06 Mar Leonora Carrington: “animale umano femminile”
a cura di Ginevra Amadio e Ivana Margarese
“ io mi appartai alla rincorsa d’un nuovo cielo”.
Amelia Rosselli, Variazioni belliche
«Una poesia che cammina, che sorride, che schiudendo le labbra si converte in uccello, poi in pesce, poi sparisce». Così Octavio Paz descrive l’amica Leonora Carrington, creatura libera e capace di molteplici trasformazioni.
E proprio da una opera di Leonora Carrington e dal suo potenziale di reinvenzione trae ispirazione la Biennale d’Arte di Venezia 2022, che propone un viaggio immaginario attraverso le metamorfosi dei corpi e delle definizioni dell’umano.
«La Mostra – spiega la curatrice Cecilia Alemani– Il latte dei sogni prende il titolo da un libro di favole di Leonora Carrington (1917-2011) in cui l’artista descrive un mondo magico nel quale la vita viene costantemente reinventata attraverso il prisma dell’immaginazione e nel quale è concesso cambiare, trasformarsi, diventare altri da sé”.
Ciò che immediatamente colpisce di lei è infatti la straordinaria capacità di metamorfosi nella vita e nell’arte, che la conduce a molteplici cambiamenti, animata da curiosità e forza creativa. Difficile ricondurre il suo sguardo a una categoria precostituita; la flessibilità produttiva la porta a sperimentarsi in diversi ambiti, a sfuggire a ogni rigida canonizzazione mantenendo costante l’ironia e il piacere del gioco nella conoscenza e nel superamento di esperienze profondamente dolorose.
In omaggio alla visione dirompente e preziosa dell’arte di Leonora Carrington proponiamo un percorso di approfondimento sulla autobiografia – in particolare sulla fruttuosa amicizia con la pittrice Remedios Varo e la fotografa Kati Horna – e sulla produzione letteraria di questa poliedrica artista, influenzata nei suoi anni formativi dalla mitologia e dalla relazione con gli animali, tanto che si potrebbe formare un vero e proprio bestiario intimo dell’opera della Carrington.
Come scrive Eva Di Stefano nel suo “La Dea Bianca e il Minotauro. Gli autoritratti fantastici di Leonora Carrington”:
Leonora Carrington, che muove i suoi primi passi d’artista nel contesto del surrealismo francese, rappresenta un caso emblematico del modo in cui la reminiscenza mitologica può fondersi con l’autobiografia, trasformandosi in uno stratagemma dell’immaginazione per esprimere una indicibile verità emozionale.
In questo primo articolo tracceremo una geografia dei luoghi in cui Leonora abitò e maturò le sue esperienze, disegnando una sorta di piccola mappa intima del suo percorso e della sua esperienza artistica. Lei stessa dichiara di avere bisogno di cambiamento e di sentire un senso di soffocamento nel restare troppo a lungo in un posto senza possibile movimento. L’energia e il carisma di Leonora devono trovare libera espressione nei luoghi e nei gesti.
Inghilterra
Nata a Chorley nel Lancashire, contea dell’Inghilterra, il 6 aprile 1917, in una famiglia alto borghese – il padre, un magnate del tessile, era considerato l’uomo più ricco del Lancashire e la madre, Maureen Moorhead, era un’irlandese figlia di un medico di campagna – Leonora cresce, nonostante i tre fratelli, come una bambina solitaria. Loro vanno a scuola, mentre lei viene educata a casa fino a circa undici anni. Quando comincia ad andare a scuola, sin da subito si mostra inquieta e ribelle verso le convenzioni, tanto da venire espulsa da tutte le scuole per bambine inglesi di buona famiglia, dove vige un’educazione cattolica basata su principi rigidi e regole ferree. La sua indole schietta e indipendente la porta a infrangere le regole, a lamentarsi dei vestiti ridicoli e troppo scomodi o a protestare per il fatto che l’istitutrice non le permetta, a differenza dei suoi tre fratelli, di arrampicarsi sugli alberi. Contraria a ogni tipo di disciplina, tende a fare le cose a modo suo. Il mondo di Leonora si forma in maniera considerevole negli anni dell’infanzia, attraverso i racconti della mitologia celtica che apprende dalla madre, le storie di fate e esseri magici.
Italia
Il padre, una volta espulsa dalle scuole cattoliche inglesi, decide di mandarla a studiare in Italia, a Firenze, nel collegio di Miss Penrose. Siamo nel 1932 e qui la giovanissima artista ha modo di conoscere l’arte italiana: «Ero contenta in Italia, spesso andavamo a visitare chiese, conventi e musei; ricordo di avere visto bellissimi affreschi, sculture e molti quadri». A Firenze Leonora ammira le opere di Paolo Uccello, di Giuseppe Arciboldo e Pisanello.
