07 Apr Buon compleanno Annie Vivanti!
a cura di Ginevra Amadio e Ivana Margarese
«Destino di zingara e di fata: venuta su dall’incrocio di razze discordi, emersa da un flutto spumeggiante di emozioni fantastiche, senza patria, senza domicilio, senza legge. Sbalza da un estremo all’altro d’Europa, come una cometa invisibile striscia fuggiasca per il cielo. Un giorno la cometa s’accende nell’orizzonte d’Italia. È Annie Vivanti, una poetessa. Potrebbe cantare in inglese, forse in francese, forse in tedesco: canta in italiano».
Queste sono le parole che Giuseppe Antonio Borgese usa per descrivere Annie Vivanti. Poetessa e scrittrice, amica e musa di Giosuè Carducci, Vivanti è stata per decenni una figura molto conosciuta nel panorama letterario nazionale, capace di conquistarsi un ampio seguito tanto che Matilde Serao coniò il termine vivantine per definire le sue epigone, autrici di romanzi di consumo. La Serao prima e Benedetto Croce poi le riconosceranno una qualità “virile” della scrittura, che è uno dei massimi riconoscimenti a cui una scrittrice dell’epoca può aspirare in Italia.
Eppure tra gli anni ‘30 e il dopoguerra su di lei scende l’oblio, e come ha messo bene in evidenza Antonia Arslan, viene esclusa dal canone ufficiale, relegata ai margini e poi quasi totalmente dimenticata. A convincere i critici più riluttanti a ritornare sui luoghi vivantiani non è bastato neanche il giudizio autorevole di Eugenio Montale, che parla di lei in questi termini:
Indotta e preziosa (ma non mai preziosa ridicola), volage eppure fermissima, amazzone e farfalla, mescolatissima creatura, «mi-Terreneuve mi-papillon» […], Annie non ci ha lasciato purtroppo un libro intero che ce ne dia tutta la misura. Ma in una letteratura come la nostra che non conta una Jane Austen e neppure (qualche gradino al di sotto) una Emily Dickinson, è chiaro che la corona dell’elezione, il cappellino a sonagli di Titania, il segno della grazia di Dio, sono toccati a lei e forse, per ora, soltanto a lei.
Vivanti, con l’ironia sferzante che le era propria, nei suoi scritti ha trattato il matrimonio, la maternità, l’aborto, la guerra, gli stupri, la convivenza, la sudditanza coloniale, ma viene soprattutto ricordata come la giovane donna che fece innamorare Carducci, la figura gioiosa ed effimera di una scrittura seduttiva che mima uno stile di vita, e che verrà definita vivantismo.
Rispetto alle autrici a lei contemporanee, Vivanti porta uno sguardo cosmopolita e indipendente. Nell’introduzione al volume collettaneo dedicato ad Annie Vivanti, le curatrici Sharon Wood ed Erica Moretti hanno dato rilievo al merito della scrittrice di aver introdotto nel panorama letterario italiano delle prime decadi del ventesimo secolo, una dimensione transnazionale («transnational dimension») in virtù delle sue origini multiculturali, e che si presta però bene a descrivere anche l’orientamento in un certo senso multi-nazionale della scrittrice, impegnata nella difesa di cause politiche di diversa natura e nazionalità. Era stata Vivanti stessa comunque a dipingersi come un’apolide e una cittadina del mondo in due quartine della poesia scelta per aprire la propria opera prima dall’evocativo titolo Ego:
II Mondo ha spalancato i suoi mille occhi,
E “Chi sei tu?” mi grida: e “cosa fai?
Dimmi la fede tua, l’età, la patria,
Che cerchi, donde vieni e dove vai!”
Del mio paese chiedi? Io ti rispondo:
Non ho paese: è mia tutta la terra!
La patria mia qual è? Mamma è tedesca,
Babbo italiano, io nacqui in Inghilterra.
