A casa. Riflessioni su filosofia, vita e gemellanza a partire da un libro di Emanuele Coccia.*

A casa. Riflessioni su filosofia, vita e gemellanza a partire da un libro di Emanuele Coccia.*

 

di Marcello La Matina

 

 

 

Mentre la filosofia accademica si disperde nei rivoli dello specialismo certificato, altri modelli di sapienti emergono. Sapienti colti e versatili, ma assai diversi dal tipo consueto del docente accademico (il μαθηματικός di cui parlava Sesto Empirico, o il filosofo ‘universitario’ cui ha dedicato pagine severe e memorabili lo storico Pierre Hadot). Tali filosofi novissimi (novissimi nel senso dei poetae novi della Roma di Catullo) appaiono per nulla interessati a difendere o erigere steccati disciplinari; al contrario, promuovono intriganti esplorazioni tematiche, inediti contagi metodologici e fin anco inviti alla diserzione disciplinare. Tutte cose che (il lettore lo vede da sé) fanno spesso sussultare (di sdegno, perlopiù) l’Accademia ormai condannata alla vieta trasformazione dell’università in azienda e, perciò, dei circoli di otium in catene di montaggio in stile post-fordista.

Il più rappresentativo in questa generazione di νεώτεροι è il filosofo Emanuele Coccia. Marchigiano di nascita, cosmopolita per vocazione, Coccia insegna alla «École des Hautes Études en Sciences Sociales» (EHESS), la prestigiosa istituzione parigina dove, solo per fare qualche nome, tennero cattedra studiosi come Claude Lévi-Strauss, Michel Foucault, Jacques Le Goff o Jacques Derrida. Fiero avversario di ogni castrazione della curiosità intellettuale, Emanuele Coccia ritiene lo specialismo non già un eccesso di sapere, bensì «una rinuncia cosciente e volontaria al sapere degli ‘altri’» (Coccia 2: 126 e 135-6). E considera la filosofia alla stregua di una non-disciplina che, già nel nome (φιλο-σοφία), rifiuta di consegnarsi a un metodo o ad un campo di fenomeni dati una volta per tutte, per mostrarsi invece come un’attitudine e un dispositivo del desiderio. Un non-sapere, insomma, che fa impigliare ogni volta nelle maglie del suo discorso costellazioni disparate di saperi e stili epistemici, tutti però «attraversati da un eccesso impressionante di desiderio»: ‘filosofia’ è dunque il nome di una erotica capace di sommuovere e animare ogni pratica discorsiva. In tal senso, il percorso intellettuale e filosofico di Coccia parla da sé. Conseguito il dottorato in Filosofia medievale a Firenze, egli ha studiato a fondo la teologia cristiana medievale e l’averroismo latino, affrontando con rigore e originalità ricerche sui temi delle immagini e dell’angelologia cristiana, ebraica e islamica, sulla teoria del potere in Occidente, e perfino sul discorso pubblicitario come moderna teoria morale. Nell’ultimo decennio Coccia ha concentrato la sua attenzione sulla filosofia della natura e della vita, giungendo alla formulazione di un pensiero originalissimo e fecondo.

In una avvincente trilogia, Emanuele Coccia ha attirato l’attenzione dei suoi numerosi lettori sulla potenza creatrice immanente al mondo. Nel 2016, con La vie des plantes ha presentato un modello della ragione vegetale, disegnando al contempo una metafisica della mescolanza:

«Pensare la ragione come fiore – o, all’inverso, pensare il fiore come forma di esistenza paradigmatica della ragione – porta a concepirlo come la facoltà cosmica della variazione di forme». (Coccia 2: 126)

Il fiore è un ‘attrattore cosmico’, capace di fondare una economia della mescolanza. Nel 2020, con Métamorphoses argomenterà in modo simile che una sola è la vita e che tutte le specie viventi non vivono altro che questa sola e unica vita. Esempio paradigmatico è il bruco che diviene farfalla: qui ci sono due forme distinte, con niente di anatomico o di etologicamentea rilevante in comune; e però, bruco e farfalla sono «la stessa vita, lo stesso sé». Ciò vale anche per gli individui di altre specie, tanto viventi che minerali, dai batteri, ai virus e agli animali. Ogni volta nel mutare delle forme si sperimenta che la vita sussiste in corpi separati come una sola vita:

