Mastro Geppetto. Dialogo con Fabio Stassi

Mastro Geppetto. Dialogo con Fabio Stassi

a cura di Alessandro Cutrona

immagine in evidenza di Simone Stuto*

 

Cosa ci si può aspettare dalla rilettura di un classico?

Magari, la conferma di quanto si è fortunati ad amare la letteratura.

Fabio Stassi scrive la storia di Mastro Geppetto come fosse una delle possibili riscritture di Pinocchio, e lo fa con vivida capacità creativa, tanto che riesce a disegnare con le parole una commovente favola capovolta: quella di Geppetto orfano, perché rimasto solo contro le ostilità di un mondo popolato dalle menzogne e dalla derisione nei confronti dell’uomo comune.

In questo libro, pubblicato da Sellerio, l’autore veste i panni di un bravo artigiano che seleziona con cura le parole, come fossero risorse preziose.

Una versione aggiornata di una storia ben radicata nell’immaginario collettivo, ma che in questo caso non lascia spazio a fate turchine, conigli neri, giudici scimmie, medici civette, nemmeno al protagonismo metamorfico del celebre burattino di legno. La voce narrante è adesso concentrata a dare fiato a uno stanco e lacerato – dentro – Mastro Geppetto, che cade vittima di un beffardo tranello di Mastro Antonio – detto Mastro Ciliegia per via del suo naso, anche se qui non viene menzionato -, ricevendo in dono un ciocco di legno dal quale scolpire, cesellare e partorire un proprio figlio. Sperando di fare fortuna e vincere la sfida più ardua di tutte: sconfessare la solitudine. Aveva ragione Benedetto Croce a scrivere che il legno nel quale è intagliato Pinocchio fosse l’umanità, nel significato più impalpabile, lirico, come “le lacrime di resina” che potrebbero segnare il volto di un bambino di legno.

Le pagine di Stassi sono intrise di una verità che poco alla volta lievita in una scoperta: quella dell’anziano protagonista giramondo nell’animo, per i colori dei sentimenti che riesce a rappresentare nella mente del lettore, il quale a sua volta non si stancherà mai di accompagnarlo in quel rocambolesco viaggio alla ricerca di un’assenza, di un’ombra, di un ricordo oramai lontano e forse perduto.

 

 Come nasce l’idea di narrare la storia di Pinocchio dal punto di vista di Geppetto? E qual è la forza narrativa di un personaggio così fortemente caratterizzato?

Quest’idea mi è arrivata nel parcheggio di un cinema, una sera d’inverno. Ero andato a vedere il Pinocchio di Garrone e mi stavo chiedendo come avrei raccontato io quella storia. Mi aveva scosso la somiglianza tra Benigni che interpretava Geppetto e uno zio con cui ero cresciuto, ammalato da qualche anno di Alzheimer. È stato come un corto circuito. Molte cose si sono sovrapposte: Geppetto, la mia infanzia, la malattia di mio zio. E anche quello che stava sopravvenendo, l’epidemia, il lockdown, quell’aria di minaccia che non ci ha ancora abbandonato del tutto. Mi è parso di colpo di capire una cosa evidente, ma che non avevo mai compreso: che Pinocchio era soltanto una marionetta illusoria e Geppetto un vecchio che aveva perso linguaggio e memoria. Questa storia inizia così: con delle parole perse, e un vecchio che le cerca. Non ho potuto più pensare ad altro per quasi due anni. È stato come avere scoperto una terra sconosciuta. Allora ho apparecchiato il mio banchetto di falegname e mi sono messo al lavoro. Volevo raschiare il significato più riposto della favola di Collodi e restituirlo alla realtà. La forza narrativa di questa storia per me è proprio qui: nell’essere una storia reale, e non fantastica. E alla luce della realtà ogni cosa è ritornata malconcia, frusta, cadente e sbrindellata, come era in origine e come è la vita per i più fragili quali Mastro Geppetto.

