23 Ago Donne indomite: le medichesse di Erika Maderna
a cura di Ginevra Amadio
«Se gli uomini hanno dominato l’universo delle parole, le donne hanno avuto potere sul mondo delle cose, apportando un contributo significativo sul fronte esperienziale e avvantaggiandosi nell’osservazione e nella pratica, nella conoscenza della natura e del suo impiego a beneficio della comunità».
Si apre con queste parole Medichesse di Erika Maderna, straordinaria analisi della “vocazione femminile alla cura” pubblicato da Aboca nel 2012 e ora in libreria in una nuova edizione. Un viaggio nella cultura medica ed erboristica, che restituisce non solo la complessità di tale sapere ma ne evidenzia il peso eminentemente femminile – dalle dee alle maghe, dalle levatrici alle alchimiste. Ciascuna con una storia da raccontare, e un percorso da autonomia difficilmente incasellabile.
La rappresentazione tradizionale del femminile vuole la donna portatrice di pace, conciliazione, dedita al mestiere di ‘cura’ come pratica – anche – di ricomposizione dell’ordine. Le tue Medichesse mostrano un lato diverso; dietro l’attitudine alla cura c’è un mondo di sapere, non una predisposizione culturale ma una tensione quasi esistenziale, che si rinnova nel tempo grazie allo studio, al lavoro sul corpo, al rapporto con la natura. Quanto è importante ri-scoprire la loro storia?
È fondamentale, per poter tracciare una narrazione che comprenda il contributo delle donne in un campo disciplinare che per molto tempo è stato raccontato solo al maschile. E invece le mediche sono state parte in causa sostanziale nella storia della cura, e la loro vicenda permette di scoprire un panorama complesso e in gran parte sorprendente. Mi piace pensare che l’attitudine naturale alla cura sia un fattore intrinseco in ogni essere umano, al di là del genere. Le donne tuttavia all’interno delle comunità primitive hanno avuto un ruolo in prevalenza stanziale, e questo ha consentito loro di sviluppare saperi legati alla conoscenza e all’utilizzo delle risorse naturali. In seguito, molte di esse hanno avuto la possibilità di distinguersi nella pratica della medicina. Lo dimostrano le molte declinazioni della parola “medico” al femminile a partire dalla lingua greca fino alle attestazioni delle fonti documentali medievali e moderne, unitamente agli aneddoti che hanno fatto emergere biografie, notizie e perfino citazioni di titoli di opere scritte da mani femminili.
Mi piacerebbe mi raccontassi il tuo ‘laboratorio’: come hai reperito le fonti, quanto tempo hai impiegato per studiare e rielaborare il percorso di queste donne?
La mia ricerca è durata circa un anno, al quale si sono aggiunti i tempi di stesura del libro. Amo molto la fase di raccolta delle fonti, che mi costringe a giornate di immersione nelle biblioteche dei dipartimenti universitari. Per la parte relativa alla storia greca e romana ho cercato di reperire le informazioni consultando direttamente i testi originali degli autori classici, mentre per l’epoca medievale e per il capitolo sulle alchimiste mi sono affidata a studi specifici sulle figure che ho scelto di approfondire. Infine, per quanto riguarda le donne più rappresentative presenti nel libro, Metrodora, Trotula de Ruggiero e Ildegarda di Bingen, mi sono procurata i loro trattati e ricettari in buona traduzione italiana, per cercare di ricavare spunti preziosi che potessero aiutarmi a definire meglio le loro personalità e il loro contributo. Altrettanto appassionante è stata la ricerca delle fonti iconografiche. È infatti possibile tracciare una storia della cura al femminile anche attraverso l’arte: affreschi e bassorilievi per il mondo greco e romano, mentre per il medioevo, oltre alla pittura, le splendide miniature e illustrazioni dei Tacuina Sanitatis, che sono prodighi di raffigurazioni di donne.