«Nascere significa ogni volta prendere un corpo che era quello di un altro (la propria madre, il proprio padre, ma tramite loro anche tutti gli altri) e farne la propria carne. Non siamo mai soltanto figli e figlie, come non siamo mai solo fratelli e sorelle. Noi condividiamo lo stesso volto; non abbiamo bisogno di assomigliarci». (traduco: Coccia 3: 36)

 

Salvo che, per Coccia, questa unicità della vita sulla terra deve affrancarsi dalle teleologie e dalle genealogie che per secoli hanno dominato buona parte del pensiero filosofico. Ciò che nella metamorfosi viene in chiaro è la continuità autotrofica della vita. Questa non è la prestazione di un antenato che iscriva diacronicamente i propri caratteri – a mo’ di un palinsesto – su quelli dei discendenti, ma piuttosto la manifestazione di una gemellanza (gémellité) che appartiene alla vita stessa e che ad ogni nascita si trascrive lateralmente e liberamente (cfr. Coccia 3: 35-38). Pertanto, se tutti i viventi sono attraversati dallo stesso respiro ed esistono in tale gemellanza, allora c’è spazio perché questa originale visione della vita detti le condizioni per una nuova etica, distinta tanto dalla morale individualista di stampo anglo-sassone che dalla morale collettivista – e, in fin dei conti, borghese – che caratterizza il pensiero materialista di ogni tempo (cfr. Coccia 3: 187 ss.).

Il terzo volume della trilogia è Filosofia della casa. Lo spazio domestico e la felicità (2021), che ora appare per Einaudi/Stile Libero. Già, ma cosa c’entra la filosofia della casa con la vita delle piante e le metamorfosi dei bruchi? E questo vorremmo dire in quel che segue, senza però scrivere una recensione (ché tante ve n’è, e anche belle), ma provando a trascrivere a margine delle pagine alcuni scolii, alcune note di lettura, che sono frutto della mia consuetudine con questo libro. La prima domanda di Emanuele Coccia è: “come è stato possibile che la filosofia, dall’esperienza dei Greci a venir qua, abbia così tanto trascurato il tema della casa?”. Eppure, noi umani abitiamo case e non città; tra ognuno di noi e la città in cui vive c’è sempre un intermediario insopprimibile: la casa.

La filosofia ha parlato quasi solo di città, da Platone ad Agostino e da Hobbes a Benjamin. Perfino la nozione politica e patristico-teologica di οἰκονομία (lett. “amministrazione della casa”) benché rimandi alla casa, è stata pensata con riferimento alla città, alla polis, allo stato. La filosofia – se si escludono le intriganti osservazioni di Ludwig Wittgenstein – non ha dialogato con la casa, ne ha anzi fatto l’oggetto di una negligenza teorica. Di fatto, potremmo dire, se la Città è sempre in vista, la Casa, come l’essere, ama nascondersi, rendersi invisibile. Occorre quindi stanarla; ed è quello che Emanuele Coccia fa nel suo libro, rivisitando i propri incontri con le tante case che ha abitato nella sua vita. La prima epifania della casa è il trasloco. Là dove la casa si rende evidente come tale è nel momento del trasloco, quando iniziamo ad addomesticare e appropriare a noi qualcosa che sta intorno a noi: il nostro occasionale gradiente. I filosofi Stoici avevano una parola per questo assuefarsi reciproco: οἰκείωσις, «una parola bellissima che significa ‘appropriazione’ (nel duplice senso di render proprio e di rendersi appropriato a qualcosa), ‘assuefazione’ (nel duplice senso di rendere simili a sé o rendersi simili ad altro), ‘addomesticamento’». (Coccia 1: p. 18)

Coccia mette in relazione l’esperienza del trasloco con l’esperienza stessa della soggettività:

«È traslocando che ho imparato a capire qual è il movimento psichico e corporeo cui diamo il nome di ‘io’» (Coccia 1: p. 19)

