31 Mar Willy Dias, la resistente
DI GINEVRA AMADIO
Sentivo che non era più possibile, sapendo quel fatto,
di negare alla triste verità il suo diritto di precedenza
di fronte alle mie fiabe.
Emma, Una fra tante
Ennesima figura femminile schiacciata dall’oblio della storia, Willy Dias è stata negli anni a cavallo tra le due guerre una giornalista ribelle, dotata di spirito critico e di uno sguardo “diffratto”, capace di cogliere l’insondabile.
Nata Fortunata Morpugno Petronio nel 1872, l’autrice si inserisce nel solco di quella narrativa triestina che da Italo Svevo traccia una parabola ricchissima, puntellata di nomi del calibro di Umberto Saba, Virgilio Giotti, Pier Antonio Quarantotti Gambini, Giani Stuparich, Bobi Bazlen, Stelio Mattioni. Non che più di essi abbia scavato nei grovigli del secolo fondendo ironia, non-lirismo, sguardo acuto sulla modernità. Quella di Dias è piuttosto una letteratura del ‘cuore’, mitigata dal sarcasmo che la rese – giovanissima – firma di punta del “Mefistofele”, della “Trieste letteraria”, della “Favilla” e de “Il Mattino”. Il passaggio a “Il Caffaro” di Genova segnò una svolta nella sua carriera imprimendole un carattere di impegno legato alla questione femminile e all’irredentismo, lasciti genitoriali che vanno a innestarsi su un’altra e più complessa eredità: quella della sintesi tra cultura cattolica e cultura ebraica.
Lo spiega bene Cristina Benussi a proposito de Il sentiero tra le pietre (1940), forse l’opera più significativa di Willy Dias ruotante attorno al divario tra class e all’ipocrisia borghese
Un’insolita sintesi tra l’ideale cattolico di obbedienza e sacrificio e la volontà ebraica di fare sacrifici […] si concretizza nella figura di una madre che lavora e vede garantiti i suoi diritti dal Partito Comunista, cui aderì Dias nel 1945.
Il romanzo è anche un’istantanea sull’inutilità della guerra, sul carico di morte (effettiva, morale) che tale dramma reca con sé. La scrittrice triestina ne riconosce forse il valore ‘emancipazionista’, sostenendo a ragione che la riduzione degli spazi maschili costrinse le donne – non senza diffidenza – a sostituirsi a loro in casa e nei luoghi di lavoro, per poi tornare, comunque, nei ranghi di una quotidianità ordinata.
La topica del femminile, che si dipana in molteplici rivoli di motivi, pervade l’intera opera di Dias e affonda le sue radici in una volontà di indagine, di riscoperta dell’essere donna. Anche Maria Lamberti (1895), lungi dal porsi come romanzo di consumo, racconta «senza remore e con forti accenti critici le ingiustizie e i malesseri di una società per nulla rosa», come dichiara Francesco De Nicola.
L’opera, pubblicata quando Dias aveva ventitré anni, prende le mosse da una delusione d’amore e fotografa l’angustia del matrimonio borghese, il congelamento degli istinti e delle passioni sino all’anestesia finale, quando per la protagonista non resta che la morfina come estremo atto di sottrazione. Ma l’analisi della trama, dei modi un po’ decadenti, apre squarci di interesse allorché Maria si affanna a scoprire la propria interiorità, ad avere «una percezione nuova ed esatta delle cose»:
E provava un sordo rancore per l’amante che aveva saputo abbassarla, poiché era infine una donna borghese, educata in certe idee ristrette, ed il pittore era in realtà troppo corrotto, perché ella non lo biasimasse […]. Le pareva di vedere dinanzi a sé tre classi ben distinte di persone. Nella prima classe, uomini e donne, che si amano, si odiano, s’intendono, un poco volgarmente forse, ma con perfetto buon senso, uniti come una banda di amici o di complici da un sottilissimo filo per il quale, anche se personalmente non si conoscono, messi in presenza si capiscono subito nel loro comune sentimento di godere; vedeva poi delle altre creature che vivevano fuori dalla vita, isolate, chiuse in una cerchia di affetti e d’idee ristrette e limitate, più per istinto e per abitudine che per coscienza d’onestà, sentendo di dovere agire così senza saperne realmente il motivo, trovando riprovevoli e biasimando gli altri senza intenderli, talvolta per invidia, talvolta per disprezzo, sempre per ignoranza, con un odio istintivo che rende talvolta ingiusti i più equi e i più puri, per quel grande desiderio di felicità che è il fondo dell’essere umano; e vedeva, infine, una terza categoria di persone adoratrici della sofferenza più che del piacere, squisitamente originali, strani spesso, infelici ognora per lo squilibrio tra il desiderio e la potenza di conseguimento, che passano per il mondo in cerca d’un ideale irraggiungibile; senza scrupoli, anzi corrotti per disonestà ma per intelligenza troppo fine e troppo acuita dall’abitudine del pensiero; persone che vivono sempre in lotta con loro stessi o coi loro sogni, dimentichi delle realtà positive dell’esistenza.
