Prima di noi. Dialogo con Giorgio Fontana

Prima di noi. Dialogo con Giorgio Fontana

 a cura di Alessandro Cutrona

 

Tolstoj nell’indimenticato incipit di Anna Karenina (1887) scrive: «Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è invece infelice a modo suo»; se tale premessa è valida, simili parole risuonano come profezia che si avvera ogniqualvolta ci si imbatte nella vertiginosa lettura di una saga famigliare.

È il caso di Prima di noi di Giorgio Fontana, una storia che alla maniera di tutte le altre narra a modo proprio l’infelicità, quella personale e intessuta dalla genetica dei ricordi intrecciati a rimpianti e segreti lontani. Un’eredità invisibile e non voluta, eppure essa rappresenta quell’ardito passaggio obbligato che deve inevitabilmente essere attraversato; per questo menzionata e riportata alla luce più volte nel corso della lettura.

Cosa c’è prima di noi e del nostro tempo?

Spinoza negava l’esistenza del tempo e lo riteneva qualcosa di astratto, più precisamente: un modo in cui il pensiero “funziona” per astrarre la realtà nella quale ci si trova imbattuti. Un’idea confutabile per la durata delle cose finite, quelle con un principio e una fine, pertanto, si rintraccia un rapporto di sinonimia fra l’esistenza e la durata.

Da secoli l’atlante letterario, con le sue storie popolate da personaggi e abitate da una pluralità di sguardi, continua a “esistere” in una temporalità propria, astratta e infinita: quella della coscienza del lettore. Le storie contemplano sempre una fine, però sopravvivono ad essa attraverso la narrazione, quell’impalpabile forma materica che dà voce al verbo, al racconto e alla condivisone.

La risposta alla domanda sovviene immediata alla conclusione della lettura di Prima di noi, l’epopea della famiglia friulana dei Sartori che ha inizio con un antieroe per eccellenza: il disertore Maurizio Sartori, un codardo e un amante che fugge persino dal figlio che per sbaglio ha messo al mondo. Eppure, questa fuga dagli eventi non è una facile scappatoia, ma un effimero atto di fedeltà per se stesso: l’infedeltà è in fondo un atto di grande fedeltà verso di sé.

Maurizio Sartori si redimerà presto, assumendosi le responsabilità nel ruolo di marito, padre, ma covando sempre il triste pensiero di un esistenza immutabile e in partenza condannata alla caducità. Sarà proprio il capostipite ad avviare una dimensione temporale che evolverà (volontariamente o meno) a una collisione impercettibile nella vita dei pronipoti.

Il tempo, allora, è quella dimensione che guida la mente umana ma non può impartire una vera conoscenza del reale, che è invece possibile perseguire sub specie aeternitatis, cioè confutando sulla realtà nel suo statuto ontologico di unione, infinitezza ed eternità.

I personaggi di Fontana vivono una vita che a distanza di quattro generazioni si intreccia nelle autostrade di un destino già disegnato da una fine ciclica, quasi una sorta di eterno rimosso. Nella storia di questa famiglia si rintracciano i segni del tempo visibili fra la vita e la morte, eppure si tratta di qualcosa riconducibile a un processo della mente, a un pensiero lontano, a un’immagine conservata nel bagaglio della memoria. Maurizio Sartori dà inizio a una dinastia senza sapere cosa gli riserverà il futuro, proprio in quella condizione umana che non può conoscere la conseguenza di tutte le cose se non attraverso la cieca esperibilità della vita.

Prima di noi è un romanzo sorretto da un impianto narrativo sapiente, custode di uno stile equilibrato e vivido, con un intreccio dispiegato su uno sfondo storico che attraversa il secolo scorso: quello a noi più familiare che ci caratterizza e identifica, inducendo tutti al ricordo di chi siamo. La fluidità della scrittura di Fontana tratteggia schizzi di inchiostro che si raggrumano in sentimenti in presa diretta, quali ad esempio: il coraggio, l’amicizia, l’amore, la paura, attraverso un realismo anti-epico e anti-mitizzante che non pianta radici tra l’evidente mole delle pagine, ma inchioda l’attenzione del lettore dalla prima all’ultima.

 

Da dove nasce la riflessione sul tempo che tesse la memoria e ci interroga sulle nebulose del futuro?

 A un certo punto della prima stesura, molti anni fa, rilessi le Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin, e rimasi folgorato da un passaggio: “C’è un’intesa segreta fra le generazioni passate e la nostra. Noi siamo stati attesi sulla terra”. Il brano è celebre ma, come talora capita, l’avevo completamente rimosso — o forse non mi sarei mai aspettato che una suggestione di carattere teologico-politico potesse aiutarmi a chiarirmi cosa stavo scrivendo. Ma di fatto è quanto accade nel romanzo: a un certo punto c’è un brusco movimento temporale all’indietro, una sorta di inversione della marcia cronologica, in cui si comprende che la responsabilità non è data soltanto nei confronti del futuro ma anche del passato; di coloro che nel passato vissero, amarono e sbagliarono.

 

La coralità narrativa di questo romanzo è un valore aggiunto, la narrazione policentrica è uno dei punti di forza dell’opera che evoca alla memoria I Buddenbrook di Thomas Mann (1901), Lessico Famigliare di Natalia Ginzburg (1963), Le correzioni di Franzen (2001), 4321 di Paul Auster (2017). Quali i tuoi riferimenti nel corso della stesura?