Il pittore de La caccia notturna in particolare resterà uno dei suoi artisti preferiti, da cui trarre confronto e ispirazione. Giulia Ingarao, che all’artista ha dedicato una monografia dal titolo Leonora Carrington. Un viaggio nel Novecento. Dal sogno surrealista alla magia del Messico, scrive:
Se nella costruzione dello spazio la visione di Leonora Carrington risulta di matrice trecentesca, perché più raffinata che grandiosa (Simone Martini, Ambrogio Lorenzetti e anche, nel suo significativo revival di Lorenzetti, Giovanni di Paolo), l’uso antinaturalistico del colore e della luce è invece più affine alle sperimentazioni di Paolo Uccello, di cui ha ammirato La Battaglia di San Romano agli Uffizi e La Nascita della Vergine nella Cappella dell’assunta del Duomo di Prato. Le tre donne sul lato destro della Nascita della Vergine, vestite di rosso, giallo e azzurro e dalla pelle opalina, tornano infatti come citazione trasfigurata in molte delle sue opere, spesso nella stessa sequenza cromatica rosso-giallo-blu (The Pomps of Subsoil, 1947; The Old Maids, 1947; The House Opposite, 1945).
Piani di significato contrapposti, accostamenti spiazzanti, un’intensa e dolente ricerca d’altro. Carrington oltrepassa il reale, delega alla pittura – e alle sue opere letterarie – un compito rivelatorio:
«La bellezza è una responsabilità come un’altra, le donne belle vivono vite speciali come i primi ministri, ma non è questo che voglio veramente, dev’esserci qualcos’altro…».
Leonora Carrington riassume i tratti dell’artista mai incasellabile, battitrice libera, ora surrealista ora metafisica, orientata a un rispecchiamento dell’arte nella vita.
Francia
L’approdo a Parigi, per studiare arte all’Accademia con Amédée Ozenfant, segna non a caso una rottura, lo scarto definitivo dalle norme borghesi, dall’educazione paterna e materna tesa al ‘debutto’ in società. Il ballo che la madre organizza in suo onore al Ritz, alla presenza del re Giorgio V, viene descritto e trasfigurato nel racconto La debuttante (1940, Adelphi 1984) con un gusto per le atmosfere macabre, laddove una iena ben abbigliata, con la faccia strappata a una cameriera, volteggia in scioltezza davanti a un pubblico dabbene.
Questa è Leonora, sangue e follia, sogno e veglia allucinata. Non c’è germe, nella sua produzione, che non preannunci il cortocircuito percettivo, quella ricerca di un filo nascosto (sovrapposto al ‘vero’ reale) di cui parlava André Breton.
L’incontro con Max Ernst – sposato, ventisei anni più grande – è una folgorazione, un’epifania: «Mi sono innamorata dei dipinti di Max prima di innamorarmi di Max». L’amore con Ernst segna il periodo più felice della sua vita, vissuto prima a Parigi, partecipando al gruppo dei surrealisti, e proseguito nel sud della Francia a Saint-Martin d’Ardè in quell’opera d’arte totale che era la loro casa, nutrita da suggestioni visive e costellazioni simboliche.
Il suo universo pittorico, popolato da creature anfibie prossime alle mostruosità di Hieronymus Bosch, si tinge di colori dissonanti, in un’orgia infinita di rimandi ‘sviati’, laddove linguaggio infantile, psicotico e onirico sono strumenti di azione per penetrare il reale. Risuona, qui, la lezione di Anna Maria Ortese, che nel volume In sonno e in veglia dichiara: «Nel respiro, nel sogno, nella visione di patrie perdute il sogno non è una divagazione della mente bensì una porta per collegare l’uomo con le matrici della vita a cui vorremmo sempre tornare». La Ortese, seppure in maniera più melanconica, affida anche lei la sua voce a creature ibride, che mescolano insieme forme umane e forme animali. Una indagine delle affinità tra queste due donne vissute nel medesimo periodo storico, seppure mai incontratesi, meriterebbe a nostro parere un approfondimento.
L’ idillio sentimentale e creativo con Max Ernst venne interrotto dallo scoppio della guerra mondiale. Lo strappo dal compagno, deportato dai nazisti il 3 settembre del 1939 in un campo di concentramento, è per l’artista una lacerazione che la conduce in un disperato stato fisico e mentale:
«Abitavo a Saint Martin d’Ardèche. Avevo pianto per qualche ora, giù, nel villaggio. Poi me n’ero tornata su a casa dove per ventiquattr’ore mi ero abbandonata a conati di vomito provocati volontariamente con acqua di fiori d’arancio e interrotti da un breve sonno. Speravo allora di stornare la sofferenza con quegli spasmi violenti che squassavano il mio stomaco come scosse di terremoto».