La casa che è qui in questione non è l’articolazione di uno spazio vuoto che andrà riempito da oggetti, bagagli, mobilia. Non è la casa come artefatto, come prodotto architettonico, ma la casa come fenomeno morale ad interessare Emanuele Coccia. Non si tratterà pertanto di considerare un grumo di materia lignea o petrosa attorno al quale si siano coagulate alcune proprietà formali (estetiche, architettoniche, politiche), come tante marche predicative attribuite a una sostanza fisico-semiotica. La casa non è una cosa, non è sostanza e neppure struttura ilomorfica, ma «un aggregato di tecniche di adeguazione tra sé e il pianeta, una piega cosmica che fa coincidere per un attimo psiche e materia» (Coccia 1: 16) Inoltre, la casa non è neppure quel regno della privatezza e del riserbo di cui sempre ci parla il discorso pubblicitario e la narrazione oggi comune della para-letteratura. A dispetto della pervasività di questa visione consolatoria, Coccia sottolinea una diversa intuizione: la casa è anche «una tecnica materiale e psichica che usiamo per intrecciare la nostra vita e il nostro destino con quelli altrui» (Coccia 1: 23)
Andare ad abitare in una nuova casa non è dunque un mero accidente nella vita delle persone, ma una di quelle epifanie nelle quali la Casa – complice una certa Stimmung – si dà a vedere quale dispositivo morale, al di fuori della consueta maschera oggettuale in cui si racchiude. Una tale casa è per solito vuota, deserta. Cosa accade quando siamo a cospetto di un siffatto spazio inabitato? di un appartamento completamente vuoto? Coccia racconta la sua prima esperienza a Friburgo, a inizio carriera: «È stata l’esperienza più importante dei miei ultimi anni. In quei giorni ho capito che lo spazio nella sua purezza è fisicamente inabitabile. Avevo una casa in cui il più elementare degli atti di vita era impossibile. Era impossibile dormire perché il pavimento era troppo duro e troppo freddo (…) Servivano cose, e non spazio. È un’astrazione: perché invece di costruirsi sulla realtà dei gesti e del mondo di cose che popolano la vita di ciascuno di noi, li riduce a un fatto esclusivamente geometrico. In realtà, la forma-casa – il suolo, il tetto, le pareti – è per definizione l’inabitabile» (Coccia 1: 42).
Nella contrapposizione tra uno spazio domesticato e uno ancora selvatico, Coccia pensa certamente alle splendide pagine che Émile Benveniste ha dedicato all’immaginario topologico dei greci e dei romani. Nella cultura indoeuropea vi era una opposizione forte tra spazio interno e spazio esterno. Nel latino arcaico essa era evidente nella contrapposizione tra domi (a casa) e foris (fuori, all’esterno). Tuttavia, questa coppia non è simmetrica, perché il termine foris indica la porta e non lo spazio esteriore alla casa. Non solo dunque «il fuori incomincia dalla porta», ma il fuori presuppone un osservatore che sia collocato in uno spazio osservato dall’interno: qualcuno o qualcosa è fuori per chi sta dentro; ed è spazio non domesticato solo quello spazio che può essere aperto a partire dalla casa.

Naturalmente, l’opposizione domi/foris era declinata anche nel mondo degli dei, dove Estia era la dea del focolare, il pegno della stabilità e della permanenza, mentre Ermes rappresentava lo spazio fuori dalla porta, l’oltrepassamento, il contatto con il gradiente occasionale. Coccia dedica un bel capitolo (‘Amori’. Coccia 1: 21-28) ai disequilibri passionali nella casa, dove l’amore è il rito misterico proprio dello spazio domestico, e dove la sua divinità tutelare, Eros, patisce però un declassamento rispetto al dio Eracle. Nella casa, il rito e l’occasione sono come il vuoto e il pieno in filosofia. Ogni casa è suscettibile di ridefinire queste nozioni, mostrandone la natura bifida: vuoto e pieno, come prossimo e distante non sono coppie concettuali geometrali, ma modi di darsi di ciò con cui, nella casa, possiamo avere o no a che fare. Non sono caratteri astratti della spazialità, ma nozioni economiche, che solo nella casa, a casa, possono ricevere un contenuto esperienziale.

