10 Mar Incontro con Ciro Faraldo
Incontro con Ciro Faraldo
a cura di Marilena Lucente
Le foto di Ciro Faraldo sono poesia dello sguardo. Vive a Caserta ma ha girato il mondo, nella vita si occupa di economia ma i suoi giorni sono attraversati dalla passione per la fotografia. Ore e ore per catturare un particolare riverbero della luce, cura nella costruzione della composizione, quando fotografa le persone ne ricava volti che assomigliano a paesaggi. E, reciprocamente, dai paesaggi, dei paesaggi, sembra ricavare l’aspetto umano. Natura e antropologia sempre in dialogo, anche a distanza. “L’attenzione, scrive Simone Wiel, è la forma più rara e più pura della generosità”. E di questa attenzione, generosa, aperta a catturare le forme del mondo, è fatta la fotografia di Ciro Faraldo, Una attenzione che diventa anche politica se ad essere raccontata attraverso le immagini è la città, una città come Caserta, dove convivono due siti Unesco (dei tre della Campania) e una dolorosa trascuratezza delle cose. “L’attenzione, ancora Simon Weil, serve a guarire i nostri difetti molto più della volontà”. E’ dunque, la fotografia, un mezzo per trasformarci. Per trasformare chi guarda, chi è guardato, chi viene sollecitato nello sguardo e nella attenzione.
L’occhio del fotografo abita questo spazio del desiderio in cui la volontà di raccontare si placa nella capacità di accogliere quello che accade davanti ai propri occhi, una sorta di sospensione, ma dinamica, vigile, disponibile.
Della tua attività di fotografo, riesci a ricordare/individuare il momento in cui hai pensato: devo fotografare, devo raccontare quello che vedo?
E’ capitato. Mi ci sono trovato, coinvolto nella fotografia. Avevo undici, dodici anni al massimo. Ho dovuto prendere il posto di mio padre che secondo mia madre non era buono a fare le fotografie nelle occasioni di famiglia. Ho preso il suo posto, ma soprattutto una attrezzatura molto buona che mi ha permesso subito di lavorare sulla qualità. .
Dicono che delle città ci si innamora come ci si innamora di una persona. Com’è il tuo rapporto con Napoli, la città di cui tutto il mondo è innamorato?
L’ho frequentata negli anni Ottanta, quando andavo all’Università. E anche allora avevo l’abitudine di portare con me la macchina fotografica, davo una mano agli amici che studiavano architettura e dovevano fare rilievi e fotografie per sostenere i loro esami. Ma quelli erano anni in cui la città faceva paura, non era bello starci. Non era la Napoli di oggi. Infatti adesso la fotografo con affetto e dedizione. Mi piace il mare, si sente persino nei vicoli. E’ come se la città si fosse accorta di essere bella e proprio per questo è bello guardarla e ritrarla. In generale, però, è difficile per me affezionarmi ad un unico posto. Preferisco la varietà. Quello che mi interessano sono le luci, le persone, gli oggetti. E la presenza dell’acqua.
Ogni fotografo è un viaggiatore, oltre che un narratore. Nella tua esperienza, fotografi di più e meglio quando hai davanti a te paesaggi nuovi o lo sguardo si fa più profondo quando sei nei tuoi spazi di vita?
Un flaneur, così mi ha definito una mia amica, e devo dire che è un concetto in cui mi ci ritrovo molto. Esco, mi guardo intorno, Poi vedo la luce, guardo la luce al variare del tempo. Gli orari: questo è fondamentale in fotografia. Ci sono cose che puoi fotografare in un determinato momento. Dopo un’ora non sono più le stesse. Ho girato il mondo, ed è normale, in viaggio essere predisposti a fotografare, a catturare quante più cose possibile, non sai se potrai farlo ancora, se in quel luogo avrai modo di tornarci.
Quando fotografi una cosa che conosci sai già il risultato, sai se riuscirai a vedere quello che avevi deciso di vedere. Quando viaggi l’alea, il rischio è parte del fotografare.
Anche se bisogna ricordare che non tutta la fotografia è viaggio. Anzi, c’è dietro anche un lavoro duro: se hai calma la foto te la costruisci. Ad esempio, per un paesaggio mi è capitato spesso di dover aspettare l’alba, di cercare a lungo il posto giusto.
A seconda del tempo a disposizione si avranno risultati diversi. Una cosa è l’istantanea, altra la fotografia in posa, fotografare con il cavalletto o con il multiscatto è diverso ancora.
Tante tue fotografie nascono da Caserta e dintorni. Tre siti Unesco in una manciata di chilometri. Tu scegli di raccontarne le criticità. Quali sono?
Le bellezze della città sono conosciute da tutti, sono patrimonio del mondo. Io le guardo con il mio sguardo, racconto lo stato di abbandono in cui si trovano. Spesso con tutta la dolcezza possibile. Per vedere però devi avvicinarti, altrimenti non lo noti. Guardo gli spazi di questa città, li vedo, li lascio belli anche così come sono. Ma scelgo di fotografarli proprio per individuare i punti di debolezza: l’abbandono e il degrado, che poi sono due aspetti della stessa incuria.
Nel tuo voler raccontare il degrado mi sembra ci sia tanta tensione verso il futuro…
La fotografia serve anche a questo. Proprio perché ho viaggiato tanto guardo le cose in prospettiva, immagino come potrebbero essere, quali e quanti cambiamenti potrebbero nascere da una nuova cultura degli spazi che comunque si sta diffondendo ovunque. Anche il futuro va pensato prima, come le fotografie.
Il paesaggio ci parla. Camminiamo e ascoltiamo le voci della natura e della memoria . Qual è il tuo paesaggio? Quello più significativo per te.
Ti ho già detto che sono un uomo di mare. Nel mare ci nasci e ci resti. Ci passo le ore a guardare, a cercare il momento migliore, steso come un bambino ad aspettare. E’ faticoso, è bello.
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