13 Gen Rivolta poetica di una poetica rivolta
Rivolta poetica di una poetica rivolta
di Dario Pontuale
Non è affatto facile essere annoverato tra i geni della storia del cinema con appena quattro pellicole all’attivo che, se sommate, non superano tre ore di proiezione. Eppure tanto basta al “poeta maledetto” della settima arte, al regista parigino Jean Vigo, nato nel 1905 e scomparso appena ventinovenne. Era figlio di Eugène Bonaventure Vigo, giornalista militante, prima anarchico e dopo socialista, meglio noto con lo pseudonimo di Miguel Almereyda, carcerato con l’accusa di spionaggio, ritrovato in cella con dei lacci da scarpe attorno al collo. Una morte oscura e dai mandanti incerti. Jean rimane orfano e additato come il “figlio del traditore”, perfino la madre se ne sbarazza rinchiudendolo in collegio sotto falso nome. La ribellione diventa una costante del suo carattere, l’anima libertaria un’eredità. Tornato a Parigi respira l’aria surrealista, scopre l’amore per il cinema e d’essere affetto dalla tubercolosi.
In un sanatorio sui Pirenei conosce Elisabeth Lozinska, detta Lydu, giovane polacca che diventa sua moglie, madre dell’unico figlio, con la quale spartisce la passione cinematografica. Si trasferisce sulla Costa Azzurra, clima più adatto ai polmoni malconci, a Nizza conosce l’avanguardia filmica di Germaine Dulac e l’aiuta come assistente operatore. Grazie a una piccola somma di denaro donatagli dal suocero, acquista una cinepresa di seconda mano; collabora con un certo Boris Kaufman, talentuoso direttore della fotografia fuggito dalla Russia, fratello minore del cineasta Dziga Vertov, celebre teorico del “cineocchio”. Una duratura amicizia, una prolifica sintonia che subito tenta l’esperimento di catturare la quotidianità di una metropoli per evidenziarne i contrasti sociali. Ne nasce il documentario A proposito di Nizza (À propos de Nice), ventiquattro minuti datati 1930, dove le salottiere ambientazioni turistiche, si avvicendano alla crudezza dei bassifondi. Seguendo il dettame vertoviano, Vigo nasconde la camera per afferrare il ‘vero’, aggiunge poi un montaggio frammentario con dissolvenze incrociate, cancella le didascalie del muto. Fustiga la vacuità mondana con lirismo visivo e quando presenta il film alla Vieux Colombier, dichiara: «In realtà, non appena indicate l’atmosfera di Nizza e lo spirito della vita che vi si conduce (e che si conduce anche altrove, purtroppo!), il film muove alla generalizzazione degli insulsi divertimenti, messi sotto l’insegna del grottesco, della carne e della morte, ultimi bruschi trasalimenti d’una società che si abbandona, fino a darvi la nausea e a farvi complici di una soluzione rivoluzionaria». Vigo concretizza ciò che il critico e storico Georges Sadoul, definisce “realismo poetico”, una cifra stilistica sviluppatasi tra gli anni Trenta e la metà dei Quaranta, nella quale rientrano pure: Renè Clair, Jean Renoir, Marcel Carné, Jacques Becker.
Nel 1931 il connubio Vigo-Kaufman prosegue, apprestandosi a Taris o del nuoto (Taris, roi de l’eau), un cortometraggio affidatogli dalla Dulac divenuta, nel frattempo, capo delle produzioni Gaumont-Franco-Film-Aubert. L’oggetto non è più uno spazio, bensì la figura del nuotatore Jean Taris, medaglia d’argento agli europei di Parigi. Sebbene il programma abbia scopi promozionali, il regista parigino consegna dieci minuti di pura sperimentazione: ralenti, sovrimpressioni, raddoppiamenti, inquadrature subacquee. Si sarebbe dovuta realizzare anche una seconda produzione, dedicata al tennis di Henri Cochet, ma il progetto si arena perciò Vigo si cimenta nel cinema di finzione. Idèa una sceneggiatura, scrive un copione e lo presenta al produttore Jacques-Louis Nounez che permette la realizzazione di Zero in condotta (Zéro de conduite), corre l’anno 1933. Il soggetto è esplicitamente autobiografico, il risultato sopraffino sebbene la malattia lo debiliti tanto da girare alcune sequenze sdraiato su un lettino da campo.