Annie Vivanti nasce nel 1868 a Londra, dove il padre Anselmo, un patriota italiano, molto legato a Mazzini, si era rifugiato per ragioni politiche; la madre, Anna Lindau, era tedesca. A nove anni, lei e la sua famiglia si trasferirono dall’Inghilterra in Italia, dove rimangono fino alla morte della madre, sopraggiunta tre anni dopo. In seguito a questo evento traumatico, Annie va col padre nella Svizzera tedesca e, successivamente, in Inghilterra e negli Stati Uniti, dove conosce John Chartres, un avvocato e giornalista irlandese, poi diplomatico e membro del Sinn Féin, e lo sposa. Dal matrimonio nasce Vivien, che agli inizi del Novecento diventa un prodigio del violino, costringendola ad accompagnarla di teatro in teatro per l’Europa, e a fare i conti con la difficile dinamica tra maternità e arte. Se c’è una qualità che appartiene ad Annie Vivanti, è quella di saper stare nel suo tempo, di intuirne i movimenti e le tendenze, ma con uno sguardo ironico e disincantato, che le permette di avere una visione decentrata, che è propria di chi conosce diversi paesi e culture e sa come si costruiscono gli stereotipi, perché li ha vissuti su di sé in prima persona.
«Ebbe Carmen nella fantasia» scrisse Croce nel 1906 individuando il topos “zingaresco” nella sua prima produzione. Tutta la vita e l’opera di Vivanti furono in effetti tese a provocare le inibizioni, a lavorare ai fianchi del perbenismo rompendone dall’interno le gabbie, in piena coerenza con il percorso “emancipazionista” delle autrici a lei coeve. Marion, artista di caffé-concerto (1891) è in tal senso un romanzo emblematico, ruotante attorno all’incontro-scontro tra due esistenze opposte: quella di Anna (che adombra la stessa autrice) e di Marion, «uno strano fiore di palcoscenico» nelle parole di Croce, «una ragazza che è un misto d’amore e di impudicizia, di compassione e di crudeltà, di orgoglio e di bassezza». Tra le giovani vi è un solo elemento di raccordo, un poeta altero e fascinoso che irretisce entrambe. Su di lui dovrà cadere la colpa di un delitto sconveniente, dell’uccisione della liliale Anna da parte di Marion. È tale crimine, come nota Giuliana Morandini, a esprimere «tutte le resistenze che s’oppongono a una scelta creativa femminile e insieme ne delineano il malessere, la continua insistenza di scandalo». Non è un caso, sottolinea ancora la studiosa, che il rifacimento del 1927 veda la sostituzione dell’omicidio con il senso di colpa da parte di Marion, che diviene «”artista” nella soggezione a “uomini dallo sguardo glaciale”».
Tutte le opere di Vivanti furono accompagnate da un notevole successo internazionale di pubblico e di critica, tradotte in molte lingue europee e recensite da grandi nomi della cultura. Allo scoppio della Grande Guerra Annie si addentrò nell’attualità condannando la guerra come atto devastante e le sue conseguenze tragiche, soprattutto ai danni dei più deboli e indifesi.
È questo il tema alla base del suo romanzo Vae victis! (1917) che ha come protagoniste due giovani cognate, Luisa e Chérie, vittime di un abuso sessuale da parte di un gruppo di soldati tedeschi, e Mirella, la figlia adolescente di Luisa, che perde l’uso della parola per il terrore dopo aver assistito, legata alla ringhiera della scala, alla violenza dei soldati sulla madre e sulla zia. Rifugiatesi in Inghilterra, Luisa e Chérie scoprono di essere rimaste incinte e compiono scelte opposte rispetto alla gravidanza; mentre Luisa sceglie di abortire, Chérie decide di tenere il figlio, pur consapevole del destino di condanna e di rifiuto da parte della società:
È strano; eppure anche ora di quando in quando mi riprende quella idea fissa! L’ idea che in quella notte sia morto qualcuno. E cosa più strana ancora non mi riesce di liberarmi dal pensiero che sono io, io stessa che fui uccisa; io, Chérie, che non esisto più. Non posso descrivere questa sensazione. Sarà certo una forma di debolezza cerebrale, di aberrazione provocata dalla scossa morale che abbiamo sofferto. È quello che il buon dottore inglese chiamato a vederci tutte tre, ma specialmente per tentare di guarire Mirella chiama trauma psichico? Egli dice che Mirella soffre di trauma psichico: vuoi dire che la sua anima è stata ferita. Ebbene io, talvolta, provo la sensazione che l’ anima mia non solo sia stata ferita, ma uccisa, assassinata mentre ero svenuta in quella notte di terrore. Mi pare che non sia io non la vera Chérie, ma un fantasma, uno spettro che mi assomiglia e porta il mio nome colei che passeggia per questi placidi parchi inglesi, che parla e sorride, che bacia e conforta Luisa, che prega per Claudio e per Florian.
