15 Mar Paesaggi in rovina. Note su “Trema la notte” di Nadia Terranova
di Grazia Pulvirenti
La spazio della narrazione è squarciato dall’irrompere di un evento catastrofico: il paesaggio che Nadia Terranova dipinge, o forse sarebbe meglio dire evoca, nel suo ultimo romanzo “Trema la notte” (Einaudi), è, in una voluta coincidenza fra orizzonte della natura e spazio dell’interiorità, sconvolto, destabilizzato e destabilizzante. L’evento intorno a cui vortica la scrittura multiforme di Terranova, è il terremoto che, il 28 dicembre 1908, fece sussultare, sullo Stretto fra Scilla e Cariddi, Reggio Calabria e Messina, le città che su esso si affacciano, e a volte vi si riflettono nel fenomeno della Fata Morgana.
La scrittrice realizza una sorta di lanterna magica tramite la quale proiettare tanto paesaggi di disgregazione e putrefazione, quanto le terribili e abissali malvagità di uomini sconvolti, come pure, e principalmente, la potente forza di donne che riescono ad arginare e a ritrovare un orizzonte di possibile ricostruzione per una umanità che rischia di declinare in un paesaggio che precipita nell’abisso.
Dalle immagini realistiche, eppur dotate di valenza simbolica, di questo racconto impietoso, che ricorda per alcuni tratti il grande precedente kleistiano del “Terremoto in Cile”, emergono le vicende interiori dei due giovani protagonisti, una adolescente siciliana, Barbara, e il bambino Nicola, calabrese, che affrontano, prima della catastrofe, cui sopravvivono, le tragedie quotidiane della loro crescita all’interno di famiglie strampalate – Barbara è ossessionata da un padre-padrone che ne tarpa volontà e ogni possibilità di autodeterminazione; Nicola è vittima di una madre bigotta che lo costringe, ad esempio, a dormire legato in una bara – tragedie, alle quali, nel culmine di un orrore collettivo, riescono a sottrarsi.
Mentre i cadaveri emergono dalle macerie e i sopravvissuti patiscono la sete, la fame, rischiano malattie e si affannano per trovare forme immediate di sopravvivenza, i destini di Barbara e Nicola s’incrociano e s’intrecciano nella prospettiva di un riscatto, paradossalmente procurato loro proprio da quell’evento che li ha deprivati di tutto, proiettandoli in un paesaggio di rovina, ma anche di inaudita e inattesa libertà. La scrittrice crea abilmente, e in maniera del tutto inattesa rispetto alla natura apparentemente distopica della narrazione, una prospettiva inedita, a tratti irridente.
Se in alcune memorabili pagine, la narrazione sembra precipitare con lo stesso deflagrare del paesaggio – “Ogni angolo puzzava di morti e acquedotti saltati”; l’intera città di Messina appare come “un corpo in agonia, [che] sanguinava da finestre fracassate” – una duplice efficace cornice narrativa dà stabilità alla scrittura, tramite due interessanti espedienti: la citazione ad apertura di capitolo di una carta dei tarocchi e il riferimento intertestuale all’opera di una scrittrice messinese, della quale si è persa la memoria, Letteria Montoro, e al suo romanzo “Maria Landini” del 1850.
Il primo crea una sfera di magia e incantamento, veicolando la speranza in un senso altro che nella lettura immediata di un evento non riusciamo a cogliere; il secondo diviene il viatico per il riscatto della giovane protagonista, che, nella lettura dell’opera di Montero, riesce a intercettare uno spazio salvifico e un modello di riscatto. L’apparente fine di una città, di mille storie che vi si sono intrecciate, viene così proiettata in una prospettiva che dà spazio a un nuovo inizio, alla eterna capacità dell’essere umano di ritessere la propria vicenda e le proprie narrazioni.
Tutto ciò conferisce il particolarissimo ductus della narrazione magnifica di Nadia Terranova, che riesce a tessere una temporalità proiettata tra un prima e un dopo l’evento catastrofico, una dimensione collettiva della tragedia con una privata, intima. Se, da una parte Terranova descrive la morte come un destino collettivo, ricostruito coralmente attraverso l’intreccio di varie vicende e fotogrammi della distruzione, se oltre la morte assistiamo a una peggiore e più tremenda dissoluzione di ogni umano valore, con individui pronti a rapinare, stuprare e perpetrare inaudite forme di violenza, dall’altra la vita prevale, con la sua ostinata volontà di ritessere trame di sopravvivenza e orizzonti di senso, proiettati in un futuro, che solo la tempra femminile riesce a edificare.
In questa delicata e sofferente dimensione femminile si verifica il miracolo della rinascita, della cura delle ferite e delle piaghe del dolore, della materiale ricostruzione, inscenata abilmente su quello specchio d’acqua dello Stretto, che assume mille valenze e significati: primo fra tutti quello di una vita che proviene dall’acqua e che solo la donna, figura acquorea per eccellenza, riesce a conservare, reiterare e innervare di speranza.
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