Quest’acuzie, questo sguardo disincantato, investe anche la produzione poetica di Willy Dias, dispersa tra riviste e fogli d’occasione, ancora mai raccolta in un volume dedicato. Si deve all’intelligenza di Glauco Vazzi e Vanni Scheiwiller l’inserimento di Cose morte nel secondo volume dell’antologia Poeti simbolisti e liberty in Italia, uscito nel 1972 per le edizioni Scheiwiller. La lirica, pubblicata su “La Domenica Letteraria” del 2 febbraio 1896 e poi ripresa, con il titolo Il cofanetto e alcune variazioni, su “Poesia” nell’agosto 1908, anticipa temi cari a Gozzano e al crepuscolarismo, svelando nella ricerca degli oggetti, nei feticci di un passato “beato”, il desiderio di una quiete che avvolga l’anima:
E travolse l’oblio
le bocche che baciammo,
gli sguardi che ci scambiammo,
pallidi di desio.
La nebbia lentamente
cade gelida al piano,
svanisce nel lontano
l’amor, gelidamente.
Come accaduto con Flavia Steno, Jolanda o Emma Boghen Conigliani, la critica ha sottolineato le antinomie della produzione di Dias, quel conservatorismo progressista che ne fa un perfetto campione della mentalità del suo tempo. Eppure, nel sottobosco della scrittura femminile ottocentesca, l’autrice avanza «principi emancipazionisti volti al conseguimento, sia pure graduale, dell’uguaglianza». Lo spiegano bene Ombretta Frau e Cristina Gragnani quando, analizzando sei casi-studio, rilevano che le scrittrici del periodo «mentre non rinnegavano (anzi esaltavano) il ruolo canonico di madre e sposa, si impegnavano a legittimare la figura della donna intellettuale, dell’erudita, della letterata, eliminando, nel far ciò, la patina di trasgressività che comunemente le veniva attribuita».
È un’oscillazione motivata, giacché per queste letterate contestare il sistema implica farne parte, dar vita a una «forza erosiva, lenta e silenziosa ma alla lunga efficace» che si traduce – sempre per citare Frau e Gragnani, «in una forma di resistenza all’omologazione a modi dominanti di rappresentazione del sé».
Willy Dias ne fece le spese negli anni Trenta, quando il regime fascista la allontanò da “Il Caffaro” privandola della liquidazione. Da allora, con incredibile tenacia, portò avanti una serie di istanze di liberazione, svelando – ancora una volta – come il meglio delle letteratura si nutra di contraddizioni, della continua osmosi tra avanzamenti e involuzioni.
Immagine di copertina: Felicita Frai, Pierina col ventaglio del 1947
Bibliografia
F. De Nicola, P. A. Zannoni, La fama e il silenzio. Scrittrici dimenticate del primo Novecento, Venezia, Marsilio, 2002.
W. Dias, Maria Lamberti, Galli, Milano, 1895.
O. Frau – C. Gragnani, Sottoboschi letterari. Sei case studies fra Otto e Novecento, Firenze, Firenze University Press, 2011.
C. Gragnani, Autoritratto in posa. Viaggio nel tempo di Willy Dias, «Quaderno dei colloqui dell’Osservatorio scientifico delle testimonianze autobiografiche scritte e audiovisive», 2, 2007, pp. 96-107.
G. Morandini, La voce che è in lei. Antologia della narrativa femminile italiana tra ‘800 e ‘900, Milano, Bompiani, 1980.
G. Neiger, Letteratura femminile in Mitteleuropa. Un breve confronto tra scrittrici ebree, triestine e austriache, in “iQUAL. Revista de Género e Igualdad”, 2021, 4, pp. 161-171.
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