La visione di Trotula, una delle mulieres salernitanae (frequentatrice della Scuola Medica Salernitana, la prima aperta alle donne) è di grande interesse: il rapporto tra persone e natura intese come micro e macrocosmo sembra precedere quella visione – prettamente attuale – di una salute che non può prescindere dalla sostenibilità. Quanto c’è di attuale nel suo pensiero?
Trotula de Ruggiero è un personaggio di fondamentale rilevanza nel percorso della storia della medicina al femminile. Innanzitutto per l’eccezionalità della sua presenza, in quanto donna, all’interno di una istituzione accademica, il che si spiega in parte con il carattere del tutto singolare del contesto salernitano in epoca medievale; inoltre, perché attraverso lo studio del corpus di scritti a lei attribuiti siamo in grado di riconsiderare la tradizione della medicina femminile medievale attraverso un punto di vista femminile. Gli scritti di Trotula rivelano grande eterogeneità: sulla base della conoscenza della medicina ippocratica si inserisce il carattere compilativo di una raccolta destinata a una consultazione pratica, aperta a una tradizione composita resa disponibile dalla circolazione della medicina araba e delle prassi empiriche delle cosiddette mulieres salernitanae, nelle cui indicazioni fa capolino l’elemento magico, retaggio dell’antica cultura precristiana. Le ricette cosmetiche rappresentano un esempio emblematico di questo approccio eclettico, e ci parlano, oltre che di una circolazione ampia di prescrizioni e consigli, di un approccio tutto femminile alla salute, che non tralascia la dimensione della bellezza come parte integrante del benessere psicofisico.
Anche la Viriditas di Ildegarda altro non è che una condizione di equilibrio tra psiche e soma. Oggi si riconosce sempre più l’importanza di tale armonia, rilevando il peso delle incrinazioni significative in termini di malattia fisica e/o mentale. Credi che l’occhio e il contributo femminile abbiano contribuito significativamente a tale ‘scoperta’?
Ildegarda è stata certamente una grande innovatrice, ma ha anche operato un recupero di approcci precedenti attenti all’interazione fra salute fisica e psichica, già presenti nella scuola pitagorica, per esempio, ma anche in tutta la tradizione di ascendenza ippocratica. La parola viriditas, che invece è tutta ildegardiana, evoca suggestioni alchemiche ma anche un poeticissimo omaggio al potere rigenerativo del mondo vegetale, a quel miracolo del germogliare e rinascere da cui l’essere umano può trarre un grande insegnamento per sé. Ildegarda fu molto attenta all’osservazione degli stati d’animo e d’umore, nel definire la sua filosofia della salute. Nei suoi scritti dedicò attenzione alla malinconia, ricercandone cause e rimedi, e riconobbe il grande valore di cura di cui è portatrice una gioiosa attitudine verso la vita. E questo approccio possiede, a mio parere, un’impronta spiccatamente femminile.
Infine una domanda di ‘gusto’: a quale medichessa ti sei affezionata di più?
È difficile dirlo. Mi sono appassionata moltissimo alle figure di maggiore rilievo, quali Trotula e Ildegarda, in quanto ci offrono scritti di grande interesse e mi hanno permesso di accedere a un livello di ricerca più approfondito. Ma confesso che ho anche percepito tutto il fascino delle fonti più frammentarie, che fanno emergere voci lontane che chiedono di essere ascoltate. Ho immaginato i volti e le biografie di quelle mediche del passato di cui restano solo i nomi scolpiti sulle lapidi funebri, corredati dal riferimento a una professione che ne ha fissato in eterno l’identità. Oppure i cenni sporadici sparsi fra le pagine delle fonti secondarie: ancora una volta, spesso sono nulla più che nomi, presenze, allusioni, e tuttavia costituiscono tasselli preziosi da ricomporre, per aggiungere un pezzettino in più alla storia in gran parte ancora oscura delle nostre antenate.
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