 Innanzitutto ho sempre tenuto sulla scrivania e riletto più volte Underworld di Don DeLillo: un romanzo diversissimo da Prima di noi per varie ragioni, non ultima il fatto che DeLillo è un genio e io sono io. Al di là di questo erano gli aspetti meno postmoderni o strettamente americani a interessarmi ed essere motivo di costante studio e ammirazione: l’organizzazione strutturale, l’eccezionale fluidità dei dialoghi, l’alternarsi di piccole sequenze narrative, la precisione del dettaglio, il nitore e lo smalto della lingua. Penso in particolare alla penultima parte, Composizione in grigio e nero, dove per sua stessa ammissione DeLillo scalda lo stile imbevendolo di ricordi e schegge di lingua stradaiola, restituendoci l’affresco di un Bronx anni Cinquanta dai colori più vicini al realismo classico.

Oltre ad Underworld, vorrei citare Il cavallo rosso di Eugenio Corti (un vasto e grandioso romanzo che attraversa una trentina d’anni della nostra storia, dalla Seconda guerra mondiale al Sessantotto); Maria Zef di Paola Drigo (un altro gioiello, purtroppo poco noto); Una questione privata di Fenoglio (per la lingua, per lo struggimento, perché è il mio romanzo preferito del secondo Novecento italiano); Gita al faro di Virginia Woolf (per ragioni che io stesso fatico a spiegarmi); e poi Némirovsky, Stendhal, Joseph Roth, e tanti altri.

 Prima di noi è un libro, verrebbe da azzardare, in odore di classico per via della solida architettura narrativa, che a sua volta si poggia sulla riproposizione storica del secolo scorso, delineando in questo modo un ritratto delle nostre identità. Cos’è che ci rappresenta di più oggi?

In tutta onestà, non saprei proprio. Con questo romanzo ho attraversato quasi cento anni di storia italiana (e non solo), e la domanda sull’identità in qualche modo si poneva da sola; ma ho preferito non cercare alcuna risposta precisa — motivo per cui non posso fornirla in questa intervista. Mi sono limitato a raccontare le vicende concrete e singolari della mia famiglia Sartori: vicende per certi versi molto comuni, e dunque molto “italiane”, ma senza alcuna pretesa di universalità o di definizione di qualche carattere generale.

Si legge (pagina 69): «Quando ebbe finito portò il teatrino alla finestra per rubare un ultimo scampolo di luce e contemplare il lavoro. Forse poteva chiedere al nonno in campagna; dopotutto sapeva intagliare un poco il legno. Non sarebbero mai stati come quelli di Novasel, ma l’importante era la storia, si disse; e alla storia avrebbe pensato lui, magari con l’aiuto dei libri in biblioteca». I personaggi principali rivestono il ruolo di narratori delegati, ereditano il passato come fosse il passaggio del testimone dal più anziano al più giovane. È anche questa la funzione della letteratura, ossia custodire la memoria?

“Anche”, forse: non credo che la letteratura in generale debba porsi come obiettivo primario la custodia della memoria, o qualsiasi altro obiettivo che la trascende; al più è uno spunto per il processo creativo, o appunto un fenomeno collaterale. In ogni caso non era quello cui pensavo in primo luogo scrivendo Prima di noi, se non nei termini che ho cercato di spiegare poc’anzi: il compimento, per così dire, dell’epopea dei Sartori sta nell’apprendere un nuovo sguardo nei confronti del proprio passato — uno sguardo carico di pietas. Più che eredità del passato forse è una sua reinterpretazione.

Spero di non essere stato troppo elusivo: è sempre difficile rispondere in modo sensato e non retorico alla domanda sulla funzione della letteratura. Comunque, fra le suggestioni possibili trovo particolarmente interessante quella di Northrop Frye, che nell’aureo libretto Il critico ben temperato scrive: “Davanti a un’esperienza letteraria inusitata la domanda pertinente non è “È vero?”, bensì: “Una cosa simile può concepirla l’immaginazione?” In caso di risposta negativa, esiste ancora la possibilità che il nostro concetto di ciò che è concepibile dall’immaginazione debba essere allargato. In tal modo la letteratura fornisce una riserva di possibilità d’azione; ci offre una comprensione e una tolleranza maggiori, e nuove prospettive d’azione; aumenta la capacità di esprimere le credenze sia nostre che altrui.”

La famiglia Sartori nasce quasi per errore e da una passione estemporanea. Paure, desideri e le diverse forme di emotività disfunzionali creano legami fra gli eroi di carta: qual è allora il lessico famigliare dei Sartori?

 Ognuno dei Sartori possiede una qualità specifica, che a volte si rovescia anche in un impedimento a una vita serena perché non pienamente attuabile, in conflitto con quanto la società raccomanda o vieta: il canto, il disegno, l’ambizione poetica, la fede nella rivoluzione, la fede cristiana e così via. Attraverso tale qualità i Sartori cercano in vari modi, fallendo o riuscendoci parzialmente, di combattere la macchia che si trasmette surrettiziamente di generazione in generazione, la colpa di Maurizio Sartori che nel tempo è divenuta destino: forse è questo che li accomuna — questa lotta strenua, continua, perenne; e tutte le domande che naturalmente trascina con sé.

 

Biografia

Giorgio Fontana è nato a Saronno nel 1981 ed è cresciuto a Caronno Pertusella. Vive a Milano. Ha pubblicato alcuni libri (più un reportage a fumetti scritto a sei mani) e con il romanzo Morte di un uomo felice ha vinto il Premio Campiello 2014. Il suo ultimo libro è la vasta saga familiare Prima di noi (Sellerio 2020, vincitore fra gli altri del Premio Mondello e del Premio Bagutta). Sceneggia storie per  Topolino e insegna scrittura alla Scuola Holden e alla Scuola Belleville.

No Comments

Post A Comment