Il tema della maternità è centrale nella scrittura di Vivanti, che rivolse parte della sua ultima produzione all’esperienza bellica a cominciare da Le bocche inutili (1918), un dramma patriottico in tre atti dedicato al cieco di guerra Giorgio Tognoni. Come anche in Naja Tripudians (1920), opera di denuncia della corruzione sociale a cavallo tra le due guerre, Vivanti svela in Vae Victis! la banalità del male connettendo il conflitto in armi con la maternità. La scelta di Chérie – come ben nota Monica Cristina Storini – «sposta sul corpo della donna, e per di più della madre, l’evidenza dell’orrore guerresco», denunciando come «tale “spazio simbolico” venga attraversato e posseduto dai vincitori alla stessa stregua con cui calpestano e distruggono i territori dei vinti».
In questa prospettiva, al pari dell’Ada Negri di Finestre alte (1923), Vivanti trova nella guerra un osservatorio sulle dinamiche in atto, focalizzando la trasformazione della madre in «sterile e inutile sopravvivenza di un ruolo». Laddove scompaiono i figli, come nel caso di Luisa o delle protagoniste di Negri, «deve soccombere anche la madre» dichiara Storini, «altrimenti si finisce equiparati ai sopravvissuti». Si tratta, a tutti gli effetti, uno sguardo prolungato che impone una revisione dei paradigmi socio-culturali all’interno di un tempo di crisi qual è quello bellico. Vivanti ha saputo raccontarlo assumendo su di sé il ruolo dell’intellettuale-guida, che tenta una ridefinizione di temi e ruoli nello spazio ristretto – ma altamente simbolico – dell’atto narrativo.
Bibliografia
G. A. Borgese, La vita e il libro, Terza serie e conclusione, Torino, Fratelli Bocca, 1913.
G. Carducci, A. Vivanti, Addio caro orco: lettere e ricordi (1889-1906), a cura di A. Folli, Milano, Feltrinelli, 2004.
C. Gubert, Cronache dal fronte domestico. Le scrittrici italiane e la Grande Guerra, in Ausencias: Escritoras en los màrgenes de la cultura, ed. por M. Arriaga Flórez – S. Bartolotta – M. Martín Clavijo, Sevilla, ArCiBel Editores, 2012, pp. 585-603.
E. Montale, Un amoroso incontro, in Id., Il secondo mestiere. Prose 1920-1979, a cura di G. Zampa, tomo I, Milano, Mondadori, 1996.
G. Morandini, La voce che è in lei. Antologia della narrativa femminile italiana tra ‘800 e ‘900, Milano, Bompiani, 1980.
M. C. Storini, Il secchio di Duchamp. Usi e riusi della scrittura femminile in Italia dalla fine dell’Ottocento al Terzo millennio, Pisa, Pacini, 2016.
S. Wood, E. Moretti (a cura di), Annie Chartres Vivanti. Transnational Politics, Identity, and Culture, Vancouver, Fairleigh Dickinson University Press, 2016.
A. Vivanti, Vae victis!, Milano, Quintieri, 1917
A. Vivanti, Marion, artista di caffé-concerto, Palermo, Sellerio, 2006.
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