L’enigma de “La Tempesta” di Giorgione in Cees Nooteboom

L’enigma de “La Tempesta” di Giorgione in Cees Nooteboom

di Giovanna Di Marco

 

Lo scrittore Cees Nooteboom ha dedicato la sua ultima opera Venezia. Il leone, la città e l’acqua (Iperborea, 2021) alla città lagunare, dopo alcuni viaggi compiuti in un lungo asse temporale. Accompagnato dalla presenza di autori come Proust, Ruskin, Mann, Pound o Brodskij (come non ricordare il simile Fondamenta degli incurabili?), e in opposizione alle scritture di fiction, attraversa la città nei suoi tessuti e stratificazioni e se ne meraviglia ancora: come è possibile che essa sia potuta accadere? L’immagine che ne emerge è quella del labirinto e la sensazione che vuole trasmettere nel raccontarla è quella dell’anacronismo, delle contraddizioni: lui, olandese di Amsterdam, trova molte assonanze con la sua città lontana, non solo per la presenza imperante del mare, ma anche a causa del turismo che ha sgretolato l’immagine autentica di quei luoghi, consegnandoli fenomeno di massa, tipico della società contemporanea: “C’è qualcuno in grado di dire quanti sono i veneziani dipinti, scolpiti, intagliati nell’avorio, cesellati nell’argento? E immaginiamo – pensa ancora, ma solo perché è tanto stanco – che un bel giorno si ribellino tutti quanti insieme, che lascino le loro cornici, nicchie, predelle, piedistalli, arazzi, cornicioni per cacciare via i giapponesi, gli americani e i tedeschi dalle loro gondole, occupare i ristoranti e, con le loro spade e i loro scudi, i manti di porpore e le corone, i tridenti e le ali, esigere finalmente il compenso per dieci secoli di fedele servizio”.

Ma, appunto, seguendo quel principio di sfasatura temporale, anacronistico, da coltissimo autore quale è, non può fare a meno di descrivere questa città impossibile e reale, nel limite di quella che oggi può essere una descrizione. Perché si deve tenere conto anche del pubblico destinatario del suo scritto: “In fin dei conti l’arte della descrizione ha al giorno d’oggi dei limiti, limiti dovuti alla pazienza del nuovo lettore. Prima di partire mi sono comprato un libro di Hyppolite Taine del 1858, e i brani che ho segnato tutti dello scintillio sulle onde, lezione di umiltà anche questa, perché nella sua descrizione l’acqua scintilla davvero. Mentre me ne sto qui mi rendo conto di quanto è difficile far ciò che l’Ottocento faceva senza alcun imbarazzo: descrivere nei particolari più minuti le nostre impressioni di quel che c’è da vedere”.

Ora che le acque sono sordide che funzione può avere la descrizione? Mi soffermo su un dipinto a cui Nooteboom presta attenzione: La Tempesta di Giorgione, uno dei più misteriosi della storia dell’arte di tutti i tempi, un esempio emblematico d’incontro tra la figura umana e la natura.

Il dipinto, realizzato tra il 1503 e il 1504, oggi allocato presso le Gallerie dell’Accademia di Venezia è in realtà un piccolo quadro, che però ha scompaginato e rivoluzionato la storia dell’arte. Il suo enigma duplica in realtà l’enigma del suo autore di cui poco si sa: nebulosa e confusa è la sua vita, riportataci in modo contraddittorio dalle stesse fonti. In merito al quadro, le interpretazioni, tra le più variegate, si sono avvicendate nel tempo: si tratta di un tema biblico, filosofico o puramente legato ai voleri della committenza?

“Il soggetto di Giorgione è il prodotto di una fantasia autonoma che non deve nulla alla tradizione né figurativa né letteraria, ma dipende dal piacere di Giorgione stesso del suo amico Gabriele Vendramin”, scriveva Lionello Venturi. E, a riprova di questo, ci sono le radiografie che mostrano i pentimenti dell’artista nel compimento dell’opera: non era dunque un soggetto o un tema a essere interessante, quanto la pittura in sé.

Giorgione, del resto, anche in altre opere, sebbene ancora legato a temi sacri, può intendersi come primo pittore ‘laico’ e aduso a rappresentare, sullo sfondo di storie bibliche, una natura che ha una sua autonomia dal tema religioso, più che in Giambellino, che al sacro è ancora legatissimo (si ricordi la Sacra Allegoria); prende anche le distanze dal riferimento all’antico, come sottolinea Giulio Carlo Argan, distinguendolo da Andrea Mantegna: “in Giorgione il riferimento all’antico non è mai esplicito, al contrario di come avveniva nella pittura del Mantegna, che dichiarava le sue fonti classiche. L’umanesimo per Giorgione, non è più una somma erudizione né l’imitazione o l’emulazione dell’antico: è la condizione per cui la coscienza umana, satura di antica esperienza, compie con assoluta pienezza l’esperienza del presente o della vita”.