In tanti si sono occupati della rilettura del capolavoro di Collodi: Manganelli, La Capria, Lavagetto, Asor Rosa, Calvino per tacere di altri, scoprendo ogni volta inediti orizzonti critici: come è possibile secondo lei?

 Pinocchio è un capolavoro, e come i grandi classici muta di senso, a seconda del tempo storico e del contesto. Il contesto era una parola cara a Borges e poi a Sciascia. Per Borges, ha scritto Alan Pauls, fare finzione era “estrapolare un materiale già esistente dal suo contesto e inserirlo in un contesto nuovo” come fece nel racconto “Pierre Menard, autore del Chisciotte. Lui non credeva alla paternità di un autore, ma all’adozione di una storia perché la letteratura è sempre di secondo grado o di seconda mano, e l’arte del racconto “un festoso elogio dell’infrazione e del travisamento”. Questa volta è stato così anche per me: ho adottato questa storia dalla prima volta che l’ho letta, o lei ha adottato me. Nelle mie intenzioni, volevo dare una lettura sciasciana a Pinocchio. Mi sono accorto soltanto alla fine che questa storia l’avevo pensata come uno spartito. Una struttura musicale di sei movimenti e un congedo. I movimenti sono: Canone, Toccata, Fuga, Variazione, Preludio e Requiem. Mi sarebbe piaciuto aggiungere anche le note di interpretazione: Scherzo, Patetico, Adagio cantabile, Andante, Lamento, Pianissimo, Adagio e i cambi di tonalità, che nel terzo e nel quarto movimento corrispondono al cambio del tempo verbale.

 

L’ossessione di Geppetto per l’istruzione di Pinocchio, come l’episodio dell’acquisto a tutti i costi di un abbecedario in cambio della propria casacca, tuona come un monito: che cibarsi di storie sia sempre una valida terapia per l’intelletto e il cuore?

 Quando Geppetto incontra Mangiafoco, nel bosco, che qui è solo un uomo che pensa ai suoi guai, indifferente anche lui alle sorti di questo vecchio che starnutisce per il freddo, il burattinaio gli chiede se pensava davvero che l’Abbecedario potesse essere utile al figlio di uno come lui. L’istruzione a cui un Giudice lo obbliga, per Pinocchio, è, anche qui, solo un’ipocrisia, una truffa, di cui il Maestro è uno dei più feroci complici. Prima di tutto ci sono le condizioni di povertà e di miseria nelle quali Geppetto, e quelli come lui, vivono. La sola vera storia terapeutica che Geppetto racconta a sé stesso è il suo desiderio di fuggire dal suo paese e di girare il mondo con una marionetta. Oppure quelle che disegna sulle pareti della sua grotta: la pentola con il fuoco, la linea di un orizzonte che a lui è precluso. Le storie sono come quella pentola, possono soltanto dare l’illusione del fuoco e del calore. Aiutano a vivere, e a sopportare la solitudine. Ma potranno essere medicamentose soltanto se diventano un pretesto per riunire le persone, e dare una forma alle storie di tutti.

 L’episodio dell’impiccagione alla quercia grande è particolarmente intenso, scrive: «Seduto lì per terra, imbrattato di fango, con quel simulacro di figlio tra le mani, pareva una di quelle pietà medievali…». A parte il sadismo Collodiano, qui appena sfiorato, ritorna l’interpretazione cristologica di un padre e della perdita del proprio figlio, ma anche il tema della corporeità dell’indimenticato protagonista. È così?

Pinocchio è stato studiato e si può leggere anche come un’allegoria del Nuovo Testamento. Ci sono tanti riferimenti, compresa la sua invocazione al padre mentre lo impiccano. Il libro finiva, di fatto, con una crocifissione nel campo dei miracoli. Nella mia storia, a essere impiccata è soltanto una marionetta senza vita. Sono gli occhi di Geppetto che contano, solo per lui quel pezzo di legno è un figlio. Mi è parsa, da questa prospettiva, ancora più atroce. E quando ho descritto questo vecchio falegname che tira giù dall’albero quello che crede essere il suo figliolo, e poi cade nel fango, mi sono venuti in mente questi dipinti medievali che a volte si incontrano in certe chiese della Toscana: Geppetto che abbraccia la sua marionetta era una Pietà. Una Pietà tutta contemporanea. Non più una Madonna con il figlio martoriato, ma neppure un padre, un San Giuseppe. Geppetto è per me il simbolo dell’amore genitoriale senza più sesso. Dell’amore incondizionato che un genitore può avere per un figlio.

