascelle serrate, l’ondeggiare dei corpi alla frequenza imposta dal bacino. Approcciammo il bersaglio con felina delicatezza, quando fummo abbastanza vicini il lampo del flash dell’Olympus di papà abbagliò la pineta. La finestra dell’otturatore era troppo breve per memorizzare i dettagli, ma sembravano giovani, e nudi. Un altro flash; i guaiti si fecero più intensi. Li conosco, questi, esultò la Civetta. Questi ci stanno! Un altro scatto e un altro ancora. La luce dell’abitacolo s’accese. Il ragazzo era sopra di lei, teneva due giri di capelli stretti nel pugno sinistro e con la destra forzava l’apertura tra le natiche. La Civetta aveva fatto il giro della macchina e s’era slacciato i pantaloni. Se era quello che mio padre voleva che imparassi, era arrivato con qualche ritardo. Anche lui si posizionò davanti al finestrino abbassato dal quale spuntava la testa della ragazza. Il tizio allentò la presa sui capelli e iniziò ad accarezzarle la nuca. E tu, giannizzero, non ti cali le braghe? Finsi non capire, di non aver sentito, e la mia interdizione convinse papà a lasciarmi l’Olympus prima di appoggiarsi al tettuccio dell’auto e spingere il bacino all’interno. Scattai una sola volta, dissi che la leva s’era inceppata.
Indiani, ora nessun giornale chiama più così i guardoni. Forse neanche loro lo usano più.
Inzuppati di fango, insozzammo tutto l’abitacolo. Prima di partire, si fumarono una sigaretta nel buio, lo zio me ne offrì e papà gli fece cadere il pacchetto dalle mani. No, le sigarette no. Era stato previdente, aveva portato un cambio. Avremmo sciacquato in mare i vestiti sudici prima di salire. Durante il tragitto, mi disse di prendere il manuale di ornitologia da sotto il sedile. Cerca la sezione sulle specie notturne. Non importa che siano autoctone, l’importante è sapere quello di cui parli quando ti viene chiesto qualcosa. Bisogna conoscere la natura. Mamma non chiese mai nulla sugli uccelli, né pensò mai di voler vedere una foto che non fosse una diapositiva di tristezza famigliare proiettata in salotto.
Tornammo alla pineta ancora un paio d’anni, giù di lì. Che io sappia, loro ci vanno ancora, tutti gli anni. Smisi di andare in vacanza coi miei e continuammo a vivere come sempre, senza alcun riferimento alle ferie, alla Romagna, alle civette, ai pellerossa o alle cose che popolavano la notte. Non ne parlammo più. Ad essere sincero, manco ci ripensai molto, e non mi pare che da allora le seghe abbiano cambiato sapore.
Non avrei deciso di tirarla fuori adesso, se Adele non fosse schizzata via dal letto per impedire a Gigetto di finire quello che stava vedendo affacciata alla porta della camera da letto. È la terza volta, questa settimana, e chissà quante altre volte è successo. Non m’abituerò mai a farlo con la porta chiusa.
Biografie
Giacomo Cavaliere è nato a Torino il 16 luglio 1995 ed è studente della facoltà di Storia presso l’Università Statale di Milano. In passato si è occupato di esposizioni collettive e personali d’arte contemporanea, sia in qualità di curatore che di autore di critiche e recensioni. È autore di racconti di vario genere e tematiche, segnati da continue interazioni tra eventi reali e personaggi di finzione, manipolati in scenari di “contro-fattualità”. Alcuni racconti sono apparsi su l’inquieto, Bomarscé, Malgrado le mosche, Sulla quarta corda, Waste, Narrandom e Neutopia. Altri saranno pubblicati. Attualmente è membro della redazione di Frammenti rivista.
Cristiano Guitarrini, nato a Bracciano (Rm) nel 1977, prende in mano i pennelli da ragazzo, quando inizia a frequentare una scuola di disegno e pittura che lo accompagnerà per cinque anni fino ad approdare all’Accademia di Belle Arti di Roma. Durante questo percorso incontra maestri come Pedro Cano, il quale successivamente scriverà del pittore: “[…]Era un adolescente quando mi mostrò per la prima volta il suo lavoro e fui subito meravigliato della qualità delle sue opere. I suoi disegni erano di grande valore e sono stati la base per raccontare la bellezza e il dolore attraverso una pittura ricca, a volte impalpabile e altre volte fortemente materica.” Alessandro Kokocinski, altro maestro di quegli anni, pone l’accento sul legame con l’arte del passato, interiorizzata e attualizzata: “emerge una sintesi caratteristica e irrevocabile tra la tradizione pittorica e nuovi linguaggi espressivi”. Critici come Aldo Gerbino, Piero Longo e Salvatore Lo Bue evidenziano l’aspetto emozionale del suo lavoro, nel racconto di alcune città diventate teatro della vita spirituale dell’artista, come Palermo, che da diversi anni assume un ruolo di forte carica ispiratrice e di dialogo con l’autore. Claudio Strinati scrive: “[…] un artista animato da grande fervore intellettuale e da autentica passione visiva […] La sua attitudine a tradurre in immagini stati d’animo […] lo rende capace di trasformare una condizione esistenziale in forma autonoma […] un pittore del nostro tempo che tratta il dipingere con sacrale rispetto e con suprema leggerezza, proprio quando si avvicina agli aspetti più intimi e segreti di chi sa osservare […]”.
L’artista stesso scrive: “ Vorrei che la mia pittura cogliesse la compresenza tra il dato visivo e il suo superamento. Farla scorrere su quella linea dove l’emozione e il pensiero piegano il reale, senza annientarlo, fino a renderlo finalmente plausibile. E così avvertire insieme la sensazione del freddo alle ossa, la presenza ostinata della terra sotto i piedi, le nuvole gelose del sole e poi un “altrove”, suggerito da un imprevisto battito d’ali. Tutto ciò in una luce che è sublimazione della materia, senza che quest’ultima venga negata, poiché ne è il presupposto. Così come, dalla nostra umana esperienza, il corpo sembra essere il presupposto dell’anima.”
Espone dal 1998 in molte personali e collettive a Roma, Milano e Firenze. Da diversi anni ha stretto un sodalizio con la galleria Elle Arte di Palermo, con la quale collabora dal 2015. Vive e lavora a Bracciano.
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