Spagna
Leonora, per decisione della famiglia, viene condotta in un sanatorio nel nord della Spagna. Racconterà di questo periodo, mai dimenticato, in un testo pubblicato col titolo di Down below (Giù in fondo) in cui descrive l’orrore e la violenza dei trattamenti sanitari. Inizialmente Leonora parte dalla Francia a causa delle pressioni dell’amica inglese Catherine Yarrow, preoccupata per il suo stato di salute dopo l’arresto di Max Ernst:
Catherine si spaventò e mi supplico di partire con lei, dicendo che se non volevo seguirla sarebbe rimasta lì. Acconsentii. Acconsentì, innanzitutto, perché la Spagna rappresentava per me, nella mia evoluzione, un luogo di scoperte. Acconsentii perché avevo in mente di far visitare a Madrid il passaporto di max, cui ero ancora legata. Quel documento, che portava la sua immagine, diventava per me un’entità e, grazie adesso conservavo il mio potere.
Significativo quanto rileva Alejandro Jodorowsky:
«Quando lui [Max Ernst] venne imprigionato, Leonora ebbe una crisi di pazzia, con tutto l’orrore che questo significa ma anche con tutte le porte che questo male apre nel carcere della mente razionale».
In ospedale psichiatrico Leonora percepisce tutta la sua vulnerabilità, i suoi limiti, la prossimità della violazione e della morte. Il trattamento a base di cardiazol – un farmaco che somministrato in dosi massicce causa tremende convulsioni – la getta in uno stato di inquietudine che non dimenticherà mai. Ogni principio di instabilità la avvicina, tuttavia, alle porte della percezione: visioni, continue rigenerazioni, un magma in ebollizione di follia creativa. Anche in questa condizione di abbattimento fisico e psicologico Leonora reagisce; grazie all’intercessione del padre – che intende spedirla in una clinica in Sudafrica – giunse a Lisbona per imbarcarsi e si rifugia nell’ambasciata messicana. Ad aiutarla c’è il diplomatico Renato Leduc, che diverrà suo marito e con il quale trascorrerà gli anni a New York e a Città del Messico, suo ultimo, impareggiabile approdo.
Messico
«Attraverso lo stato di Laredo io e Renato giungemmo in Messico, in macchina, da New York. Ancora riesco a sentire la sensazione di straniamento che provai: fu come arrivare in un altro pianeta».
Lo sbarco nel paese «più surreale del mondo» presenta a Leonora un panorama deliquescente: «Fu come incontrarsi improvvisamente con un mondo totalmente nuovo. Si respirava un’atmosfera esotica». Qui, nell’ennesima vita sperimentata nell’arte, Carrington si legherà in maniera alchemica a Remedios Varo, altra splendida artista, comparirà nei film di Luis Buñuel, parteciperà con Juan Soriano e Octavio Paz all’esperienza di “Poesia en voz alta”, a sottolineare – ancora una volta – la prismaticità del suo essere.
Al teatro sperimentale (al fianco di un giovane Jodorowsky), Leonora unisce la scultura, il lavoro su rivista, la scrittura e l’amore – ancora una volta pieno, totale, con il fotografo ungherese Chiki Weisz. Da lui avrà due figli, ispiratori e destinatari de Il latte dei sogni.
La creatività di Carrington fluisce sempre in rivoli torbidi, ricolmi di lezioni: dagli studi di alchimia al buddhismo tibetano, dall’ermetismo alla cabala ebraica. La matrice junghiana, già rivelatasi nel 1949, nel debito “intrecciato” con Robert Graves e la sua Dea Bianca (The White Goddess, 1948), si arricchisce della lettura diretta, dell’approccio vivo – quasi un corpo a corpo – con le letture dello psicanalista. L’esplorazione di un certo archetipo femminile, l’intersezione con il mito, con la sua natura generativa, fanno delle opere di Carrington un deposito di immaginari pronti a espandersi e fondersi, nella dimostrazione della perpetua capacità del surrealismo e reinventarsi e contaminarsi.
Ma il Messico tutto è una grande utopia, un ribollire di idee che permeano l’aria, la messa in corpo, se così possiamo dire, di tutto ciò che alimenta i sogni. Leonora lo comprende, e abbraccia il paese come esperienza cosmica, continuando a ricercare e sperimentarsi, facendo dell’arte – e della vita – un concentrato di passioni.
Bibliografia
Leonora Carrington, Giù in fondo, Adelphi 1979.
Leonora Carrington, Il latte dei sogni, Adelphi 2018.
Leonora Carrington, La debuttante, Adelphi 2018
Teresa del Conde, Leonora Carrington. Pensamientos, palabras, imágenes, in L. C. Emerich (a cura di), Una retrospectiva. Les estampas, Bronces, Museo de Arte Moderno, México D. F. 1995.
Eva Di Stefano, La Dea Bianca e il Minotauro. Gli autoritratti fantastici di Leonora Carrington, Actas del Coloquio Thieves of Languages / Ladre di linguaggi, il mito nell’immaginario femminile (a cura di Eleonora Chiavetta), Palermo, Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia, Università di Palermo, 2003.
Joanna Moorhead, Leonora and me, in “The Guardian”, 2 gennaio 2007.
Stefania Zuliani, Carrington, teatralizzazioni oniriche della strega, in “Alias” – il manifesto, 8 agosto 2021.
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