C
omprende di non avere molto tempo, si getta a capofitto in un lavoro che sente motivo di vita. La sera della prima, nel Club de l’Écran di Bruxelles, dichiara: «L’infanzia dei fanciulli che vengono abbandonati una sera di ottobre alla riapertura delle scuole nel cortile d’onore da qualche parte in provincia sotto una bandiera qualunque, ma sempre lontano da Casa, dove si spera nell’affetto di una madre, nell’amicizia di un padre, se non è già morto. Ed allora, mi sento stretto dall’angoscia». Quattro collegiali, insofferenti alle ingiuste imposizioni degli ottusi docenti, ordiscono una rivolta che François Truffaut commenterà estasiato: «Quante superbe invenzioni, comiche, poetiche e strazianti, di una crudezza ineguagliata». La guerra di cuscini nel dormitorio tra le piume svolazzanti, la bandiera piratesca issata, la fuga sui tetti verso i cieli della libertà, ribadiscono l’irriverenza visionaria di Vigo. Padroneggiando la tecnica onirica del ralenti, firma: soggetto, sceneggiatura, regia, montaggio di una pellicola che polemizza contro l’educazione scolastica. Una poetica rivolta, e una rivolta poetica contro la disciplina borghese, sintetizzata nell’epiteto gridato al subdolo professore: «Y a la mérde» (nella versione italiana sostituita con un poco efficace: “Vai al diavolo!”). Kaufman dirige egregiamente la fotografia, mentre nei panni dell’unico sorvegliante affabile, appare il valente Jean Dastè, che reciterà anche con Becker, Renoir, Truffaut. Quarantuno minuti controversi sulle note di Maurice Jaubert, bollati come “antifrancesi”, vietati al pubblico e circolati soltanto nel 1946.
Seppure scoraggiato dalla feroce censura, Vigo insegue il personale obiettivo artistico e lavora a un soggetto di Jean Guinée: L’Atalante. Il viaggio dei due freschi sposi Juliette e Jean, la crisi coniugale, le vicissitudini dentro cui si perdono e si ritrovano, rivelano intime allegorie. La chiatta rappresenta un luogo parallelo alla realtà, un guscio chimerico e protetto che naviga tra le atmosfere soffocanti del villaggio di origine e le bieche luci della città di approdo. Un romanticismo allucinato traboccante di grazia, che Sadoul elogia per l’immensa portata narrativa e: «la qualità sorprendente della poesia scaturita da un mondo superficialmente ordinario e grigio». Il realismo viene trascurato, il nebbioso paesaggio fluviale, la tentacolare Parigi assumono dinamiche atemporali, simmetrie ritmiche striate di etereo surrealismo. Lo riprova la sequenza in cui Jean, interpretato da Dastè, si getta in acqua vedendo fluttuare Juliette in abito da sposa, la tedesca Dita Parlo. L’obiettivo poggiato in terra, sollevato oltre il concesso, svela angolazioni innovative creando inattese magie, sopperendo magistralmente all’effetto di uno zoom ancora da inventare. La caratterizzazione dei personaggi intesse raffinate relazioni psicologiche, rende ambivalenti le figure di Pére Jules, il vecchio marinaio interpretato da Michel Simon, o del giovane mozzo Louis Lefèbvre, già apparso in Zero in condotta. Un’opera diventata culto della ‘Nouvelle Vague’, un capolavoro indiscusso oggi, sfortunatamente non all’epoca. I polmoni di Vigo collassano prima del montaggio definitivo, il produttore Nounez deturpa l’essenza dell’opera, applica tagli indecorosi, sostituisce le musiche di Jaubert, distribuisce con il titolo: Le Chaland qui passe. Il responso della critica si abbatte impietoso, peggiore quello del pubblico; Vigo muore misconosciuto pochi giorni dopo l’uscita senza aver visionato il film. Nel 1940 circola una copia verosimilmente integra, ma andata distrutta durante i bombardamenti e presto dimenticata. Nel Cinquanta si appronta una nuova ricostruzione, grazie all’aiuto del fedele Kaufman, ma soltanto negli anni Novanta sarà restaurato, reintegrato dei tagli, delle musiche, del titolo e riportato alla durata originale (85/89 minuti).
Nonostante la breve esistenza e l’epopea sciagurata dei film, Vigo lascia un’innegabile influenza sui registi successivi, infatti Truffaut afferma: «Quando entrai in sala al cinema, non sapevo nemmeno chi fosse. Fui immediatamente sopraffatto da un entusiasmo selvaggio per il suo lavoro». L’anarchico impeto ideologico di Vigo, la poesia delle immagini, lo slancio fantastico, l’imprescindibile libertà, lo consacrano a mito. Il modo di osservare, raccontare, denunciare, sognare il mondo, sommato all’abilità di attingere dall’avanguardia e dal Surrealismo senza restarne vittima, mostrano analogie etiche ed espressive con un altro geniale regista suo contemporaneo, lo spagnolo Louis Buñuel. Jean Vigo, circondato da devoti e ricorrenti collaboratori, elabora una potenza astrattiva mai scema di messaggio o meramente estetica, sempre pulsante d’impegno sociale. Tanta creatività non è simbolica, bensì un atto di dedizione innocente e ribelle, una lucida maniera per mutare l’arte in vita senza che una sconfessi l’altra.
Tre curiosità:
- “Y a la mérde” è l’anagramma dello pseudonimo paterno: Almereyda
- Kaufman diresse la fotografia nell’unico cortometraggio di Samuel Beckett: Film.
- Le chaland qui passe è l’omonima canzone presente nella prima versione del film; canzone conosciuta in Italia, come: Parlami d’amore Mariù.
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