 

L’esperienza della vita ne La Tempesta sarebbe riconducibile a quella serpe di luce che è il lampo che dà il titolo all’opera, o meglio, che così fu definita da Marcantonio Michiel, quando, nel 1530 la vide esposta nella casa di Gabriele Vendramin. Ma se l’opera raccontasse il semplice evento atmosferico, se raccontasse dunque il paesaggio (insieme di natura e cultura) non si presterebbe al mistero, all’enigma fornito dalla presenza delle tre figure umane: l’uomo a sinistra e la donna e il bambino che allatta al seno alla destra degli osservatori.

Ed è la donna a stupire e attrarre Nooteboom dentro il quadro: “Ancora oggi che ho visto quel quadro innumerevoli volte, mi domando che cosa sia stato, che cosa di preciso. C’era un significato che mi riguardava e non capivo quale. Lei era dipinta e io, per il momento ero ancora reale”. È dunque la donna ad attirarlo dentro l’opera, la donna posta con il volto di tre quarti, espediente che verrà reiterato nella pittura della Controriforma, per attrarre l’astante verso l’evento meraviglioso e miracoloso narrato nell’opera. Per Nooteboom il mistero non è quel lampo nel cielo, è quella donna: “il bambino [attaccato al suo seno] beve ma lei guarda me, il che vuol dire ogni me che in un dato momento guarda lei”.

Dopo una breve descrizione interrogativa sulla funzione dell’altra figura, quella maschile a sinistra e sul senso dei vari elementi architettonici e naturalistici a cui non sa dare risposta, Nooteboom ritorna alla figura femminile: “Le foglioline sottili di un piccolo cespuglio, lì accanto, si disegnano quasi come un tatuaggio come un tatuaggio contro la pelle nuda e come una decorazione sulle pieghe del panno bianco che le scende fino a metà schiena […] l’espressione sospettosa della donna, l’enigma dei suoi pensieri e poi, irrazionale, il mio profondo desiderio di entrare in quel quadro, passarle accanto, aggirarmi per la città, chiara e radiosa come una visione, e infine, affrettato e inquieto, uscire dall’altra parte dell’abitato, tornare alla donna e starle vicino, divenire colore e allo stesso tempo invisibile, un uomo dipinto accanto a lei, sull’erba, parte del suo segreto”.

Il bisogno, la necessità dell’autore di ‘diventare colore’ ci fa comprendere quanto questo dipinto non possa davvero essere spiegato se non in ciò che realmente vediamo: il colore è la sua sostanza, il colore lo ha definito e lo ha reso moderno e rivoluzionario, in quanto prima opera senza disegno; l’ispirazione è corrente vitale, come un’istantanea fotografica sull’evento fenomenico, laddove “la natura non rivela i suoi sensi profondi se non attraverso l’esperienza e l’interpretazione umana”, come ribadisce Argan.

L’improvvisazione di Giorgione, che ha portato Dio extra ecclesiam, dissacrando “il mondo sacro, immergendolo nella natura; al contrario di quanto facevano i suoi predecessori anche immediati i quali consacravano la stessa natura, semmai immergendola nel mondo sacro”, come sostiene Virgilio Lilli, vedrebbe dunque il pittore vòlto a dedicarsi alla pittura per la pittura, al puro esercizio della bellezza e del mistero dell’uomo in relazione con la natura nella scala delle sue possibilità.

Nel momento in cui Nooteboom dà avvio l’ecfrasi e riflette sulla donna che guarda l’astante ci dice: “La stessa cosa deve valere per il pittore, anche se lui non poteva essere dentro quel paesaggio. L’ha vista nella sua immaginazione”. Ora che le acque di Venezia sono torbide e non più limpide come ai tempi di Taine, ora che la città è infestata di turisti, cosa rimane a chi, come l’autore, vuole permettersi di descrivere se non l’immaginazione? Ponendosi dal punto di vista di Giorgione autore, Nooteboom ripercorre la sua stessa strada: non risolvere l’enigma, ma desiderare di farne parte, diventare lui stesso colore (mi ricorda il pittore giapponese che entra nei quadri di Van Gogh nel film Sogni di Kurosawa); ora che tutto è stato detto e tutto è stato scritto perché non osare la scrittura per la scrittura, come Giorgione aveva rivoluzionato l’arte per esprimere la pittura per la pittura?

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