30 Ago “Una proposta stronza”. Dialogo sulla scrittura con Maddalena Fingerle
a cura di Ivana Margarese
L’immagine di Maddalena Fingerle è di Julia Mayer
Comincio dal titolo: “Una proposta stronza”. Un titolo che mi piace moltissimo. Puoi spiegarci da cosa nasce?
La proposta stronza – che si chiama così solo nel titolo e nelle note, nel testo viene definita timidamente “bizzarra” – la fa un editore squalo alla voce narrante, che è incinta: si tratta di scrivere un testo sulla gravidanza. Nelle note una voce più schietta ammette che in realtà si trattava di un’editrice, ma di aver cambiato il riferimento per renderla irriconoscibile.
A un certo punto parli della presunta dimensione inconscia della scrittura, rivelata in questo caso dall’uso di una parola “sbagliata” al posto di un’altra. La parola dunque è anche traccia, memoria di un passato che scegli di mostrare e non considerare come errore e cancellare. Dal momento che credo sia esperienza comune a chi scrive, vorrei poter avere una tua considerazione al riguardo.
Nel testo il riferimento alla presunta dimensione inconscia della scrittura, per cui la voce narrante chiama “editore” quello che ormai è l’ex editore, è ironico. Ma al di là del caso specifico credo che ci sia effettivamente una dimensione inconscia, durante il processo di scrittura. A me, per esempio, capita di scrivere cose che capisco solo dopo averle scritte, ma è un processo legato alla prima stesura su cui poi si lavora.
“Mi sono sempre riempita la bocca con una frase che in realtà, a essere sincera, non avevo affatto capito: la scrittura è un percorso graduale, dicevo. Ma è vero, che è, o meglio, che dovrebbe essere un percorso graduale. Il problema è che non lo è quasi mai, perché spesso non c’è spazio, nel mondo editoriale, per una gradualità. Andrebbe contro le vendite, le tanto importanti, fondamentali vendite. Nella scrittura si possono bruciare le tappe, e nessuno ti dice niente, anzi: magari le bruci! Nessuno ti dice: aspetta, ascolta, prenditi il tuo tempo, riflettici ancora, pensaci meglio. Forse non è il momento di scrivere, questo, è il momento di pensare. O leggere. Ma chi pensa, oggi? Chi ha davvero il tempo di pensare? Chi si prende davvero il tempo per pensare?”.
Il testo sin dall’inizio mette il lettore davanti, con toni ironici, a una querelle con un editore e al valore diverso che si dà alla scrittura, talvolta (spesso?) ridotta a performance o a prodotto confezionato in certi modi. Cosa puoi dire adesso sulla gradualità dello scrivere? O meglio usando la tua bella espressione della “gradualità scattosa” dello scrivere?
Credo anche io che la scrittura debba essere graduale, ma non è una gradualità chiara, ben definita. Si fa un passo avanti, poi magari se ne fanno tre indietro, si scrivono dieci pagine e poi si buttano via, ma non sono davvero buttate, questo intende la protagonista con gradualità “scattosa”. Personalmente ho sempre avuto l’impressione che avere fretta, nella scrittura, possa essere deleterio. Come lo è il farsi prendere da dinamiche esterne ai testi, scrivere per una casa editrice, pensare al premio o alla presentazione o al riconoscimento o a tizia caia che leggerà e magari si riconoscerà. Ci sono varie tappe, nella scrittura, che andrebbero rispettate, e mentre si scrive secondo me bisognerebbe solo scrivere, il resto viene dopo, e forse non è poi così importante come si tende spesso a credere.
La scrittura in questo testo è in costante dialogo con le note. A cosa è dovuta questa scelta di intreccio tra testo e paratesto?
Mi piaceva l’idea di giocare, con il paratesto, a far commentare alla voce narrante ciò che scriveva nel testo, in maniera da poter far convivere diversi livelli di lettura.
A un certo punto nel libro parli della voce e dell’importanza che può avere nel nostro entrare o non entrare in contatto con gli altri. Il feto pare riconosca subito la voce della madre. Scrivi anche che ami ascoltare la tua voce che prende spazio mentre parli al microfono. Cosa significa per te privilegiare l’udito (se in effetti privilegi l’udito rispetto agli altri sensi)?
La protagonista è estremamente legata al senso dell’udito, sarà perché ha una tendenza personale a esserlo, sarà perché il collegamento che ha con il feto lo vive attraverso la propria voce. L’amore per le voci, per i dialetti, per le cadenze, ma anche la preferenza per l’udito rispetto ad altri sensi sono elementi che ho preso dalla mia esperienza: sono molto uditiva e poco visiva. Per me questo significa passare ore ad ascoltare Radio3, registrare letture per capire se i testi che scrivo funzionano, innamorarmi delle persone in base a come parlano, ma al tempo stesso fare fatica a riconoscere i volti o a stancarmi più in video che al telefono.
L’ultima domanda è sulle ragioni della scelta di accostare il tema della gravidanza ai temi del processo creativo, costruendo un testo assai lontano da ogni retorica ma denso di domande felicemente impertinenti e ironiche, che interpellano i lettori in modo giocoso, lontano da quella tirannia dell’ego che spesso produce di questi tempi la scrittura autobiografica.
Partiamo da una premessa sulla scrittura autobiografica, che fa la stessa protagonista citando Maxim Gorki: “non devi essere stato in una padella per poter scrivere di una cotoletta”. Così io non devo essere incinta per poter scrivere un testo che parla di gravidanza. Questo discorso ovviamente vale per qualsiasi tema. L’idea di accostare i due argomenti mi è venuta a partire dalla citazione di Marino che apre il testo e si è concretizzata mentre leggevo studi sulla voce, in particolare Tomatis, ma anche osservando che – sia in Italia che in Germania – il tema della gravidanza viene esposto durante le presentazioni. Per esempio: durante una presentazione in collegamento a una scrittrice incinta viene chiesto di spiegare il motivo per il quale non può più prendere l’aereo, rendendo così una questione privata e intima parte di uno show. A quel punto alla scrittrice rimangono solo due possibilità: cedere dando la notizia o passare per antipatica e non farlo. Dell’esposizione di figl*, in particolare di fotografie – altro tema che compare nel testo – ne parlavo, proprio prima di scrivere il testo, con una collega e amica tedesca che per lavoro era stata a stretto contatto con la pornografia infantile.
Quando a maggio sentii Roberto Venturini, che ringrazio davvero di cuore per la fiducia, per il tatto e per l’intelligenza con cui ha lavorato, avevo solo questi elementi confusi. Io gli dicevo: ma è una follia, le battute sono troppe, il tema non è definito, ho bisogno almeno di un anno. Lui mi diceva che andava bene, anzi in realtà mi disse: non far piangere gli angeli e scrivilo. Così l’ansia e la pressione di dover scrivere entro una certa data sparirono, dandomi la possibilità di scriverlo con i miei tempi e, soprattutto, di divertirmi. Se mi avesse dato una scadenza probabilmente non avrebbe funzionato perché a volte la “gradualità scattosa” è anche questa: liberarsi (magari pure insieme) delle ansie esterne per poter entrare nel testo in tutta tranquillità.
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