 

Pinocchio per Manganelli è “il romanzo della “notturnità”, mentre per Garroni rappresenta “una corsa verso la morte, un’antifiaba”; per lei si configura forse come la storia di una perdita irredimibile che ci trascina verso gli antri più bui della ragione?

Nel mio Geppetto, la perdita irredimibile è la perdita della parola. E della memoria. La progressiva afasia dell’individuo e della società, che si può leggere anche in termini di umanità e di solidarietà. È in questo anche il terribile significato simbolico dell’epidemia che ci ha colpito. Ma la perdita della parola equivale alla perdita della ragione. Nel finale del romanzo Respirazione artificiale di Ricardo Piglia è raccontata l’agonia di Kafka, ridotto dalla tubercolosi alla faringe all’afasia in un sanatorio vicino Vienna, tra l’aprile e i primi di giugno del 1924, mentre non molto distante da lì e negli stessi giorni, in un carcere della foresta nera, Adolf Hitler detta il Mein Kampf. Se i falegnami perdono la voce, mi verrebbe da dire, il rischio è che al loro posto la trovino i dittatori.

 

Nell’epilogo, l’autore si rivolge direttamente al suo personaggio, un cortocircuito narrativo che appare naturale e spontaneo, in fondo, perché quest’ultimo è più di una creatura finzionale?

 Nell’epilogo ho cercato di strappare del tutto il telone del fondale che era ancora rimasto a fare da cornice al racconto. Mi premeva mostrare quanto la storia di Geppetto fosse una storia reale. I veri antenati di Collodi sono Sterne, Voltaire, Diderot, Dickens e soprattutto Dante. Tra i suoi continuatori Fellini. Geppetto davvero fa parte di una antica famiglia. Ma se togli tutta la parte fantastica, il paesaggio rimane lo stesso: una società crudele e ostile, pronta a lapidare gli emarginati, i  senzafamiglia e i morti di fame. Una società che non è lontana o diversa, per crudeltà ed efferatezza, dalla nostra.

*immagine tratta da: Carlo Collodi, Pinocchio. La storia di un burattino. La prima oscura edizione, illustrata da Simone Stuto e a cura di Salvatore Ferlita (il Palindromo, 2019).

Biografie

Fabio Stassi (Roma, 1962) ha pubblicato con Sellerio L’ultimo ballo di Charlot (2012, Premio Selezione Campiello 2013, Premio Sciascia Racalmare, Premio Caffè Corretto Citt di Cave, Premio Alassio Centolibri), Come un respiro interrotto (2014), Fumisteria (2015, già Premio Vittorini per il miglior esordio), Angelica e le comete (2017), e la serie con protagonista il terapeuta letterario Vince Corso: La lettrice scomparsa (2016, Premio Scerbanenco), Ogni coincidenza ha un’anima (2018) e Uccido chi voglio (2020). Ha inoltre curato l’edizione italiana di Curarsi con i libri. Rimedi letterari per ogni malanno (2013, 2016) e di Crescere con i libri. Rimedi letterari per mantenere i bambini sani, saggi e felici (2017).

Alessandro Cutrona (Agrigento, 1992) dottorando di ricerca presso l’Università degli Studi di Enna “Kore”, si occupa di letteratura italiana contemporanea, narratologia e didattica dell’italiano anche in rapporto all’universo dei media. È autore di diversi saggi: tra le pubblicazioni più recenti, il volume Questione di sguardi. Il punto di vista e la narrazione (il Palindromo, 2020), premio per la “giovane critica” Dino Garrone 2021.

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