Ma, come abbiamo visto, Coccia supera questa contrapposizione dentro/fuori, per indicarci nella casa qualcosa come il rivelatore di una “ebbrezza ontologica”, in virtù della quale noi siamo sempre l’identico e il qualsivoglia altro, l’io e tutto ciò che questo io avverte come gemello a sé. A casa, le leggi dell’identità tautologica allentano i propri tentacoli; e noi – come tutti i bambini fanno, quando sono incapaci di differenziare la propria dall’altrui vita – finiamo con il presentire a casa «uno spazio di libera circolazione di questa medesima vita tra più corpi: una sorta di incantesimo che permette, almeno per un attimo, che persone e oggetti diventino gemelli» (Coccia 1: 66). Le nostre note a margine potrebbero ancora spingersi oltre, ma non vorremmo togliere al lettore il piacere, che noi abbiam sentito acuto, di scoprire passo passo, stanza dopo stanza, le meraviglie nascoste della casa. Del resto, la tesi di fondo è chiara. La casa di cui tratta Emanuele Coccia non è un oggetto dell’esperienza, senza essere al contempo una condizione di possibilità dell’esperienza stessa.

Il luogo principe di questa esperienza di gemellanza cosmica è per Emanuele Coccia la cucina. Ad essa dedica un capitolo insieme corposo e lieve, come sempre dovrebbe essere in filosofia quando ne va della vita. La cucina è quel che i semiologi direbbero uno spazio utopico, ossia il luogo dove avvengono quelle trasformazioni narrative che mettono il senso in condizione di significare. Infatti, «cucinare non significa solo trasformare quello che ci circonda, ma soprattutto instaurare e preparare la propria metamorfosi attraverso quello che si è tagliato o affettato, grattugiato o tritato, stufato o fritto, bollito o grigliato» (Coccia 1: 115).

L’atto di cucinare non è un mero fare trasformativo, mediante il quale un soggetto si assicura un potere su un oggetto, sottraendolo al regime della naturalità per introdurlo nella sfera della cultura. La cucina, scrive Coccia, «è la forma trascendentale del rapporto di qualsiasi realtà col mondo e con il pianeta» (Coccia 1: 114); in primo luogo, perché l’atto di cucinare ci insegna che non si dà mai un rapporto di mera contemplazione con il mondo, ma che essere in intimità con il mondo è sempre anche voler trasformare il mondo; poi, perché soprattutto la cucina ci insegna che abitare il mondo è possibile soltanto consentendo a questo di confondersi con noi, in una interpenetrazione reciproca. Cucinare è sacrificare una parte della sostanza cosmica, affinché essa contribuisca a cambiare non solo sé stessa ma anche lo stesso attore del sacrificio. In questa relazione che è il cucinare il soggetto e l’oggetto vengono presi in una metamorfosi che ne neutralizza la contrapposizione attanziale.

La filosofia della casa è perciò una filosofia dell’a casa, dell’unico νόστος di cui oggi possiamo rivendicare l’agentività: vivere in una privatezza che ci restituisce a noi stessi soltanto quando siamo a casa nel mondo, così «da non lasciare più alcuno spazio residuo». (Coccia 1: 123).

* INDICHIAMO QUI I TRE LIBRI DI EMANUELE COCCIA CUI ABBIAMO FATTO RIFERIMENTO NELLE NOSTRE PAGINE:
(Coccia 1): (Coccia 2): (Coccia 3) :

Filosofia della casa. Lo spazio domestico e la felicità, Einaudi (Stile libero extra), Torino 2021.

La vita delle piante, il Mulino. Bologna 2020; (ed. orig. La vie des plantes, Payot & Rivages, Paris 2016).

Métamorphoses, Payot & Rivages, Paris 2020 (trad. ital. in uscita: Einaudi 2022)

 

Biografia

 

Marcello La Matina, palermitano, vive a Macerata dove insegna Semiotica e filosofia del linguaggio  all’Università.

No Comments

Post A Comment